Seminario di approfondimento. Politiche e servizi per la disabilità nell’'Ambito territoriale sociale 9, Jesi
Promosso dall’Ambito territoriale sociale 9 (Jesi) e dal Gruppo Solidarietà si è svolto sabato 16 dicembre 2006 a jesi un seminario di approfondimento su Politiche e servizi per la disabilità nel territorio dell’Ambito territoriale sociale 9.
Il seminario si è proposto come momento di approfondimento interno a tutti gli attori (comuni, Zona sanitaria, scuola, cooperativa gestore dei servizi, associazioni di volontariato e degli utenti) sullo stato dei servizi territoriali a favore delle persone con handicap.
Di seguito riportiamo una delle relazioni introduttive e la comunicazione congiunta delle associazioni del territorio.
Jesi - Sabato 16 dicembre 2006
Seminario di approfondimento
Politiche e servizi per la disabilità nel territorio dell’Ambito territoriale sociale 9
Fabio Ragaini, Gruppo Solidarietà
Politiche e servizi per la disabilità nel territorio. Alcuni nodi
Incentrerò questa mia riflessione - radicata nella esperienza di una persona che segue con continuità da più di venti anni i servizi territoriali - su tre aspetti che sono fortemente interconnessi.
a) Il governo della rete
b) Il rapporto tra gli enti
c) La responsabilità (condivisa) della qualità degli interventi (educativi e di aiuto alla persona)
Premesse
Prioritariamente è importante richiamare alcune necessità:
- che i Servizi, non esauriscano il loro intervento all’interno della durata dello stesso, ma siano proiettati in una dimensione che cerchi di offrire il massimo delle opportunità alle persone. Per questo è importante che le relazioni della persona con disabilità non siano confinate nel circuito famiglia-servizi, ma trovino, soprattutto nel tempo libero, occasione di costruzione di relazioni all’interno della comunità locale. Relazioni che dovrebbero avere sempre come riferimento la normalità (ovvero non qualcosa fatto esclusivamente per qualcuno, ma partecipazione alle attività di tutti).
- che a partire dalle esigenze delle persone vengano individuati percorsi che offrano risposte che prevedano sempre come obbiettivo la piena integrazione sociale. In questo senso va ribadito il rischio di identificare i servizi con le politiche. Tutti dobbiamo sentire la responsabilità di non ridurre ai soli interventi socio assistenziali o sociosanitari la risposta ai problemi posti dalla disabilità; per fare questo occorre avere presente che le politiche sociali in generale (trasporti, casa, tempo libero, ecc…) hanno il dovere di occuparsi di tutti i cittadini compresi quelli in maggiore difficoltà.
- che l’analisi e le valutazioni degli interventi e dei servizi abbiano come riferimento la qualità della vita delle persone.
- che la qualità degli interventi e qualità della vita delle persone camminino insieme per un lungo tratto. Interventi di qualità non determinano in automatico la qualità della vita, ma avvertono che ci si deve muovere, imprescindibilmente, in quella direzione rendendosi conto della minaccia del rischio di scadere a prestazione. E la prestazione difficilmente si interfaccia con la qualità della vita. Ogni nuova “abilità” di qualsiasi tipo deve essere finalizzata ad essere spesa per facilitare l’integrazione nella società.
Servizi extrascolastici
Questo intervento farà riferimento quasi esclusivamente ai servizi extrascolastici. Sono quelli che ci hanno visto più impegnati in questi anni. Le richieste di aiuto agli inizi delle nostre attività giungevano dalle famiglie i cui figli avevano terminato l’obbligo scolastico e si trovavano da sole, senza servizi.
L’integrazione scolastica pone oggi con forza il problema della qualità, ma siamo in presenza di un diritto; il diritto all’istruzione riguarda tutti, non è ancora così nei servizi socio educativi o socio assistenziali. Il primo problema è lavorare perché la risposta sia data, i servizi ci siano e siano esigibili; immediatamente dopo nasce il problema della qualità degli interventi. Non dimentichiamo che per i servizi diurni e residenziali la normativa regionale ha dettagliato, con una entrata in vigore parziale, i requisiti dei servizi solo negli ultimi anni. Per quelli domiciliari così fortemente presenti nel nostro territorio, la Regione ha indicato genericamente gli obiettivi (vedi criteri finanziamento legge 18).
