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Articolo pubblicato sul numero 239, 2/2022
aprile-giugno 2022

Il vaso di pandora della guerra

Sergio Segio

Curatore del Rapporto sui diritti globale e direttore
dell'Associazione Società INformazione

Tipologia: Articolo


Il Rapporto sui diritti globali, realizzato dall’Associazione Società INformazione ha compiuto 19 anni nell’edizione italiana e il secondo compleanno in quella internazionale in lingua inglese, presentata lo scorso 10 maggio al Parlamento Europeo, con la partecipazione di Maria Arena, presidente della Commissione sui diritti umani, e di altri europarlamentari.

Da due anni, con la promozione della ONG Fight Impunity, il Rapporto è divenuto anche Osservatorio sullo Stato delle impunità nel mondo, sviluppando maggiormente una progettualità geopolitica centrata sui diritti e una diffusione a livello europeo.
Il nostro peculiare e originale approccio dei diritti globali ci pare così confermato e innovato nella pubblicazione annuale, attraverso la quale ci proponiamo di tematizzare in modo nuovo anche la categoria dei diritti umani, troppo spesso resa ambigua e limitata a una lettura, e a interessi, “occidentalo-centrici” e le cui violazioni vanno invece lette nel loro intreccio con altre sfere, a partire da quelle che attengono ai diritti ambientali, ai diritti economici e a quelli sociali. Le violazioni di questi diritti rimandano anche a più generali crimini di sistema. Crimini normalmente occultati - e dunque non percepiti come tali - non solo per un difetto di analisi e di coerenza, ma perché c’è un altro e assai diffuso crimine che li rende possibili: il crimine del silenzio.
Basti pensare al silenzio, tombale in senso tragicamente proprio, che segna il dramma dei migranti che muoiono tutti i giorni nel tentativo di sottrarsi alle guerre, alle violenze e persecuzioni, così come agli effetti dei conflitti armati o della storica depredazione delle risorse dei loro paesi, quali le carestie e la povertà endemica. Questione rimossa, pur se provvisoriamente - e strumentalmente - venuta in superficie con la crisi in Ucraina e l’aggressione armata da parte della Russia, che ha provocato già otto milioni di sfollati e profughi, vale a dire un quinto dell’intera popolazione costretto a fuggire dalle proprie case e a rifugiarsi in altre zone interne o in paesi europei che, per una volta, sono stati prontamente disponibili all’accoglienza temporanea e alla protezione umanitaria.
L’Europa rimane Fortezza

Secondo l’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, nel 2021 il numero di sfollati forzati in tutto il mondo, con nuove o rinnovate crisi in paesi quali Repubblica Democratica del Congo, Etiopia, Burkina Faso, Nigeria, Afghanistan e Myanmar, aveva superato 90 milioni. Ora, con la guerra in Europa, per la prima volta nella storia, ha raggiunto i 100 milioni: «Un record che non avrebbe mai dovuto essere raggiunto», per dirla con l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati.
Sono numerosi i paesi, ancorché dimenticati perché più lontani dall’Europa, dai quali milioni di persone fuggono in cerca di libertà e di salvezza, così come sono tanti quelli che perdono la vita in questo tentativo. Un numero cresciuto lo scorso anno, nonostante la pandemia e la conseguente riduzione della mobilità.
Le vittime nel 2021 sono state almeno 5.880 e sono già 1.810 nel 2022; dal 2014 sono almeno 48.727, la gran parte annegate o disperse ai confini dell’Europa, in particolare nel Mediterraneo. Sotto i nostri occhi, insomma. Eppure, anche queste, come quelle delle tante guerre dimenticate, sono morti invisibili, di cui quasi nessuno parla e pochi tentano di evitare. Anzi: quando qualcuno, come le ONG con le loro navi umanitarie, si adopera per farlo, viene ostacolato in ogni modo, addirittura portato in tribunale e perseguito. La solidarietà, in questo caso, diviene reato. Le navi vengono bloccate nei porti e i loro comandanti e armatori inquisiti e processati. Mentre le frontiere vengono esternalizzate, appaltando, dietro compenso, il blocco dei flussi migratori a paesi come la Libia e la Turchia, nei quali i diritti umani sono assai poco considerati e tutelati.
Anche perciò non è pensabile e possibile affrontare e affermare i diritti umani, quelli sociali e ancor di più quelli ambientali mettendoli in contrapposizione gli uni con gli altri o su un piano di singoli paesi in concorrenza tra loro, a dispetto di ogni demagogia sovranista e delle crescenti spinte nazionalistiche che producono guerra e dalla guerra vengono rilanciate.
Il conflitto tra sfere diverse di diritti, la loro affermazione in un paese a discapito di altro, esattamente come ogni altra guerra propriamente intesa, non residua vincitori e vinti, ma solo sconfitti da tutte le parti. È questa un’evidenza e una legge che la storia dovrebbe averci insegnato e che tutti dovremmo tenere ben presente proprio in questi mesi, in cui il massacro bellico è tornato in Europa, rischiando ogni giorno di più di espandersi e generalizzarsi.

