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Articolo pubblicato sul numero 238, 1/2022
gennaio-marzo 2022

Curare le ferite sociali degli anziani non autosufficienti

Antonio Censi

Sociologo, già dirigente residenza sociosanitaria, Bergamo

Tipologia: Articolo


Il rinnovamento delle residenze sociosanitarie per anziani, comunque denominate, da tutti oggi auspicato, appare possibile solo dopo aver sottoposto a un lavoro di decostruzione il paradigma bioecomicistico della non autosufficienza posto a fondamento di questi servizi.

Le drammatiche vicende che hanno investito le RSA hanno svelato le contraddizioni più vistose del modello aziendalistico sanitario intorno al quale si è strutturata la loro organizzazione. Nel mio libro “Vita da vecchi. L’umanità negata delle persone non atosufficienti” (Edizioni del Gruppo Abele, Torino, 2021), cerco di analizzare le ripercussioni di queste contraddizioni sull’identità e la vita quotidiana dei residenti indicando alcuni percorsi per costruire organizzazioni più idonee a stabilire un maggiore equilibrio tra la qualità delle cure e il rispetto della dignità umana degli assistiti.
La tesi centrale del libro è che il rinnovamento delle RSA, da tutti oggi auspicato, sia possibile solo dopo aver sottoposto a un lavoro di decostruzione il paradigma bioeconomicistico della non autosufficienza posto a fondamento di questi servizi.
I temi che affronto nel mio libro rientrano in tre ambiti: nel primo cerco di evidenziare gli effetti di distorsione che il paradigma dominante della non autosufficienza esercita sulla percezione dei bisogni espressi dalla persona anziana che sta vivendo questa esperienza; nel secondo analizzo i principali cambiamenti che la perdita dell’autonomia fisica introduce nella vita quotidiana della persona(quelle che chiamo le ferite sociali della non autosufficienza); nel terzo suggerisco alcuni percorsi che possono contribuire alla configurazione di un paradigma della non autosufficienza (e della sua possibile declinazione organizzativa) più adeguato a rispondere alle aspettative di riconoscimento identitario e di comprensione umana della persona anziana.
Le pratiche di valutazione multidimensionale come fonti di disuguaglianza e disistima
Le mie riflessioni sono volte a dimostrare che i sofisticati metodi e strumenti di valutazione multidimensionale della non autosufficienza utilizzati per pianificare le attività di cura e di assistenza, oltre ad essere del tutto inadatti a ricostruire nella loro irriducibile singolarità i percorsi di invecchiamento, non consentono di individuare quelle forme di sofferenza che non derivano tanto dal declino fisico, quanto dalla perdita dell’autonomia personale e dal coinvolgimento in relazioni con gli altri non paritarie, svalutanti e spesso umilianti. Per i residenti di una RSA l’essere oggetto di un costante monitoraggio del livello di non autosufficienza rappresenta una fonte di sofferenza simbolica che va ad appesantire una condizione già di per sé problematica. Cosa si intende per sofferenza simbolica? Si intende la sofferenza che deriva dall’essere sottoposti a processi di manipolazione, riduzione, modificazione o trasformazione dell’identità.
Diversamente dalle relazioni che ogni persona instaura con gli altri nel corso della sua vita ordinaria, che sono paritarie e bidirezionali, quelle che una persona anziana si trova ad affrontare con gli operatori dei servizi sono quasi esclusivamente unidirezionali e asimmetriche.
Unidirezionali in quanto sono sempre gli operatori a condurre il gioco nell’ambito di spazi, luoghi e tempi predeterminati, sottratti alla negoziazione, avvalendosi di strumenti standardizzati come, ad esempio, scale di valutazione funzionale e moduli di consuntivazione informatizzata delle prestazioni.
Socialmente asimmetriche poiché il sapere tecnico pone il valutatore in una posizione di superiorità rispetto al valutato che, in queste circostanze, si trova impossibilitato a usare il sapere di sè e la sua lingua ordinaria.
Ignorando, o rilevando superficialmente, ciò che i residenti raccontano di sé, della loro salute e della loro vita quotidiana all’interno dell’istituzione, li si delegittima a essere quello che sono e quello che desidererebbero continuare ad essere. L’economicismo sanitario dominante nelle RSA e il conseguente incremento di pratiche di lavoro sempre più standardizzate e informatizzate negano alla persona anziana lo status del “soggetto agente” per imporgli quello dell’anonimo consumatore di prestazioni assistenziali. Per i residenti queste procedure sono fonte di spiacevoli esperienze di disuguaglianza e di svalorizzazione di sé poiché, da un lato, certificano loro inoppugnabilmente ciò che non hanno o non sono rispetto agli altri; dall’altro rinviano loro un’immagine riduttiva e deficitaria della propria persona. Di fatto i processi organizzativi delle RSA operano come catene di smontaggio sociale che, mettendo in atto i processi di spogliazione identitaria ampiamente documentati dalla sociologia delle istituzioni totali, riducono la persona a un corpo inerme che alimenta, giustifica, o lascia cadere nell’indifferenza, varie forme di maltrattamento fisico e psicologico esercitate ai suoi danni.