Pur avendo chiara e rivendicandola, quando mi pare si offuschi, la distinzione dei ruoli tra i vari soggetti, io ho sempre considerato i servizi territoriali come nostri servizi e dunque anche i miei. Quello che dirò nasce dal sentirmi parte viva di questo sistema.
Nell’ultimo numero della nostra rivista “Appunti sulle politiche sociali”, abbiamo ospitato, un interessante articolo di Andrea Canevaro, che riflettendo sulla necessità di far incrociare bisogni e competenze offre questi spunti che mi sembrano molto significativi anche per la nostra riflessione di oggi. Sono riferiti primariamente alla scuola, ma è facile capire che riguardano più in generale il complessivo dei servizi socio educativi riabilitativi. “Il sistema cura interagisce con il sistema educante, formando un solo sistema. E’ interessante utilizzare questo modo di esprimersi facendo vivere il termine ‘cura’ non in senso strettamente farmacologico-medico ma nella accezione più ampia del “prendersi cura”, dell’accrescere le caratteristiche che possono dare qualità alla vita degli individui e della società. Questi ultimi due termini – individuo e società – possono anche essere vissuti e organizzati come contrapposti. E’ ciò che risultava chiaramente dalla “confusione” fra “insegnamento individualizzato” e “insegnamento individuale”, conseguenza di un’impostazione organizzativa basata sulla contrapposizione secondo la quale la buona riuscita individuale è più realizzabile se viene abbandonata la troppa attenzione alla dimensione sociale.
La qualità della vita, e della scuola, che punta più sull’individuale, vuole recuperare il sociale (la società) in un secondo tempo. Elogia il volontariato, e riconosce crediti a chi si impegna in tal senso. Rinforza una visione della realtà in cui gli individui di successo aiutano con beneficenze chi vive nell’insuccesso. In questa prospettiva, proprio il termine competenza risulta evocato - a nostro avviso - in un senso sbagliato.
Dobbiamo ricordare, brevemente, che mentre le “capacità” hanno una dimensione sostanzialmente individuale, le “competenze” sono sociali o non sono. Ne sa qualcosa chi affronta le tematiche dell’autismo, dove è facile trovare capacità che non riescono a diventare competenze, e in cui un problema è costituito dalla difficoltà a sviluppare un’intelligenza sociale. Gli studiosi e gli operatori hanno continuamente riscoperto gli apporti di Vigotskij, che fa riferimento all’individuo sociale come prospettiva da perseguire (educare ed educarsi). Questa impostazione deve essere accompagnata da un altro aspetto. Prendiamo ad esempio l’educatore sociale: la possibilità che l’educatore sociale abbia un profilo professionale deve essere accompagnata dalla possibilità che ciascuno possa curare se stesso o se stessa costruendosi un profilo di competenza.
Vorremmo chiarire come all’interno di un profilo professionale vi possono essere più profili di competenza; che non sono un sistema chiuso, sono una dinamica aperta. Vi può essere quindi l’educatore sociale che acquisisce un profilo di competenze ben documentabile a proposito dell’autismo infantile ed ha poi la possibilità di avere a che fare con problemi inerenti la cooperazione internazionale, aggiungendo al profilo di competenza acquisito a proposito dell’autismo quest’altra competenza che riguarda l’intercultura. In questo modo non abbiamo una fissità di competenze ma una possibilità di acquisirne nel corso della vita professionale.
Questa organizzazione più sistematica ha bisogno di precisazioni. Occorre evitare che tale operazione crei una serie di specialismi poco adatti ad accostare le realtà nella loro pluralità di problemi. Bisogna rendersi conto che la competenza reale rende l’ambiente competente, e questo accade perché vive lo scambio e la contaminazione delle competenze, sapendole individuare e valorizzare negli altri. Bisogna fare chiarezza anche a partire dagli abusi di competenza o dai limiti che lo specialismo delle competenze può produrre: occorre avere uno sguardo critico e conoscere i rischi, per fare in modo, all’interno della formazione, di imparare a considerarli”. (A. Canevaro, Disabilità. L’inclusione competente, Appunti sulle politiche sociali, n. 6/2006).