Il sistema della guerra contro i diritti
In questo senso e prospettiva, il Rapporto sui diritti globali di quest’anno è per noi occasione per richiamare le cinque contemporanee crisi che affliggono il mondo e che lo stanno portando su un precipizio: quella economica, quella sociale, quella sanitaria, quella ambientale e quella umanitaria. Tutte queste crisi vengono approfondite dalla guerra, che le contiene e rialimenta tutte. Dalla guerra in Ucraina, cioè in Europa, ma più in generale dal sistema della guerra, vale a dire dal predominio degli interessi di quello che, nel secolo scorso, era stato autorevolmente definito (da un presidente degli Stati Uniti Dwight Eisenhower, ma, significativamente, solo al termine del suo mandato) un “complesso militare-industriale e politico” che costituiva (e costituisce) una minaccia alla democrazia.
Oggi lo si definisce warfare, ma il sistema è lo stesso, più potente e pericoloso che mai. Di nuovo lo vediamo in questi mesi, con la capacità di mobilitare immediatamente enormi risorse pubbliche, sottraendole persino alla riconversione ecologica e alla lotta ai cambiamenti climatici. È un potere capace di silenziare o di spodestare i parlamenti, di determinare e imporre le grandi scelte a livello globale.
Un “complesso” che, appunto, si fonda sul sistema della guerra (di offesa o di difesa, preventiva o reattiva che sia o, meglio, che si dica) e che lo alimenta in perpetuo, producendo e gestendo prima la distruzione e poi la ricostruzione. Ma la guerra è ormai a rischio di essere globale e nucleare, dopo la quale non ci sarà nessuna ricostruzione, ma solo il deserto. Stiamo nuovamente vedendo in questi mesi come la guerra produca effetti, sia immediati che duraturi, che determinano devastazione sociale e vittime tanto quanto gli eventi direttamente bellici.

