Data di pubblicazione: 18/01/2021
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Le politiche sociali e sanitarie del centrosinistra nelle Marche: un bilancio


Da alcuni mesi nella regione Marche si è avuto un avvicendamento politico con un cambio di maggioranza e di partiti alla guida della Regione. E’ tempo anche per il Gruppo Solidarietà di fare un bilancio della appena conclusa azione di governo del centro sinistra, dal punto di vista dei temi che ci stanno a cuore ossia delle politiche sociali e sanitarie. Lo facciamo con alcune domande a Fabio Ragaini (a cura della redazione). Vedi Appunti sulle politiche sociali, n. 1/2021 - La gran parte del lavoro del Gruppo è realizzato da volontari, ma non tutto. Se questo lavoro ti è utile PUOI SOSTENERLO IN MOLTO MODI.


Negli ultimi 3 lustri abbiamo visto governo e maggioranze di centro sinistra alla guida della Regione Marche. Tentiamo di fare un bilancio.

Cerco di proporre un sintetico e certamente parziale inquadramento. Possiamo in realtà parlare di cinque legislature: 1995-2005, presidente l’ex magistrato D’Ambrosio; 2005-2015, presidente Spacca (già vicepresidente), 2015-2020, presidente Ceriscioli. Dal 1995 al 2010 giunta di centro sinistra con presenza significativa dei partiti a sinistra (Rifondazione, Comunisti italiani) di quello che diventerà partito democratico.

Nel 2010 la seconda giunta Spacca si allarga al centro (UDC) e resta fuori SEL. Nel 2015 stessa situazione, con i partiti a sinistra del PD che non entrano in consiglio e con giunta di centro sinistra composta da PD, che fa il pieno di voti, e da alcuni satelliti (UDC, socialisti, ecc …). Nel 2015 entrano in Consiglio i 5 stelle. Nel 2020, come noto, la guida della Regione passa al centro destra. L’UDC si è spostata a destra; l’attuale presidente del consiglio regionale è stato anni addietro consigliere di maggioranza di centro sinistra; il capogabinetto di Spacca lo è ora anche dell’attuale presidente. E ricordiamo che anche nella nostra regione, nei primi anni novanta abbiamo avuto una tangentopoli marchigiana.

Sicuramente le giunte D’Ambrosio segnano un punto di ripartenza programmatoria in ambito sanitario e sociale, con l’approvazione dei Piano sanitari e sociali, grazie anche al traino nazionale dei governi di centro sinistra: nel 1996 nasce il governo Prodi, a fine degli anni 90 viene approvata le riforma ter della sanità (Bindi), nel 2000 la riforma dell’assistenza (Turco). Nel 2000 e nel 2002, in attuazione di norme nazionali, si vanno a definire per la prima volta i requisiti di autorizzazione delle strutture sanitarie, sociosanitarie e sociali. Nel 2003 (ci ritorneremo sotto) viene istituita l’Azienda sanitaria unica regionale (ASUR), che segnerà fortemente, negli anni successivi, l’organizzazione sanitaria regionale. Si approvano o modificano leggi di settore (disabilità, minori), che finanziano interventi comunali, insieme alla costituzione ed al potenziamento dei servizi distrettuali di valutazione-presa in carico (unità multidisciplinari); un percorso, insieme a molti altri, rimasto però incompiuto.

Dal punto di vista istituzionale: negli anni 1995-2000 e 2015-2020 le deleghe alla sanità e ai servizi sociali sono state assunte dalla stessa persona. Nell’ultima legislatura dallo stesso presidente. Nel periodo 2000-2015, si sono succeduti ai servizi sociali assessori DS, PRC, UDC. Il periodo più vitale è stato quello 2000-2005 (Secchiaroli, già assessore nel Comune di Pesaro), con l’attuazione regionale della 328 e, di fatto, la costruzione del sistema dei servizi sociali regionale. Nei periodi in cui lo stesso assessore ha avuto la delega alla sanità e ai servizi sociali, questi ultimi hanno assunto un ruolo ancillare.

Puoi ricordarci i numeri di massima della spesa, rispetto alle politiche sociali e sociosanitarie in questi anni, facendo raffronti con le medie nazionali, e darne una tua valutazione?

