Articolo di Appunti (Accesso libero)
Articolo pubblicato sul numero 238, 1/2022
gennaio-marzo 2022
Integrazione: trent'anni e qualcuno in più. Appunti del passato per un futuro inclusivo
Andrea Canevaro
Tipologia: Articolo
Gli appunti del passato possono far capire che l'integrazione non ha riguardato unicamente i soggetti "speciali". Ha interessato la formazione attiva, le fonti del sapere, la collaborazione oltre la scuola. Rappresenta un modello che non è nato come modello. Forse è solo un quadro che è stato composto a partire da un'idea (l'integrazione), ed ha utilizzato quanto era possibile utilizzare, nella propria e nell'altrui esistenza.
La scoperta dei coetanei (e degli adulti)
“La contemporanea presenza di bambini normali e deficitari ha provocato reazioni e domande soprattutto nei primi, i quali hanno notato, ad esempio, la particolare conformazione fisica dei soggetti mongoloidi (protusione della lingua, attaccatura tipica del pollice, ecc.) e l’assenza, in alcuni casi, del linguaggio. In un primo momento, anche perché non si attendevano domande così precise, le insegnanti hanno avuto delle esitazioni ed hanno preferito non rispondere. Dopo una riunione, in cui si sono discussi questi problemi, si è deciso di incentrare la risposta sul concetto di diversità, spiegando cioè che ogni bambino ha delle proprie caratteristiche fisiche (colore dei capelli, altezza, ecc.). Allo stesso modo è stato chiarito che esistono per il linguaggio tappe diverse, sottolineando tuttavia che l’assenza o la limitazione del linguaggio non implicano una incapacità di comprensione, per evitare che questi bambini non fossero poi considerati degli interlocutori. Si è visto in seguito che né l’aspetto fisico, né la limitazione del linguaggio hanno ostacolato i rapporti fra i due gruppi: infatti i bambini hanno utilizzato, spesso, per comunicare schemi gestuali e mimici del tutto spontanei” (M. Ammanniti, A, Ginzburg, 1971, p. 20).
In quegli anni, stavano entrando molti nuovi insegnanti nella scuola italiana. Fra il 1968 e il 1973, il 30% dei settecentomila insegnanti, era appena entrato, con conseguente abbassamento dell’età media e allargamento dell’area di reclutamento.
Con Sergio Neri, eravamo impegnati ad operare ed a guardarci attorno. Operando, venendo entrambe dallo scoutismo e vivendo esperienze di “colonie” estive che permettevano di rompere l’utilizzo insensato degli istituti, pensavamo che il gioco avesse una certa importanza.
Il gioco ha caratteristiche che sono nello stesso tempo autonome e capaci di creare strategie di apprendimento. Può essere integrato al percorso degli apprendimenti, senza forzature didatticistiche e senza trasformarlo in ludoterapia. Permette e valorizza l’esplorazione, la scoperta dell’utilità delle regole e della finalizzazione, e quindi disciplina in una logica costruttiva non necessariamente lineare. E aiuta a sviluppare il linguaggio. Ma indica a un insegnante la necessità di strutturare tempo e spazio (poi si parlerà di programmazione, con un rischio di burocratizzare il progetto educativo e formativo).
“Accanto al gioco, vi è la necessità di dare tempo, e organizzare lo spazio, per la conversazione. Dialogare significa umanizzare. Umanizzare significa imparare ad appartenere, ma anche a trasgredire. Il principio di individuazione comporta la scoperta di ciascuno di noi come individuo singolo e la valorizzazione delle sue unicità. Tale principio è importante, perché rende ogni persona responsabile in quanto singolo, delle proprie azioni” (S. Neri, in I. Veronesi, 2005, p. 211).
L’inadeguatezza delle strutture speciali
L’esperienza diretta con alcuni soggetti, rivelava l’inadeguatezza delle strutture speciali. Stefano era un diciassettenne con sindrome di Down, con un padre invalido, una madre che faceva pulizie a ore, e una sorella più grande che studiava e lavorava. Di Stefano si sapeva che aveva iniziato a parlare a tre anni. Con l’uscita dalla scuola speciale, cioè a sedici anni, era passato ad un centro di formazione professionale. Di botto era migliorato, adottando un tono di comando imperioso e burlesco insieme, con modi travolgenti ma anche simpaticamente coinvolgenti, con una carica di superattivismo burlesco e carico di simpatia.