Riscaldamento climatico ed ecocidio
Guardando al conflitto in corso in Ucraina, uno degli effetti, come detto, è la sottrazione di risorse e di centralità politica alla lotta ai cambiamenti climatici. Una lotta già drammaticamente tardiva, come denunciato dagli scienziati negli anni scorsi, dopo il ritiro dagli impegni e dagli Accordi di Parigi del 2015 da parte di Donald Trump, subito seguito dal brasiliano Jair Bolsonaro, il deforestatore dell’Amazzonia che sta relegando quel paese all’estrattivismo più sfrenato e alle lobby dell’agribusiness e dell’allevamento intensivo, a discapito dei diritti umani delle locali popolazioni indigene (con 182 nativi assassinati nel 2020, nonostante la pandemia: il 60% in più del 2019) e dei diritti ambientali dell’intera popolazione mondiale. Ancora nel primo trimestre del 2022 la deforestazione è cresciuta del 64% rispetto all’analogo periodo del 2021, con la perdita di altri 941 km² di foresta; negli ultimi tre anni, quelli di Bolsonaro presidente, l’aumento della deforestazione è stato del 56,6%, con la cancellazione di 32.740 km² di vegetazione.
Una nuova determinazione pareva essere uscita dall’ultima Conferenza delle Parti delle Nazioni Unite, la COP26 del novembre scorso a Glasgow. Per quanto tardiva, limitata, contradditoria e contrastata: basti ricordare il sabotaggio di paesi come l’Arabia Saudita e della potente lobby delle aziende fossili del carbone, del petrolio e del gas, presente in forze al Summit con una delegazione di ben 503 rappresentanti. Tanto che, in quella circostanza, il teologo brasiliano Leonardo Boff ha puntato il dito sul vero problema: anche in quell’estrema occasione, i leader mondiali hanno accuratamente evitato di mettere in discussione il sistema fossile, il modello del capitalismo, pur dovendo ormai essere a tutti chiaro che, se non si cambia il modello di produzione e di consumo, il riscaldamento globale non potrà essere fermato, ma solo frenato. E questo è l’insufficiente, ma comunque, in questo quadro, importante risultato, uscito dalla COP26: provare almeno a mitigare il riscaldamento, a rallentare il disastro ecologico. Ora però, nuovo, gli impegni presi sono stati subito archiviati e traditi con il pretesto della guerra in Ucraina e con il ritorno dispiegato alle fonti fossili e persino al carbone. Del resto, anche quello delle compagnie delle energie fossili è un potere enorme, spesso intrecciato a quello bellico. Basti dire che il gigante petrolifero Saudi Aramco è arrivato a una capitalizzazione di 2.430 miliardi di dollari, ha superato Apple ed è prima al mondo. Una sola azienda, insomma, ha un valore superiore all’intero PIL italiano e vicino a quello francese.

Con la guerra carestie e povertà
Un secondo effetto indiretto di questa guerra, come della gran parte di quelle contemporanee ma dimenticate, è la crisi alimentare, con le carestie e l’insicurezza acuta che si producono in diverse aree, principalmente nella già martoriata e affamata Africa, nel Medio Oriente e in zone da anni teatro di conflitti bellici, come Siria, Yemen o Afghanistan. Nello scorso anno altri 40 milioni di persone sono finite sotto la soglia di sopravvivenza a livello globale. Quest’estate, denunciano le Nazioni Unite, la situazione diventerà ancor più tragica nel Sahel, dove 7,7 milioni di bambini sotto i cinque anni soffrono già di malnutrizione.
L’aumento dei prezzi dei generi alimentari, a seguito del conflitto tra Russia e Ucraina, può dunque trasformare una crisi della sicurezza alimentare in un disastro umanitario che si aggiunge agli altri, in un perverso effetto sinergico negativo, e potenzialmente esplosivo.
Ma sono tanti altri, non meno vitali, gli effetti nascosti della guerra che vanno richiamati: come le violazioni dei diritti umani, gli stupri e l’uso della tortura o lo svilimento della democrazia e dei suoi istituti che ogni guerra porta con sé e residua.
Anche per questo fermare la guerra, tutte le guerre, è un imperativo, che non può essere subordinato ad altre considerazioni, per quanto fondate possano essere o apparire.
Diversamente, il ritiro dall’Afghanistan non ha lasciato il posto a una doverosa messa in discussione della risposta globale al terrorismo e di quella teorizzazione e messa in pratica occidentale, e principalmente statunitense, della “guerra infinita” che tanti danni, morti e devastazioni ha prodotto in questi vent’anni. Tanto che, nel 2021, la spesa militare globale totale è aumentata dello 0,7%, raggiungendo il massimo storico di 2.113 miliardi di dollari, con soli sei paesi che (in testa da sempre gli Stati Uniti, con oltre 800 miliardi, seguiti da Cina, India, Regno Unito e Russia) che insieme rappresentano il 62% del totale.
Nel ventennio di guerra in Afghanistan la spesa del Pentagono è ammontata a oltre 14 trilioni di dollari: da un terzo alla metà di questa immensa cifra è stata destinata ad appaltatori militari, cioè al privato. Solo negli ultimi due decenni i produttori di armi hanno speso due miliardi e mezzo di dollari in attività di lobbying. Guardando questi numeri è facile capire chi e perché ha voluto l’invasione dell’Afghanistan e poi dell’Iraq, e poi della Siria e della Libia, dello Yemen e chi preme per l’escalation nel teatro ucraino.
La fine dell’invasione dell’Afghanistan avrebbe potuto e dovuto favorire anche una riflessione e un concerto internazionale sui diritti di migranti e rifugiati. Abbiamo invece visto come è andata, tranne occasionali e brevi accensioni di riflettori e apertura di frontiere, ma per ragioni geopolitiche, non certo per la salvaguardia dei diritti umani: che infatti continuano a essere impunemente e quotidianamente violati da governi e polizie nei Balcani, nonché dall’agenzia europea Frontex e dalle diverse guardie costiere, in primis quella libica.