Il finanziamento sanitario regionale è dato dal riparto del Fondo sanitario nazionale, che deve assicurare l’erogazione dei Livelli Essenziali di Assistenza (definiti nel 2001 e poi modificati nel 2017). Rispetto ai finanziamenti per la spesa sociale, la situazione è diversa e diversa è stata la sua evoluzione. Il Fondo sociale nazionale viene istituito alla fine degli anni ’90. A differenza del settore sanitario, nell’ambito dei servizi sociali non sono mai stati definiti i Livelli Essenziali delle Prestazioni, e, con la riforma costituzionale del 2001, questo settore è diventato competenza esclusiva delle Regioni, fatta eccezione per la definizione dei Livelli Essenziali, che rimane di competenza statale.

Il Fondo sociale nazionale, ad eccezione di questi ultimi anni, non ha mai avuto carattere strutturale: ad ogni finanziaria se ne definiva l’importo, con conseguenti ricadute sulla programmazione regionale. E’ oscillato da oltre un 1 miliardo di euro all’azzeramento, durante il governo Berlusconi, per poi assestarsi negli ultimi anni a circa 300 milioni.

A questo Fondo, a disposizione delle Regioni per il finanziamento dei servizi, si sono negli anni aggiunti fondi, anche consistenti, con vincolo di destinazione (ad esempio: povertà, disabilità gravissima/non autosufficienza, Dopo di Noi, ecc ..). Ad ogni modo, fino al 2014 la regione Marche ha finanziato il settore con propri fondi: circa 30 milioni di euro all’anno (una quota significativa se rapportata ad altre Regioni). Circa la stessa cifra, con qualche variazione annuale,  proveniva da fondi statali.

Nel 2015, dopo l’imponente riduzione dei trasferimenti statali alle Regioni, il fondo regionale è stato azzerato. Dal 2015 la giunta Ceriscioli ha utilizzato risorse del fondo sanitario per finanziare interventi precedentemente afferenti al fondo sociale, in particolare nell’area disabilità. Erano interventi non sempre riconducibili all’area sociosanitaria, come il sostegno ai Comuni per l’educativa scolastica o il finanziamento delle borse lavoro per inserimento lavorativo (ora tirocini d’inclusione).

Ceriscioli si è fatto vanto di utilizzare fondi sanitari per interventi sociali: i dirigenti avrebbero dovuto fargli presente che pagare con il fondo le quote sanitarie dei servizi sociosanitari è obbligatorio; utilizzare il fondo sanitario per interventi sociali è illegittimo. Ciò che invece la Regione non ha quasi mai fatto con atti di sistema, se non dal 2015, è il finanziamento dei servizi sociosanitari attraverso le quote sanitarie così come previste nella normativa sui livelli essenziali.

Qual è stata la visione generale dell’azione di governo in questi anni? Quali principi fondanti la hanno caratterizzata? Ritieni di poter indicare dei punti di rottura o ripensamenti salienti, rispetto ad alcune impostazioni che erano state avviate?

Tenendo conto di quanto sopra detto, mi sembra di poter dire che nel decennio 1995-2005 si è percepito lo sforzo di riorganizzare anche - come detto - sulla spinta nazionale, a fronte di una grande arretratezza programmatoria, e di dare risposte ad esigenze che si manifestavano (penso, ad esempio, alle linee guida sull’assistenza domiciliare, ma soprattutto ai numerosi gruppi di lavoro, in molti dei quali anche noi abbiamo partecipato: interventi disabilità, requisiti autorizzazioni, norme volontariato, ecc….), seppur con una struttura organizzativa degli assessorati assai precaria.

Successivamente, e con una progressione sempre più veloce, il quadro è andato mutando. In particolare, nel secondo mandato di Spacca e in quello di Ceriscioli. Segnalerei questi aspetti: la sostanziale interruzione di alcuni percorsi programmatori, cui ho precedentemente accennato; il disinvestimento nei servizi di valutazione e presa in carico; l’incapacità di un effettivo raccordo tra il sistema territoriale dei servizi sociali e quello dei servizi sanitari; l’espansione, in particolare del privato for profit (mi riferisco al Gruppo Santo Stefano, confluito negli ultimi anni nel Gruppo KOS di Carlo De Benedetti), ma anche di molto privato non profit, i cosiddetti ex art. 26/833, che in molti casi si caratterizzano per un approccio del tutto prestazionale, senza legami con il territorio in cui operano. L’espansione del privato speculativo, in particolare dai primi anni 2000, in assenza di regolamentazione regionale, ha determinato accordi territoriali  particolarmente remunerativi e vantaggiosi che hanno condizionato fortemente l’evoluzione successiva della programmazione e regolamentazione degli interventi[1].