La non autosufficienza come fallimento individuale
E’ di questi giorni la pubblicazione in Francia di un esplosivo pamphlet che, sulla base di un’ampia mole di dati, denuncia lo spietato sistema di sfruttamento economico della RSA (Castanet, 2022). Lo scalpore suscitato dal libro nell’opinione pubblica ha assunto dimensioni tali da ipotizzare una sua possibile incidenza sui risultati delle prossime elezioni alla presidenza della repubblica.
Ma perché, ci si potrebbe chiedere a questo punto, una società avanzata come la nostra continua a tollerare le varie forme di maltrattamento imposte ai residenti delle RSA, nonostante l’ampia mole di informazioni di cui disponiamo intorno a queste tristi vicende?
Una prima risposta può essere trovata nella funzione difensiva che, da sempre, le istituzioni sociali esercitano nei confronti delle esperienze, come la vecchiaia e la morte, che indicano i limiti della vita. In questo senso le RSA, oltre al compito dichiarato del curare e dell’assistere, assolvono tacitamente la funzione di occultare la presenza scomoda e minacciosa degli anziani non autosufficienti. A questa funzione di occultamento si è aggiunta oggi una funzione che potremmo definire punitiva e che trova giustificazione nel fatto che chi non è più in grado di nascondere la sua non autosufficienza (alla quale sono associati disvalori come la sporcizia, il disordine, la disgustosità, la bruttezza) non solo deve giustificarsi, deve scusarsi, ma deve essere punito per non aver ottemperato all’obbligo di conservare l’efficienza e la gradevolezza del suo corpo. Muovendo da questo assunto, non appare del tutto illecito chiedersi se un ulteriore funzione nascosta delle residenze per anziani possa essere quella di far espiare ai residenti la colpa di essere invecchiati male. Tutto ciò può apparire una forzatura, ma se si pensa che la nostra società considera la buona salute non come una condizione già data, ma come un bene che ogni individuo è tenuto doverosamente a salvaguardare sottoponendosi, quotidianamente e per tutta la vita, a un regime che, non solo lo protegga dalle malattie, ma gli assicuri l’efficienza e la gradevolezza del corpo, questa visione può apparire non così esagerata. Se la piena responsabilità della gestione del corpo spetta esclusivamente all’individuo, in coerenza con questo dovere, la condizione di non autosufficienza non viene considerata come un’evoluzione naturale dell’organismo umano, ma viene interpretata come un fallimento personale socialmente sanzionabile. Così come un tempo era la caduta in stato di povertà ad essere giudicata un fallimento morale da punire con l’internamento nelle workhouse (luoghi dove attraverso il lavoro ci si doveva riscattare dalla colpa della dipendenza dagli altri), non potrebbero essere oggi le RSA ad assolvere tacitamente la stessa funzione nei confronti di chi si è reso colpevole del fallimento morale determinato dalla perdita della non autosufficienza? Riconosco che l’ipotesi può apparire forzata. Ma se pensiamo all’alto grado di sofferenza umana che la nostra società impone ai residenti nella maggior parte di questi luoghi, la visione non è per nulla peregrina. C’è chi sostiene che nei confronti delle persone non autosufficienti sia già in atto una sorta di eutanasia morbida, che se non giunge ancora all’eliminazione fisica, crea condizioni che impediscono di continuare a condurre una vita dignitosa. La lentezza con cui i governi deliberano piani di finanziamento dei servizi sociali e sanitari, l’esclusione delle persone al di sopra di una certa fascia di età dalla fruizioni di prestazioni sanitarie, l’inadeguatezza della medicina di base e dell’assistenza ospedaliera ai bisogni dei malati molto anziani, l’indebolimento delle forme di tutela dei diritti di cittadinanza, la tolleranza verso forme di violenza, abuso, maltrattamento, sono segnali che sembrano inviare agli anziani non autosufficienti un messaggio poco confortante:  “Non volete morire... Bene, vi si lascerà vivere. Al minimo. Nessuno omicidio fisico. Solo omicidi sociali, psichici, simbolici” (Péllissier,2007).