Le radici inestirpate della pandemia
Allo stesso modo e tempo, la questione pandemica - esattamente come quella ambientale, cui è strettamente connessa e in parte derivante - rinvia alla necessità di quel cambiamento di sistema e di paradigma di cui scriviamo da molti anni e verso il quale, invece, permangono pervicaci - per non dire criminali - resistenze, che non sono state scalfite neppure dagli oltre 6 milioni di vittime a livello globale per il Covid-19, di cui oltre166.000 in Italia (ma, secondo autorevoli studi scientifici, la cifra reale delle morti in eccesso nel 2020-2021 sarebbe tripla, intorno ai 18 milioni).
Vittime, in molta parte, non della vecchiaia o della sfortuna ma di determinate politiche e di precise responsabilità: di un diritto alla salute negato, di un sistema sanitario vulnerato a colpi di privatizzazioni, delle crescenti diseguaglianze sociali, di scellerate politiche ambientali, che possono diventare un vero e proprio genocidio.
Le risposte politiche di governi e istituzioni sovranazionali alla pandemia hanno deliberatamente scelto di non metterne in discussione i presupposti, ambientali e sociali del modello di sviluppo. La mancata moratoria sui brevetti dei vaccini è un crimine contro l’umanità, oltre che una scelta in evidenza suicida, responsabile del susseguirsi di varianti del virus e di nuove ondate di contagi, per quanto al momento rimosse, con l’attenzione mediatica interamente assorbita dalla situazione in Ucraina.
Per stare solo all’Italia, ad esempio, abbiamo visto come la ripartizione dei fondi del PNRR abbia posto la sanità agli ultimi posti e di come, anzi, questi fondi rischino di finire nuovamente al privato. «Niente resterà come prima», dicevano nel dilagare del Covid-19 e della paura connessa. Cessata la paura, ma non il virus, le politiche locali e globali stanno reiterando gli errori e tutto sta divenendo persino peggiore di prima. Come ha già deciso la Regione Lombardia con la nuova “riforma”, a discapito del servizio sanitario pubblico e di quella medicina di territorio di cui si è constatata la drammatica inadeguatezza nel corso della pandemia. Una scelta scellerata e recidiva.
Nel complesso, la perdurante crisi finanziaria ed economica, quella pandemica, ora pericolosamente rimossa, quella ambientale, irresponsabilmente archiviata, quella geopolitica e umanitaria in corso, ci dicono che il mondo e il pianeta sono vicini a un punto di non ritorno.
Questa è la realtà, per quanto spesso colpevolmente occultata e travisata da un sistema dell’informazione scarsamente indipendente dai poteri economici e politici. Una realtà difficile e preoccupante, addirittura terrorizzante.
Eppure, e proprio per ciò, parlare oggi di diritti sociali, diritti umani e diritti ambientali non può che partire dall’affermazione e constatazione che dà il titolo al nostro ultimo Rapporto: Un altro mondo è possibile. Contribuire a costruire la necessaria alternativa a questo stato di cose, prima che sia troppo tardi, è allora responsabilità di tutti e di ciascuno.


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