Su questo forse può essere utile rimandare alla intervista che abbiamo realizzato nel 2016, Servizi sociosanitari. A due anni dall’accordo Regione-Enti gestori. Un bilancio[2]. Aggiungo un ulteriore elemento dirompente: la scelta nel 2003 (secondo mandato D’Ambrosio) di realizzare l’Azienda sanitaria unica regionale (ASUR), provocando, nei fatti una desertificazione territoriale.

Senza ripercorrere qui l’evoluzione degli assetti organizzativi, possiamo dire che con la fine della personalità giuridica delle 13 Zone territoriali, e con la contestuale istituzione delle Aree Vaste provinciali, senza personalità giuridica, il livello decisionale si è definitivamente spostato a livello centrale (direttore generale), e la partecipazione territoriale, anche da parte degli enti locali, è diventata di livello provinciale. Tutto questo in un quadro in cui i direttori di Area Vasta non hanno potere decisionale. Dal 2010 in avanti di fatto si è chiusa la fase, non formale, della partecipazione. Ti dovresti confrontare con un direttore a livello provinciale, che non decide niente e che, per qualsiasi aspetto di sostanza, deve chiedere al Direttore generale. Il tutto in un quadro di scarsissima conoscenza territoriale, non vicariata dalle articolazioni distrettuali.

In poco tempo si è chiusa sostanzialmente la partecipazione sia degli organismi di rappresentanza che degli enti locali. Le Conferenze dei sindaci, di fatto, non hanno contato più nulla.  L’accentramento regionale della gestione sanitaria, insieme alla progressiva centralizzazione regionale, ha progressivamente ridotto un vitale percorso partecipativo. Sono anni di pesantissime riduzioni di personale a livello ospedaliero, ma soprattutto a livello territoriale e di una costante situazione conflittuale tra la dirigenza della sanità regionale e quella dell’unica azienda sanitaria. Si può poi aggiungere che alcune scelte dirigenziali apicali si sono rivelate perlomeno infelici. Quindi da un lato una crescente distanza del livello decisionale dalla conoscenza dei territori e delle loro necessità, dall’altro la difficoltà di queste istanze ad essere rappresentate.

Sembra che nel tempo si sia maturata, anche a livello culturale e politico, la convinzione di aver dato troppo a tutti, con conseguenti azione riparatrici, “riformiste”. Che convinzioni hai maturato, su quest’aspetto più generale?

Sicuramente questo è un aspetto presente. Soprattutto lo si respira a livello territoriale, dove più sentita è la distanza tra domanda e offerta. Ma poi però lo stesso livello territoriale, penso soprattutto ai Comuni, non agisce per porre all’attenzione ad un livello più alto (Regione, Stato) questi problemi.

Un altro aspetto è la poca consapevolezza a livello politico dei diritti, spesso derubricati a bisogni. Mi viene in mente, se non ricordo male alla fine del 2006, eravamo ad un incontro che avevamo ottenuto (coordinavamo un Comitato regionale di associazioni) con tutti i capigruppo. Ponemmo tra le altre questioni il tema della qualità dei servizi residenziali per anziani e dell’assunzione delle quote sanitarie, previste dai LEA, nelle residenze sociosanitarie. Ricordo che intervenne, in maniera molto decisa, l’assessore al Bilancio dicendo che con le nostre proposte avremmo fatto saltare il Bilancio. Non sapeva che finanziare quegli interventi non era una concessione, ma un obbligo. Oggi il finanziamento (ancora inadeguato) è all’incirca di 60 milioni/anno e chiaramente la Regione non è andata in bancarotta.

Proprio pochi giorni fa, una persona con una grave disabilità motoria, cui nell’ultimo periodo erano sopraggiunti altri importanti problemi, mi diceva che il sindaco la incitava a trovare le forze per far fronte a questa nuova situazione. Mi è sembrato soprattutto un invito ad evitare di chiedere.