Dunque qualità della vita e integrazione o più precisamente inclusione sociale rappresentano la prospettiva entro cui dovrebbero agire i servizi.
Cerco di articolare i punti indicati
Parto dalla convinzione che a fronte della ricchezza dei nostri servizi, manteniamo una grande difficoltà sulle politiche. A conferma di ciò basterebbe osservare il ritardo che abbiamo avuto nella risposta ai problemi del lavoro, e che abbiamo rispetto a quelli della mobilità, dell’abitare, del tempo libero.
Quello del governo della rete dei servizi, mi pare uno dei punti sui quali dobbiamo maggiormente concentrare la nostra attenzione. Ne abbiamo avuta e continuiamo ad averne poca consapevolezza.
Lo considero un punto strategico irrinunciabile.
Giungiamo tardi alla coscienza della necessità che il titolare dei servizi (i Comuni associati) eserciti il governo degli stessi e abbia gli strumenti per realizzarne la programmazione. Quando se ne sperimenta poi la necessità (con la figura del coordinatore), con grande difficoltà riusciamo a tradurre quel mandato (coordinare la rete). In fondo si può leggere in tutto questo una estrema residualità degli interventi, ma anche la difficoltà ad avere chiarezza dei ruoli dei vari enti (funzione programmatoria e supporto tecnico alla progettualità individualizzata). Sembrano passati anni luce, ma soltanto 10 anni fa, per la presentazione del progetto comunale per il finanziamento della legge 18, il Comune capofila ne chiedeva agli operatori distrettuali l’elaborazione, o gli stessi operatori ASL facevano la valutazione e la graduatoria di quali operatori della cooperativa potevano essere “adeguati” per lavorare al cento diurno.
Ancora oggi, nonostante una articolata rete dei servizi, rischiamo di non riuscire ad adempiere a quel ruolo. Il coordinamento e la programmazione degli interventi mantengono un grosso affanno. Ad oggi l’organizzazione della gestione associata vede tre livelli di responsabilità (amministrativa-coordinamento tecnico e dirigenziale del Comune capofila) lasciando sostanzialmente sulle spalle del Coordinatore part time l’onere della “presa in carico” del servizio. Un coordinamento che rischia di tradursi nella gestione delle emergenze quotidiane.
Ritengo impensabile data l’offerta dei servizi mantenere l’attuale organizzazione.
Governare una rete di servizi come quella che abbiamo, richiede più figure professionali. Adempiere al coordinamento e alla programmazione non può essere considerato come una spesa in più, ma come indispensabile condizione di governo. Avere il governo della situazione significa prevedere ampliamenti li dove sono necessari ma anche razionalizzare quelli esistenti. Significa avere strumenti per valutare la qualità dei servizi affidati. Significa essere capaci di gestire il rapporto con la sanità e con l’ente gestore e interfacciarsi con efficacia con la Regione. Con quest’ultima occorre sviluppare una relazione permanente; non si tratta soltanto di adempiere alle indicazioni normative ma anche fare un lavoro di promozione rispetto agli interventi regionali (modifica di provvedimenti, previsione di nuovi, ecc…). Ciò va fatto proprio a partire dall’esperienza dei servizi locali.
Dal mio punto di vista se non si ha piena coscienza e consapevolezza di questa debolezza strutturale - che non automaticamente verrà superata con l’Azienda (anche se può aiutare) - non si possono creare le condizioni perché l’attuale situazione si modifichi. Una situazione sulla quale si è poco agito anche attraverso l’integrazione tra le attuali figure professionali dei comuni associati.
E’ l’altro aspetto di grandissima criticità. In questi anni non si è riusciti a trovare, a mio avviso, una sintesi adeguata. Mi pare che è prevalsa dopo ripetuti tentativi di costruzione, una certa rassegnazione. Questo in particolare nel rapporto Comuni-ASL. Di questo rapporto vorrei evidenziare due ambiti: quello della integrazione istituzionale e quella professionale. Problemi che in verità non riguardano solo il settore della disabilità ma più in generale il complesso dei servizi sociosanitari.