Le note che lo avevano accompagnato dalla scuola speciale, parlavano di lui come di un bambino (aveva sedici anni e un fisico di piccola statura ma forte e agile) pauroso e incapace, che si rifugiava sotto i tavoli se c’era un temporale. Divenne un leader. Fece il falegname, e aiutò i suoi genitori con lo stipendio, meritato, che guadagnava. Andò poi in pensione. Nel frattempo i suoi genitori erano morti e la sorella si era sposata. Visse vicino alla sorella, e tornò al centro di formazione professionale, per dare una mano in lavoretti, e avere giornate occupate senza gravare sulla sorella e la sua famiglia. E morì, con una vita alle spalle laboriosa e normale.
Quanti erano i soggetti che, nei fatti, dimostravano l’inadeguatezza delle strutture speciali?
Gli istituti venivano messi in discussione da un gruppo di esperti costituito presso la segreteria della Conferenza Episcopale Italiana. In una pubblicazione ufficiale del 1971 sull’argomento, venivano sottolineati gli aspetti irrimediabilmente negativi dell’anonimato, della scarsa autonomia, della difficoltà per chi cresce di sperimentarsi, delle serie difficoltà a raggiungere una maturità sessuale come “fatto globale” (V. bibliografia). Queste indicazioni respiravano l’aria conciliare. E facevano tesoro di esperienze che diversi sacerdoti avevano avviato, e che riguardavano tutti, sia soggetti normali che “speciali”.
L’esperienza diretta, uscendo insieme dalle strutture speciali, formava nuove competenze.
Imparare facendo
Una rivista prestigiosa come “Aut-Aut”, non diffusa ma certo considerata come un riferimento autorevole, pubblicava in quegli anni (1969) un saggio – La alfabetizzazione degli adulti - di Paulo Freire. Freire, parlando appunto dell’alfabetizzazione, parlava di un rinnovamento della didattica che colpiva molti insegnanti, anche perché era suggestivo e in qualche modo seduttivo. Distingueva due modi di affrontare l’analfabetismo: - la concezione batteriologica, che considera l’analfabetismo come un’erba da estirpare; - la concezione critica che vede l’analfabetismo come esplicitazione fenomenico-storica riflessa dalla struttura della società in un dato momento. Nella prima concezione, l’alfabetizzazione è un atto meccanico, il depositare la parola come una cosa fisica, come fosse un feticcio: un atto con cui l’alfabetizzazione riempie della sua parola gli analfabeti. Il significato magico dato alla parola si prolunga e origina un’altra ingenuità: il messianismo. L’analfabeta è un uomo perduto, e si impone la necessità di salvarlo, riempiendolo di parole alfabetizzate. Questa concezione nasconde una vera paura della libertà. E l’alfabetizzazione non è un diritto; è un dono.
“L’alfabetizzazione è autenticamente umanistica […] solo quando, senza temere la libertà, si instuaura come un processo di indagine, di creazione, di recupero della propria parola, da parte dell’analfabeta […]. L’uomo apprende ciò che è fondamentale: la necessità di scrivere la propria vita, di fare esistere la propria vocazione ontologica e storica, di umanizzarsi, di essere di più” (P. Freire, 1968, p. 67).
La parola autentica è insieme riflessione e azione; è praxis, lavoro, è trasformare la realtà. Per questo la parola non è privilegio ma diritto di base.
Vi sono delle parole generatrici. Per questo l’alfabetizzazione come atto creativo è già la Pedagogia in sé stessa. Operare sul mondo trasformandolo è fare cultura.
Le indicazioni di Paulo Freire sono state utili per cercare di tradurre le aspirazioni di integrazione in un’operatività quotidiana che contenesse una dimensione vasta cometa società. Un’ambizione che collegava l’integrazione al cambiamento sociale. E questo fu capito bene dai Sindacati, che vissero attivamente la proposta dell’integrazione. Nel novembre del 1974 si svolse a Roma un importante convegno dedicato “all’inserimento dell’handicappato” nella scuola ordinaria. Era organizzato dal Sindacato nazionale scuola CGIL, dal Movimento di Cooperazione Educativa e all’Istituto di Psicologia del CNR (Cfr. AA. VV, 1975). E i sindacati cominciavano a pretendere che le negoziazioni contrattuali comprendessero i diritti delle persone con disabilità.