Ciò che però mi sembra più evidente è la mancanza di un orizzonte valoriale ed operativo di riferimento a livello regionale. Ad esempio, nel sostegno alla domiciliarità si sommano interventi diversi, con fondi differenziati, senza un effettivo coordinamento, ma anche senza chiarezza di obiettivi. Se noi analizziamo l’ultimo Piano sociosanitario della regione, sul quale per la prima volta dopo decenni siamo stati incapaci di proporre  emendamenti, si fa davvero fatica a capire quali siano gli obiettivi da perseguire, a partire dalla definizione della situazione di partenza. L’impressione è che, per quanto riguarda i nostri ambiti di riferimento, ci sia difficoltà proprio a comprendere e riconoscere da dove si parte e quale sia l’obiettivo di fondo, l’orizzonte entro cui collocare progetti e finanziamenti.

Ritieni che le carenze principali nell’azione di governo e legislativa siano dovute ad insufficienze degli organismi tecnici a supporto o ad una  scarsa visione strategica nella direzione da indicare? Spesso alcuni progetti politici naufragano per una azione legislativa discendente, non sufficientemente chiara e precisa. Questo ha riguardato anche la nostra Regione? Puoi indicare alcuni esempi di storture ed ingiustizie, dovute a norme poco chiare o imprecise?

Senza voler generalizzare e riagganciandomi  a quanto sopra detto, mi sembra che negli anni sia emersa in maniera evidente l’incapacità di delineare strategie adeguate di confronto e di ascolto. La gran parte del livello dirigenziale è in grande difficoltà su questo punto. Concepisce il confronto come adempimento e non come risorsa. Diciamo che ne ha scarsa attitudine e lo attua solo se l’interlocutore ha forza o perché lo si ritiene, in quel momento, utile rispetto a quello che si sta facendo.

Poi paghiamo un livello politico come minimo non all’altezza. Basta guardare il governo della sanità negli ultimi 15 anni. Per due legislature consecutive abbiamo avuto lo stesso assessore: in 10 anni dovresti conoscere il settore come nessun altro, ma la mia impressione è che alla fine del secondo mandato non fosse molto più avanti, in competenza e consapevolezza, di come era all’inizio del primo! Se è così, poi si fa fatica a capire con quali strumenti si scelgano i dirigenti. E ricordiamoci che circa l’80% del bilancio regionale riguarda la sanità.

Peraltro, sempre in sanità, per anni, in ambito dirigenziale,  sono circolate sempre le stesse persone, qualcuno saltava un giro e rientrava in quello successivo, oppure rientrava nella prima casella vuota da riempire. Il tema delle competenze è un problema enorme: nell’ultima legislatura molti direttori di Distretto, che nelle Marche non hanno mai sostanzialmente neanche gestito budget, sono diventati direttori di Area Vasta (che gestisce ospedali) e addirittura di Aziende Ospedaliere. Mi chiedo se non servano competenze specifiche per la direzione di sistemi complessi quali gli ospedali e se sia il caso di smettere di scegliere i dirigenti per consonanza politica più che per competenza.

Del resto sul versante sociale il ruolo dei Coordinatori d’ambito appare ancora sufficientemente indefinito. E laddove non hanno assunto responsabilità gestionali, è anche fortemente indebolito.

Se politici e tecnici hanno un orizzonte di riferimento, alcune cose possono cambiare, altrimenti non ci sono le condizioni perché questo sia possibile. Sulla questione della chiarezza delle norme, partirei dall’assunto che la norma permette ciò che non proibisce. In questo senso la norma dovrebbe diventare l’alleata che ci permette di raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissi.

Riguardo alla seconda parte della domanda, sul versante dei servizi sociali la mancata definizione di servizi essenziali da garantire rende difficile lo sviluppo di un sistema integrato, come ad esempio una gestione associata intercomunale dei servizi sociali, che è la condizione di base per realizzare reti di servizi territoriali.

Se ogni cittadino, a prescindere dal luogo di residenza, ha diritto ad alcuni interventi di assistenza sociale, devono essere definite chiaramente le condizioni affinché essi gli siano garantiti. Poi c’è il tema, cresciuto in questi ultimi anni, delle risposte “categoriali”: non è la condizione  della persona che determina la possibilità di fruire di un intervento, quanto la sua patologia e la forza della rappresentanza. Più è forte quest’ultima e più sostegni quella specifica categoria potrà ottenere.

Un altro aspetto problematico riguarda i cosiddetti “modelli” dei servizi. L’innamoramento nei confronti delle economie di scala, dell’efficienza gestionale, della multi-modularità, è una risposta semplicistica a situazioni complesse, come se i numeri potessero assorbire tutte le sfumature delle esistenze individuali, e tutte le differenze siano “comprensibili” in contesti di vita artificiali e regolamentati da procedure impersonali.