Per quanto riguarda l’integrazione istituzionale, a fronte della difficoltà di governo sopra evidenziata, mi sembra che al di là dei vari passaggi organizzativi, costante è stata la preoccupazione da parte della Zona per un coinvolgimento che potesse prefigurare la possibilità di assunzione di oneri. Grazie ad una sua maggiore organizzazione interna ed alla fragilità comunale fino ad oggi è riuscita ad ottenere ciò che voleva. Il risultato evidente è che dal punto di vista organizzativo i nostri servizi sociosanitari territoriali si sono andati sempre più configurando come servizi socio assistenziali comunali con l’apporto delle figure professionali della Zona (UM). Il fatto che a livello istituzionale non si senta l’esigenza, al fine di meglio organizzare l’offerta dei servizi, di lavorare sulla definizione dei ruoli e delle competenze, conferma l’idea di una sostanziale non volontà. Ciò non riguarda tanto i Comuni che mi sembrano soprattutto impotenti e dunque rassegnati di fronte alla situazione. Il riferimento alla rassegnazione nei confronti del ruolo della Zona, mi sembra si riscontri anche nella cooperativa e nelle associazioni (per quest’ultime si tratta di certezza). Non è un caso che le associazioni abbiano lavorato - dopo infiniti tentativi - perché i Comuni definissero autonomamente la regolamentazione dei servizi. D’altra parte non si può chiedere, fino a quando i servizi sociosanitari come quelli territoriali sono a completo carico di un solo ente, di prevedere un percorso regolamentare congiunto. Ma ovviamente questo rimane un problema. Perché insieme (che non significa pareri o opinioni di singoli operatori) andrebbero affrontati i nodi dei servizi.
Per quanto riguarda l’integrazione professionale alla debolezza comunale (numero di ore) si contrappone la fragilità dell’UM (faccio riferimento soprattutto a quella per l’adulto). Il passaggio ad un'unica UM non sembra aver prodotto quei miglioramenti organizzativi auspicati: di fatto si mantiene la situazione in cui singole figure professionali dell’UM intervengono secondo la loro disponibilità, volontà e competenza. Anche su questo caso non mi pare si sia mostrata una volontà da parte della Zona ad affrontare tali problemi. Non si può non rimarcare, infatti, che l’assegnazione di un solo psicologo alla UM è un evidente segno di disimpegno in un territorio che offre, oltre agli interventi di assistenza educativa e aiuto alla persona 4 centri diurni, una residenza e anche utenti ospiti di residenze fuori Zona.
Va, inoltre, ricordato che le strutture diurne e residenziali della legge 20/2002 (non così per quelle della legge 20/2000) normate dal Regolamento attuativo, prevedono al loro interno figure educative e di assistenza sociosanitaria; dunque tutte le altre figure, vedi in particolare psicologo, ai fini della formulazione del PEP e delle altre competenze sono figure soprattutto interne alle Unità Multidisciplinari.
Data questa situazione che purtroppo non sembra destinata a cambiare, mi pare non ci siano alternative all’auspicio di un rafforzamento della presa in carico da parte dei servizi (domiciliari, diurni, residenziali), che però necessitano obbligatoriamente di percorsi di valutazione e verifica per evitare che diventino - pur rimanendo comunali affidati in gestione - di fatto privati. Qui entra il terzo nodo: il rapporto con l’ente gestore che nel nostro territorio si caratterizza per essere unico e stabile fin dalla nascita dei servizi. Anche in questo devo constatare che non si è giunti tra affidante e affidatario ad una sintesi adeguata.
Rimango dell’idea che la principale responsabilità di questa difficoltà sia attribuibile al titolare della funzione che esercita questo ruolo. Ma questo sarà oggetto di riflessione sopratutto nel punto successivo.
L’altra criticità è quella che ho indicato nel titolo. La capacità di tutti gli attori di sentire la responsabilità della qualità degli interventi. Sia di quelli educativi che di aiuto alla persona.