Cambiare paradigma
Dopo le tragiche vicende che hanno investito le RSA, il Ministero della Salute ha costituito una commissione cui ha affidato il compito di ridisegnare il sistema dei servizi per agli anziani non autosufficienti.
In un comunicato del febbraio 2021, stilato al termine di un incontro con i membri delle associazioni impegnate in prima linea nell’assistenza alle persone anziane, la commissione sottolinea il consenso unanime dei partecipanti nel porre al centro dell’attenzione la persona anziana, il cui accompagnamento nell’ultimo tratto della sua esistenza umana, compete non solo al Sistema Sanitario Nazionale, ma all’intera società, che se ne dovrà prendere cura creando percorsi che, partendo dai servizi domiciliari e passando per le co-housing, giungano fino alle Rsa.
L’orientamento della commissione dovrebbe indurre chi dirige i servizi a costruire percorsi di transizione a un diverso modello organizzativo perseguendo l’obiettivo di stabilire un maggiore equilibrio tra l’intensità sanitaria e l’intensità sociale di questi servizi.
Si tratterebbe in pratica di affiancare al Piano di Assistenza Individuale intorno al quale è strutturata l’organizzazione delle RSA un Piano di Accompagnamento che tuteli il profilo identitario dell’anziano non autosufficiente e circoscriva i problemi quotidiani con i quali si è misurato e si sta misurando nella sua specifica condizione di non autosufficienza. Per perseguire questo obiettivo è necessario immettere, correggendo l’orientamento aziendalistico-sanitario che ha caratterizzato fino ad oggi l’organizzazione delle RSA, una dose massiccia di saperi sociali.
Nel mio libro accenno ad alcune innovazioni che si potrebbero introdurre nelle pratiche di lavoro assistenziale e organizzativo per assicurare ai residenti percorsi di accompagnamento personalizzati e indico alcuni percorsi possibili per trasformare le RSA in comunità all’interno delle quali l’accompagnamento e la condivisione rappresentino i principali valori di riferimento.
Parlare di percorsi strutturati è in questo momento forse prematuro. Penso tuttavia che il disegno di un nuovo possibile scenario delle RSA, dove l’asse della vita organizzativa non sia più centrato esclusivamente sulle prestazioni ma si allarghi all’analisi delle relazioni che intercorrono tra residenti e operatori, possa facilitare la costruzione di un paradigma della non autosufficienza più rispondente alle attese dei residenti.
Le possibilità di costruzione di un diverso paradigma della non autosufficienza sono legate all’evoluzione che avrà il sistema economico della nostra società e alla accresciuta disponibilità dei suoi membri ad affrontare aspetti problematici della condizione umana oggi rimossi o negati. E’ assai probabile che questo percorso richieda tempi lunghi.
Nel frattempo è possibile cominciare a tratteggiare scenari organizzativi più coerenti con i principi affermati dalla commissione ministeriale di cui abbiamo parlato in precedenza.