Un altro aspetto sul quale penso sia necessario aumentare il livello di attenzione, anche alla luce dell’esperienza di questi anni, riguarda il condizionamento, da parte della sanità e dei suoi modelli, negli interventi rispetto ai quali ha assunto oneri (quota sanitaria). Ciò  sta determinando, per molti servizi, la traslazione di modelli organizzativi e procedurali classici della sanità (ne sono un esempio i recenti nuovi requisiti di autorizzazione): dal dimensionamento, ai requisiti strutturali, fino alla tipologia di personale. Si tratta di un problema che occorre affrontare, prima che la trasformazione intacchi molti servizi territoriali, causando la perdita di un patrimonio culturale e gestionale. E mi pare che, su questo punto, il livello di attenzione dei soggetti gestori non profit non sia proprio adeguato.

Come sono stati nel tempo i rapporti con le realtà sociali regionali, (forze di volontariato, sindacali, mondo cooperativo, enti profit e no profit)? Puoi indicare momenti di svolta in tali rapporti e da cosa sono stati determinati, secondo te?

Un discorso che si può solo accennare. Alcuni aspetti li ho indicati precedentemente (vedi nota 2). Sul profit in parte ho detto: esso rappresenta una forza che negli ultimi 15-20 anni è cresciuta enormemente, in una situazione di crescente monopolio, soprattutto nell’area della riabilitazione, che include anche servizi diurni e residenziali per persone disabili. Negli ultimi anni poi la sfera di interesse si è allargata anche all’area degli anziani e della salute mentale, in una ricerca costante (e direi ossessiva) di servizi remunerativi: quindi sanitari e solo residualmente sociosanitari (nei quali vi è anche compartecipazione sociale).

Ma l’analisi deve riguardare anche la realtà delle organizzazioni non profit. Una realtà, evidentemente, molto variegata, nella quale la configurazione giuridica non ne determina l’omogeneità.

Ci sono realtà profit e non profit, che fanno parte dello stessa federazione: l’ARIS (Associazione religiosa istituti sociosanitari), sorella minore dell’AIOP (Associazione italiana ospedalità privata). L’ARIS nelle Marche gestisce servizi per circa 90 milioni di euro (di questi circa 60 sono gestiti dal gruppo KOS). Attraverso Accordi specifici  negozia i budget, e le conseguenti tariffe dei servizi, su più annualità. Nello stesso contenitore (ARIS) stanno insieme gruppo KOS, Comunità di Capodarco, Anffas, Lega del Filo D’oro ed altri. Credo sia opportuno chiedersi cosa tenga insieme realtà così differenti.

Poi c’è il mondo della cooperazione sociale. Alcune di queste, ad esempio Cooss Marche, la più grande cooperativa delle Marche, gestiscono servizi in società con gruppo KOS. Ma anche la Coop. Labirinto, radicata nel pesarese, ha iniziato, negli ultimi anni, a progettare ed avviare servizi assieme al  gruppo KOS. Sicuramente un momento di svolta c’è stato nel 2014, quando la Regione Marche ha avviato un percorso partecipato, iniziato nel 2013, quando sono uscite  normative regionali di applicazione, dopo 12 anni, dei LEA. Un percorso fortemente sollecitato dalla Campagna “Trasparenza e diritti”, nata nel 2012 per promuovere la regolamentazione dei servizi socio sanitari e applicare la normativa sui LEA. Ne facevano parte decine di soggetti (utenti, volontariato, cooperative) con l’adesione di molti enti locali. In quella fase, a seguito delle iniziative della Campagna (compresa un’importante manifestazione davanti al Consiglio regionale)[3], volte a sostenere la modifica di alcuni provvedimenti regionali, la Regione aveva istituito un Tavolo di confronto con tutti gli attori (gestori pubblici e privati, Azienda sanitaria, Campagna “Trasparenza e diritti”), per rivedere alcune parti critiche e discutibili delle delibere di applicazione LEA. Contemporaneamente però istituiva furtivamente un altro Tavolo, con alcuni degli stessi soggetti che partecipavano al percorso principale, andando a definire standard, tariffe e ripartizione degli oneri tra settore sociale e settore sanitario, coinvolgendo soltanto gli enti gestori stessi!

Quanto al sindacato, in questa fase ha giocato sostanzialmente un ruolo da spettatore.