Sugli interventi di aiuto alla persona, dobbiamo fare i conti con i nostri servizi che si sono caratterizzati come risposta a bisogni socio educativi (nasciamo e per lunghi anni eroghiamo il solo intervento di assistenza educativa); una eredità che si è tradotta nella universalità della figura educativa in risposta ai problemi posti da ogni tipo di disabilità. Ciò ha determinato una grande difficoltà - prima a prevederli, poi ad assumerli concettualmente - a concepire servizi di aiuto per persone che necessitano di quello e non di intervento educativo. L’operatore che non è chi insegna o educa ma colui che aiuta a fare ciò che la persona non è più in grado di fare. Qui l’educativo non esiste più e non può più esistere. L’aiuto alla persona può essere una grande occasione e può avere il grande merito di far vedere la disabilità dal versante dell’autonomia e dell’indipendenza. Soprattutto significa un radicale cambio di prospettiva, con un utente che diventa il primo protagonista dell’intervento. Su questo aspetto credo che occorra lavorare molto sia sul versante degli operatori UMEA che della cooperativa, è un passaggio recente, con difficoltà interpretative e concettuali non superate che richiede ulteriore approfondimento.
Sul versante degli interventi educativi, la responsabilità condivisa significa che tutti gli attori debbono sentirla. Qui un nodo irrisolto, mi sembra essere quello del rapporto titolare - gestore. Intendo dire che se compete ai Comuni, titolari del servizio, la responsabilità dell’intervento nei confronti dell’utente, è del tutto evidente che servizi di natura “relazionale” hanno bisogno di un gestore che assuma la sfida della qualità; non tanto come risposta da dare al committente, quanto come prospettiva da assumere nei confronti dell’utente. Questo significa l’assunzione della responsabilità nei confronti della qualità degli interventi. La continuità educativa, la formazione del personale, devono essere prioritari in un percorso di qualità. Non sono e non possono essere percorsi amministrativi, ma percorsi di qualità. In questo senso non possiamo per nulla sottovalutare la particolarità della situazione riguardante le figure operative. Un problema che riguarda tutta la Regione e in particolare anche la nostra realtà. L’abitudine di chiamare tutti gli operatori, educatori, non deve trarre in inganno. Noi rispondiamo a bisogni socio educativi di grande complessità (pensiamo solo ai problemi posti dall’autismo), senza le rispondenti qualifiche. Oltre a non dimenticarlo dobbiamo agire perché si metta riparo a questa situazione. E’ necessario cercare l’adempimento ad una prospettiva di qualità che passi anche attraverso la qualifica professionale, nonostante le indicazioni regionali o gli appalti permettano che personale senza qualifica operi in qualità di educatore. Importante è anche sottolineare che non si può cercare rimedio nei corsi finanziati dalla provincia o dal FSE che non formano, né possono formare queste figure professionali. Un punto questo che non può continuare ad essere eluso.
Occorre un salto di qualità rispetto alla responsabilità degli interventi diurni e residenziali. Le nuove figure dei coordinatori all’interno dei servizi con le funzioni assegnate testimoniano, in questo senso, un passaggio importante che bisognerebbe essere capaci di cogliere.
Ritengo che Comuni e cooperativa debbano trovare una modalità di effettiva valutazione e verifica degli interventi. Assumere da parte del gestore la responsabilità educativa degli interventi, non significa sconfinare nel ruolo del titolare, ma esercitare fino in fondo il ruolo assegnato.
Riguardo il rapporto UMEA-Servizi (in questo caso diurni e residenziali), proprio rispetto alle indicazioni regionali credo che occorra lavorare per una diversa definizione di questo rapporto. La presenza di 4 Centri e di una comunità non può prescindere da una presenza competente definita e concertata. Occorre inoltre sforzarsi di trovare una sempre più stretta relazione tra progetto di struttura e progetto individualizzato. L’uno si accompagna all’altro.
Sul versante dell’intervento domiciliare - quello meno controllabile - occorre trovare modalità di valutazione, verifica e anche di controllo. E’ un servizio che ha bisogno di flessibilità ma anche di governo. Credo che anche su questo è necessario impegnarsi per fare in modo che questi servizi non ci sfuggano di mano. Non per cattiva volontà ma per mancanza di identificazione dei percorsi.