Oltre la scuola
La scuola dell’integrazione, ancor più della prospettiva inclusiva, deve operare con altre strutture e in funzione della vita che va oltre la scuola. Una rivista europea importante come la francese “Esprit” dedicò un numero speciale al lavoro sociale (1972). Sottolineiamo la dimensione europea, che a volte è lasciata in ombra. Crediamo sia invece un aspetto caratterizzante che investe molti aspetti, dalla formazione all’organizzazione in équipe interdisciplinare e interprofessionale.
Il lavoro sociale è esposto al rischio di subordinazione alla logica del controllo sociale. Per Paul Vigilio, lo spazio sociale è talmente saturo che i muri dei ricoveri non delimitano niente, e sono illusori ed arcaici (P. Vigilio, 1972, p. 128). Questo è un punto in comune con la svolta che ha caratterizzato la Psichiatria. Ma le vicende dell’integrazione, soprattutto scolastica, non hanno molti altri punti in comune con le vicende della Psichiatria, che avevano ed hanno strutturazioni assai diversi dal mondo dell’educazione.
Queste considerazioni del rischio di confondere lavoro e controllo sociale. Un operatore sociale deve evitare di pensare che le “sue” soluzioni sono automaticamente trasformate in decisioni. Deve acquistare una legittimazione che passa dalla conquista di credibilità e fiducia rispetto a chi ha ruoli politico-amministrativi. Questo ha significato e significa rivedere lo specifico della propria professionalità e curarne l’interfaccia interistituzionale come elemento fondamentale del proprio operare. A tanti anni di avvio, questa è una necessità ancora largamente incompiuta, e lo stesso profilo professionale di alcune figure operative è indefinito. Sono in gran parte valide le parole di Sergio Neri: “Attualmente non c’è la capacità di vedere come costruire le cose, è una politica che si muove sul come fare, uno sa come fare una cosa ma non ne ha, a mio avviso, una visione di insieme. Se non hai un progetto più ampio rimani fermo lì, se non hai un’idea delle cose a lungo termine non riesci più a distinguere” (S. Neri, in S. Nocera, 2001, p. 248).
Occorre andare oltre la scuola, verso l’età adulta, il lavoro, la vita autonoma e poi l’invecchiamento. La credibilità dell’impegno nell’integrazione scolastica è il seguito: la realizzazione del progetto di vita.
Riferimenti internazionali
Ci sono molti motivi di conforto giunti, per l’impegno inclusivo, guardando al contesto internazionale. Aldo Zelioli, che lavorava nei decenni dal ’60 all’ ‘80 al Ministero della Pubblica Istruzione nel ruolo di Ispettore Tecnico, aveva la cura istituzionale dell’avvio e della crescita robusta dell’integrazione scolastica. E guardava al mondo, non fermandosi ai confini italiani.
Per sintesi, facciamo riferimento a due grandi fonti di confronto e di conforto:
a) le correnti di pensiero, di ricerca e di studio che hanno indicato temi fondamentali, che si sono intrecciati alle esperienze italiane in modo tale, da rendere difficile l’ordinare in una sequenza temporale temi ed esperienze. Pensiamo agli studi sulle istituzioni totali di Erving Goffman (1972; 1961), al passaggio dal programma al curricolo (Cfr. L. Stenhouse, 1977; 1976), alle rielaborazioni del mainstriming e del mastery learning (Cfr. G. Petracchi, 1978), alla formulazione del “profilo eterocronico” (R. Zazzo, 1971; 1969). E tante altre indicazioni, studi, esperienze con cui confrontarsi, e di cui chi opera era ed è goloso. Un’idea e un progetto può sintetizzarsi nell’idea della decolonizzazione, dell’infanzia e non solo (Cfr. G. Mandel, 1971). Questa prospettiva si è confusa, ed è ancora impropriamente confusa con un aspetto che le è estraneo: il permissivismo, il “lasciar fare”, la rinuncia dell’esercizio della responsabilità educativa. Crediamo che a questa caricatura siano state addossate molte colpe, quali il dominio di una socializzazione vuota di apprendimenti o la promozione facile e anche regalata, con semplificazioni falsificanti. Le curiosità erano e sono saldate fortemente all’impegno responsabile. Difficile pensare che queste curiosità ad ampio orizzonte possano corrispondere ad un corso formalizzato (che ci vuole! Assolutamente…) di formazione.