Si è avuta, ad un certo punto, la sensazione di volersi affidare alla forza e competenza di alcune organizzazioni profit, operanti in regione. Se fosse stato un mero calcolo politico-elettorale non sembra aver dato frutti…..

Credo che, insieme alla gestione del terremoto, la sanità abbia giocato un ruolo importante nella sconfitta e nella precedente perdita di credibilità del centro sinistra. Le ultime legislature hanno visto un totale appiattimento, sia dei servizi ospedalieri che extraospedalieri, sull’offerta del privato accreditato. Il potere negoziale, acquisito negli anni da questi soggetti e plasticamente evidenziato nella definizione dei nuovi requisiti di autorizzazione (luglio 2020),  nonché la quantità di risorse che assorbono, rappresentano un problema enorme. Una situazione che si è accentuata durante la pandemia, con accordi tariffari che di sicuro non hanno scontentato questi enti. Si può affermare che nelle Marche le strutture ed i servizi “ex art. 26” rappresentino un mondo a parte. C’è da dire che la nuova amministrazione ha sostanzialmente seguito, su questo punto, la precedente: era abbastanza scontato e dimostra, ancora una volta, come alcuni processi sociali possano cambiare, solo se è chiara la prospettiva politica, insieme ai valori e mezzi (competenze) per assumerla. Detto questo, il nodo rimane quello della tutela della salute che passa attraverso i soggetti del mercato. Se la mia azienda ha per obiettivo il profitto, è evidente che la tutela della salute sarà una subordinata. Ma ciò succede anche se la mia cooperativa soltanto si concepisce come mero esecutore di scelte dell’affidatario, rinunciando ad articolare un proprio discorso operativo sulla cura, sulle condizioni di vita, sul benessere delle persone di cui si occupano.

Quali sono secondo te, i provvedimenti attuativi o correttivi più urgenti, per assicurare dignità e giustizia a tante persone e famiglie della nostra regione?

Direi che un primo punto fondamentale è cogliere ed identificare le necessità delle persone, dotandosi degli strumenti adeguati per farlo. Che sono i luoghi dell’accompagnamento, della valutazione  e della presa in carico. Centrali devono tornare ad essere le esigenze delle persone, a partire dalle quali costruire e progettare insieme interventi e sostegni.

Oggi questa prospettiva è fortemente carente. Dunque è necessario un enorme investimento non solo in termini di personale, ma soprattutto organizzativo, rispetto a quelli che chiamiamo “servizi territoriali”. Peraltro la pandemia ci ha dimostrato, anche nella nostra Regione, cosa abbia prodotto il disinvestimento, a tutti i livelli, su questi servizi.

Partire da qui ed  investire sulle competenze ad ogni livello. Ripensare poi i modelli sui quali i nostri servizi sono nati e cresciuti. Un lavoro che ha bisogno di persone: politici e tecnici appassionati e desiderosi di promuovere benessere nelle persone e nelle comunità. Ma serve anche una forte spinta dal basso. Dovremmo cominciare qui un altro discorso. Lo rimandiamo alla prossima occasione.   


                                                             

Per un approfondimento sui temi trattati rimandiamo agli 8 libri pubblicati dal Gruppo Solidarietà dal 2003 ad oggi, http://www.grusol.it/pubblicaN.asp.

- I soggetti deboli nelle politiche sociali della regione Marche, 2003

- Quelli che non contano, 2007

- I Dimenticati. Politiche e servizi nelle Marche, 2010

- La programmazione perduta, 2011

- Trasparenza e diritti. Politiche e servizi nelle Marche, 2013

- Dove sono i forti dove i deboli, 2015

- Le politiche perdute. Interventi sociosanitari nelle Marche, 2017

- Le politiche necessarie. Soggetti deboli e servizi, 2019

I materiali dell’Osservatorio sulle politiche sociali si possono consultare o scaricare qui, http://www.grusol.it/vocesocialeN.asp 

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[1] Vedi, ad esempio,  “Quaderni MarcheGli Accordi tra ASUR Marche e soggetti gestori dei servizi sociosanitari”, http://www.grusol.it/apriSocialeN.asp?id=779.

[3] Due libri del Gruppo Solidarietà documentazione il lavoro della Campagna attiva dal 2012 al 2015. “Trasparenza e diritti. Politiche e servizi nelle Marche” (2013), e “Dove sono i forti, dove i deboli” (2015). Vedi in http://www.grusol.it/pubblicaN.asp.


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