Ritorna ancora una volta il tema del progetto sulla persona e la prospettiva della qualità della vita. Ciò riguarda tutti gli interventi, non solo quelli educativi.
Lavorare su questi aspetti significa riflettere sugli strumenti: strumenti sono la struttura organizzativa, le modalità di lavoro, il rapporto tra gli enti, le integrazioni professionali, la modalità di affidamento dei servizi, ecc…. Se si riconoscono questi problemi come tali occorre fare il passo successivo per affrontarli in un rapporto paritario tra gli enti che non significa dimenticanza dei diversi ruoli e funzioni.
Credo ce lo chiedano sia le competenze istituzionali che le esigenze delle persone con le quali ognuno di noi - con le diverse responsabilità - opera.
Seminario di approfondimento
Politiche e servizi per la disabilità nel territorio dell’Ambito territoriale sociale 9
Jesi – 16 dicembre 2006
Comunicazione delle associazioni, Gruppo Solidarietà, Anffas Jesi, Il Mosaico
Riteniamo utile questo momento di confronto e dibattito sulle problematiche territoriali che riguardano l’handicap.
Noi rappresentiamo gli utenti e le famiglie che nel territorio si misurano quotidianamente con l’handicap. Molte cose sono state fatte. Molte cose sono da fare, alcune da migliorare.
Inizieremo il ns. intervento con una rapida panoramica sul sistema degli interventi adottati nella nostra realtà al fine di evidenziare i nodi principali ancora irrisolti. Abbiamo deciso di tralasciare i dettagli che riguardano il rapporto con gli enti, con le strutture e con le persone per ragioni di snellezza, ma rileviamo che anche questi aspetti contribuiscono alla pesantezza di certe ns. giornate.
Daremo infine qualche indicazione di prospettiva.
Nel nostro territorio, i bisogni delle persone con disabilità fin dalla prima infanzia, trovano una prima risposta istituzionale abbastanza definita, con l’intervento dell’UMEE, che - come previsto dalle leggi in vigore -, accompagna la persona con handicap per tutto il tragitto scolastico, attraverso i vari gradi delle scuole dell’infanzia e dell’obbligo. Naturalmente anche nel ns. territorio abbiamo fatto e dobbiamo fare i conti con il problema della scarsità degli insegnanti di sostegno, con la tendenza, da parte dell’istituzione scolastica, a far vivere alla persona con handicap percorsi e momenti separati rispetto alla classe e alla scuola in generale, in maniera difforme ed a volte contraria allo spirito di integrazione che le leggi prevedono. Ma, in questo campo non mancano esempi di buon lavoro e di risultati, anche di rilevo, che ci sembrano tuttavia dovuti più alla qualità di qualche singolo operatore delle équipes sanitarie o della scuola, che non all’effettivo stile prodotto da una cultura e prassi consolidate nell’operare sulle e con le persone.
Concluso il periodo dell’età evolutiva la persona con disabilità entra nel circuito dell’UMEA.
In campo istituzionale abbiamo assistito, fin dagli albori, al tentativo di organizzarsi degli enti preposti in realtà intercomunali, impostazione che abbiamo sempre incoraggiato e difeso; abbiamo nel tempo parimenti criticato la scarsità di organizzazione, che ha visto, in questi ultimi anni, l’utilizzo di una figura di conduzione tecnica part-time per tutto il servizio associato.
Approviamo pertanto la nascita del Consorzio, che consentirà, almeno ci auguriamo, di avere un’organizzazione con risorse umane adeguate alla conduzione tecnica dei progetti per l’intero territorio.
Nel tempo sono stati realizzati e sviluppati servizi che giudichiamo efficaci per l’handicap intellettivo grave e mediograve ma abbastanza carenti per l’handicap fisico, sensoriale o intellettivo con elevate autonomie, soprattutto per quanto riguarda la formazione professionale e l’inserimento lavorativo.
Come in questi anni abbiamo più volte ripetuto, non si può parlare di rete di servizi completa e di progetto personalizzato, se non si cura l’avvio al lavoro per i soggetti che possono. Si rischia di condannare le persone, soprattutto quelle con deficit intellettivo, ad una dipendenza imposta e, di fatto, ad una regressione invece che ad un doveroso sviluppo delle capacità e dell’autonomia. Ad essere costo anziché risorsa!