In questa fase di transizione, quattro dovrebbero essere gli obiettivi da perseguire.
1. Ricomporre la divergenza degli sguardi. Dobbiamo imparare a riconoscere che tra la società e gli anziani che stanno vivendo in prima persona la difficile esperienza della non autosufficienza esiste una profonda divergenza di sguardi. Mentre la società la considera in termini di cure e di assistenza - da erogare, a costi economici sostenibili all’interno di luoghi separati e chiusi in se stessi - l’anziano vive questa condizione come una limitazione del suo diritto di continuare ad essere socialmente riconosciuto come una persona a pieno titolo e di ricevere gli aiuti necessari a governare autonomamente la sua vita.  Ciò significa che per la persona anziana non autosufficiente i bisogni di riconoscimento identitario, di autonomia personale e di comprensione umana prevalgono nettamente su quelli di essere ben curati e assistiti.
Questa divaricazione di sguardi è riassunta molto bene da Atul Gawande in un passaggio del suo libro “Essere mortale”: “Nella fase finale della vita – sostiene Gawande - per affermare le sue legittime aspettative la persona che vive in una residenza per anziani è costretta a entrare in conflitto con un ambiente sociale che sembra perseguire ogni tipo di obiettivo (liberare letti d’ospedale, razionalizzare le attività di cura e di assistenza, ampliare l’offerta dei servizi) tranne quello che alla persona importa di più. Vale a dire, come condurre una vita che valga la pena vivere quando si è deboli e vulnerabili e non si è più in grado di cavarsela da soli”.
2. Incrementare le capacità relazionali degli operatori. Se si vuole incrementare l’attesa prioritaria dei residenti di restare persone a pieno titolo non ci si può limitare a incrementare il sapere tecnico degli operatori, ma si deve mirare allo sviluppo della loro sensibilità umana, creando le condizioni che facilitino l’ascolto e la comunicazione con le persone assistite. E’ solo attraverso l’uso consapevole di strumenti umani che si può tutelare il sentimento di autostima e l’identità sociale dei residenti.

3. Considerare i residenti come testimoni di una condizione umana rimossa o negata. I residenti andrebbero considerati i testimoni di una condizione umana con la quale in futuro un numero sempre più grande di persone si dovrà misurare al termine della sua vita. Attraverso l’accoglienza di chi oggi vive questa condizione ognuno può contribuire alla costruzione di un mondo più solidale e condiviso. Rispettando, ascoltando e cercando di aiutare i residenti a mantenere il proprio posto nel mondo è possibile aprire la strada verso una società più umana.

4. Adottare una documentazione rispettosa. Con l’aziendalizzazione dei servizi socio-sanitari e la contemporanea penetrazione dell’informatica nelle pratiche di lavoro è notevolmente aumentato il ricorso ad artefatti tecnologici per rilevare i bisogni assistenziali degli utenti dei servizi. Attraverso queste procedure i residenti vengono trasformati in soggetti senza volto, senza storia, senza luogo. Se vogliamo restituire loro un volto, una storia e un luogo dobbiamo dotarci di strumenti di documentazione diversi, poiché è solo attraverso una documentazione visiva e narrativa che è possibile accedere alla comprensione dell’esperienza che il residente sta vivendo. Già oggi in molte residenze per anziani vengono raccolte narrazioni, fotografie, filmati che documentano la vita dei residenti. Ma a questa documentazione si attribuisce un valore prevalentemente illustrativo, collaterale o occasionale, sempre secondario rispetto alla documentazione sanitaria. Mentre dovrebbe essere considerata la documentazione indispensabile al prendersi cura della persona e della sua vita.

Conclusioni
Sarei dispiaciuto se le considerazioni critiche contenute nel mio scritto fossero interpretate come una manifestazione di ingratitudine nei confronti di quanti, nelle RSA, sono impegnati a perseguire con tenacia e spirito di sacrificio il miglioramento della qualità delle cure. E mi riterrei ingeneroso se non tenessi conto delle obiettive difficoltà ad operare entro i margini ristretti della legislazione che incontrano gli amministratori e i dirigenti di questi servizi. Resto tuttavia convinto che il patrimonio di risorse umane di cui sono depositari questi servizi non potrà essere utilizzato pienamente fino a quando non si metterà mano a una drastica revisione del paradigma bioeconomicistico della non autosufficienza.                 


Riferimenti bibliografici
- Castanet V., Les Fossoyeurs, Paris, Fayard, 2022
- Gawande A., Essere mortale, Torino, Einaudi, 2016
- Pellissier J., La guerre des ages, Paris, A. Colin, 2007


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