b) le “agenzie” internazionali. Ci limitiamo a un’indicazione. Nel1970, Edgar Faure, incaricato di coordinare un gruppo di studiosi di ogni parte del mondo, presentò il Rapporto sulle strategie dell’educazione (1973; 1972). Edgar Faure è una personalità politica francese di primo piano. E il Rapporto è un documento-svolta: pone il tema dell’educazione come centrale di un modello di società, antagonista al modello di società militarizzata che l’incremento continuo delle spese militari sembra imporre. La novità storica è che lo sviluppo dell’educazione, a livello mondiale, tende a precedere il livello dello sviluppo economico. E per la prima volta nella storia, l’educazione si impegna concretamente a preparare gli umani per società che non esistono ancora e che vanno costruite. Il Rapporto non affrontava la specificità dell’integrazione di soggetti “speciali”. Ma diventava un fondamentale sostegno per la realizzazione dell’integrazione: dava respiro a un disegno ampio, che conteneva, con congruenza e chiarezza, l’integrazione. Ed era molto più importante, o almeno così sembrò, di documenti tecnici specifici ma scarsamente prospettici.
L’inclusione vuole essere non un nuovo modo di dire, ma una realtà complessivamente disposta per la vita di tutte e di tutti, senza strutture speciali o progetti straordinari.
L’inclusione è un diritto fondamentale ed è in relazione con il concetto di “appartenenza”. Le persone con o senza disabilità possono interagire come persone alla pari. Un’educazione inclusiva permette alla scuola regolare di riempirsi di qualità: una scuola dove tutti i bambini sono benvenuti, dove possono imparare con i propri tempi e soprattutto possono partecipare, una scuola dove i bambini riescono a comprendere le diversità e che queste sono un arricchimento. La diversità diventa, così, normale. E lo stesso per il lavoro, per i trasporti, per la vita sociale e culturale. Scopo dell’inclusione è quello di rendere possibile, per ogni individuo, l’accesso alla vita “normale” per poter crescere e “svilupparsi” totalmente.
Note bibliografiche
- M. AMMANNITI, A. GINZBURG (1971), Bambini normali e bambini deficitari insieme a scuola, in “Cooperazione Educativa”, Roma, n. 8.
- S. NERI, in I. VERONESI (2005), L’alfabeto di Sergio Neri. Le parole del pensiero pedagogico di un grande educatore, Gardolo di Trento, Erickson.
- AA.VV. (1971), Gli istituti educativo-assistenziali per minori normali, Roma, Ed. AVE.
- P. FREIRE (1968), L’alfabetizzazione degli adulti, in “Aut-Aut”, Milano, n. 109-110.
- AA.VV., (1975), Gli handicappati nella scuola di tutti, Roma, Editrice Sindacale Italiana.
- P. VIGILIO (1972), Le travail social, in “Esprit”, Parigi, n. 4-5.
- S. NERI, in S. NOCERA (2001), Il diritto all’integrazione nella scuola dell’autonomia, Gardolo di Trento, Erickson.
- E. GOFFMAN (1972; 1961), Asylums, Torino, Einaudi.
- L. STENHOUSE (1977; 1976), Dalla scuola del programma alla scuola del curricolo, Roma, Armando.
- G. PETRACCHI (1978), Individualizzazione classi aperte interclasse, Brescia, La Scuola.
- R. ZAZZO, Équipre H.H.R. (1971; 1969), I deboli mentali, Torino, SEI.
- G. MENDEL, Pour décoloniser l’enfant, Paris, Payot.
- E. FAURE (1973; 1972), a cura di, Rapporto sulle strategie dell’educazione, Roma, Unisco-Armando.