La rete dei servizi personalizzata non può inoltre prescindere dall’opportunità di potersi muovere, anche in maniera singola. In merito vogliamo ribadire, ancora una volta, il problema della possibilità di accedere a mezzi e servizi che consentano lo spostamento dai paesi, dai centri diurni e residenziali e dalla e nella città. Su questo aspetto abbiamo avuto purtroppo un arretramento.
Giudichiamo molto positivamente la recente istituzione del servizio di aiuto alla persona che va a colmare un deficit, prima di oggi quasi assoluto, nei servizi per l’handicap fisico. Dobbiamo tuttavia sottolineare la necessità di una migliore comunicazione ed assimilazione da parte di tutti gli enti sulle potenzialità del servizio stesso.
All’interno della rete, una questione rilevante ha riguardato la contribuzione ai costi del servizio, che ancora, a distanza di molti anni e pur nel consolidamento del concetto di ambito sociale, non vede tutti i comuni coinvolti allineati alle norme nazionali ed ai richiami regionali. In tal modo si è venuta a creare una prassi difforme all’interno del territorio dell’ambito che ci ha costretto a vere e proprie forme di disubbidienza civile che ancora oggi rivendichiamo e sosteniamo.
Salutiamo con favore la nascita della prima comunità residenziale. Quella della residenzialità è stata, infatti, tanta parte della ns. attività di pressione e richiesta degli ultimi anni ed è ancora motivo di molte ns. preoccupazioni. In particolare ribadiamo la necessità dell’accompagnamento nelle situazioni per le quali il supporto familiare è in forte sofferenza. Su quest’aspetto chiediamo di conoscere se esista uno studio che prevede il fabbisogno territoriale con una stima divisa per anni. Conoscendo la situazione di molte famiglie abbiamo, infatti, la sensazione, che il fabbisogno possa repentinamente aumentare a fronte di risorse ancora scarsissime e con previsione di realizzazione ed incremento troppo lenta.
Per quanto riguarda la partecipazione delle famiglie allo sviluppo dei progetti ed alla verifica dei risultati, abbiamo assistito ad un lavoro costante a livello istituzionale, tra i rappresentanti delle associazioni delle famiglie ed i comuni, tramite incontri e discussioni periodiche; più deficitario appare il momento partecipativo previsto dai regolamenti delle strutture diurne (comitati di partecipazione). Qui la responsabilità non si può onestamente addossare al solo livello istituzionale, data la gran difficoltà che in questi anni abbiamo costantemente misurato, da parte delle famiglie, a partecipare costruttivamente ai momenti di verifica e confronto, pure regolamentati. Oltre a ciò, con altre istituzioni come la scuola e la sanità di fatto non c’è ancora colloquio.
In prospettiva vorremmo che la politica per l’handicap si rafforzi:
- Sul piano istituzionale con un’organizzazione adeguata a garantire progetti e servizi continuamente tarati sulle persone. Per questo occorre una continua attività di sviluppo, verifica e controllo da parte degli enti partecipanti alla gestione (Comuni-Ambito-ASL), attraverso personale adeguatamente motivato e formato. Ribadiamo: non si può progettare e realizzare alcunché senza adeguata organizzazione operativa.
- Sul piano del progetto personalizzato per garantire lo sviluppo delle autonomie e del benessere attraverso relazioni ricche e piacevoli con tutte le risorse del territorio, sia in termini materiali sia umani. Crediamo molto importante che le strutture diurne e residenziali si possano aprire al territorio, (promuovendo la crescita culturale attraverso la diffusione della conoscenza) realizzando scambi continui con l’ambiente e le persone circostanti. Le esperienze in campo sociale, segnalano costantemente il rischio delle realtà separate e della ghettizzazione in cui i mondi della diversità finiscono per cadere. E’ chiaro che qui giocano un ruolo importante sia la capacità dell’ente gestore diretto (le Cooperative) nello stimolare la partecipazione e l’incontro, che dell’ente appaltante (Associazione dei comuni) nel garantire una costante fase di controllo e sollecitazione. Sono necessarie doti di equilibrio ed attenzione (il problema delle sicurezza degli utenti) coniugate con fantasia e capacità di innovazione.
- Sul piano della sicurezza sociale, per garantire la massima attenzione e tutela anche quando le famiglie verranno a mancare. Rimarchiamo ancora una volta la grande importanza che i familiari ripongono nella realizzazione delle comunità residenziali.
- Sul piano del diritto alle prestazioni anche attraverso un percorso chiaro e lineare della presa in carico nelle varie situazioni. Riteniamo utile segnalare le gravi difficoltà a consentire l’ingresso nel corretto percorso istituzionale, quei casi di bisogno particolare di cui periodicamente veniamo a conoscenza. Nel momento in cui scatta l’urgente bisogno di intervento, purtroppo emerge tutta la fragilità del sistema. Il peregrinare di porta in porta, l’umiliazione e la solitudine, sono lo scotto da pagare da parte dell’utente e della sua famiglia. Noi vorremmo che in caso di bisogno, ci sia una risposta immediata, con percorsi chiari e definiti. Così come è importante che gli utenti siano informasti riguardo la regolamentazione del servizio cui fruiscono (diritti e doveri) e degli altri presenti nel territorio.
- Sul piano dello sviluppo della partecipazione, dell’inserimento attivo nella vita sociale in primis delle famiglie coinvolte nel problema handicap. Registriamo il perdurante senso di solitudine e scoraggiamento comune alle famiglie alle prese con l’handicap del territorio, anche a fronte della costituzione di un associazionismo attivo da decenni. Su questo versante i ns. tentativi di favorire anche legami socializzanti non hanno sortito sostanziali effetti: chiediamo pertanto un aiuto per mettere insieme professionalità ed idee al fine di avviare una politica attiva su questo fronte. Vorremmo condividere con Voi la consapevolezza che una politica attiva anche verso le famiglie, consentirà di migliorare anche certi percorsi di sviluppo delle autonomie dei congiunti handicappati, qualche volta frenati dalle paure e dai timori con cui tutte le famiglie hanno a che fare, amplificati dal senso di solitudine e sfiducia.
- Sul piano dell’approccio culturale, per una pratica dell’inclusione, dell’inserimento attivo nella vita sociale. A nostro avviso è compito di tutti i soggetti in scena, promuovere costantemente una cultura della diversità. Questo significa in campo operativo, prendersi cura delle persone in un’ottica di rete, di legami significativi da mettere al centro di ogni azione sociale. Nel merito degli spazi dedicati alla socializzazione riscontriamo nel nostro territorio ostacoli di ordine strutturale, barriere intellettuali, psicologiche ed architettoniche, che impediscono la normale vita di comunità nelle strutture pubbliche (bar, pub, biblioteche, università, scuole ecc..). Invitiamo pertanto tutti, a lavorare per una cultura dell’inclusione che significa, attivare percorsi di educazione alla diversità, farla conoscere, dare adeguate informazioni, specialmente partendo dalla scuola, prima agenzia di socializzazione e formazione. Per questo si possono riprendere modelli di lavoro già presenti in Italia (come quelli, ad esempio, realizzati dal CDH di Bologna). Inoltre, sulla necessità di lavorare sul tempo libero delle persone, vogliamo riprendere un concetto recentemente evidenziato: “l’obbiettivo non è solo sostenere iniziative che vedono i disabili come fruitori, ma lavorare per costruire insieme una società in cui si garantiscono a tutti le stesse possibilità, e non fare proposte-offerte per persone differenti!”.
Concludiamo, ricordando che nella stesura del Piano di zona, sono stati fissati diversi obiettivi: le nostre associazioni hanno partecipato con impegno; al momento verifichiamo che la maggior parte sono rimasti tali. Anche su questo punto occorre evitare che si innestino percorsi di partecipazione che poi non hanno una traduzione concreta rispetto agli obiettivi prefissati. Soprattutto occorre verificare la corrispondenza tra impegni assunti e finanziamento per tutti gli interventi che richiedono risorse aggiuntive.
Vedi anche, Abitare il territorio. Cronaca di 10 anni di lavoro per promuovere diritti e servizi (1986-1995)