Data di pubblicazione: 07/09/2018
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Sulle politiche sanitarie nelle Marche

In "Appunti sulle politiche sociali", n. 3/2018. Intervista a cura di Fabio Ragaini.

Vorrei partire chiedendoti una valutazione, a quindici anni dall’istituzione dell’Azienda sanitaria unica regionale (ASUR), su questa scelta e in via più generale al progressivo aumento delle dimensioni delle Aziende sanitarie. Ti dico anche, dal mio punto di osservazione, alcuni effetti. Da un lato un’unica (oltre le due Aziende ospedaliere) Azienda Regionale (con  circa 1,5 milioni di abitanti) ha portato ad una sovrapposizione di funzioni tra Regione e ASUR (una ambiguità che, forse, non dispiace ad entrambi) in termini programmatori. Dall’altra la centralizzazione ha portato ad una progressiva diminuzione della partecipazione territoriale, anche a livello di enti locali. Le Aree Vaste - articolazioni provinciali senza personalità giuridica  - da un lato rappresentano territori molto vasti e ad esempio per l’area sociosanitaria con problematiche differenti tra diverse zone, dall’altro i direttori di AV hanno possibilità decisionali così scarse da rendere sempre meno significativo il loro ruolo.

Anche io penso che  l’ASUR vada ripensata e rivista. Ho partecipato come attore non protagonista alla nascita dell’idea dell’ASUR in una serata dell’estate 2002 quando su indicazione dell’Assessore, Augusto Melappioni, ovviamente presente, e con la partecipazione del prof. Borgonovi della Bocconi venne discusso il possibile nuovo modello istituzionale del Servizio Sanitario Regionale. Gli altri attori protagonisti erano Zuccatelli dirigente del Servizio, che aveva coinvolto Borgonovi,  e Di Stanislao direttore dell’Agenzia (salto i loro nomi per affetto e stima, non certo per mancanza di rispetto!). L’idea della Azienda Sanitaria Unica venne fuori come unica possibile via d’uscita tra le Aziende Provinciali che la politica non voleva o le troppe ASL che sul piano tecnico non reggevano. Quindi tutto nacque da un “E se facessimo un’Azienda Unica?” quasi buttato là di cui non riesco ad attribuire  la paternità; il contesto era questo: occorreva comunque trovare  una soluzione alle troppe Aziende di allora. Tutto questo per dire che l’ASUR nasce saltando tanti passaggi, forse troppi. Quei passaggi fatti dalle tante Regioni che progressivamente hanno ridotto accorpandole le loro Aziende. Salvo poi rendersi conto ad un certo punto che questa mania degli accorpamenti (detta tecnicamente anche mergermania) genera proprio i problemi che ricordavi tu: troppa distanza tra il livello di governo e quello operativo. Inutile dire che stiamo parlando di modelli e non di persone. La recente polemica sui criteri di selezione dei  Direttori di Area Vasta, che nella versione iniziale della proposta di legge che li modificava venivano ridimensionati al punto che sarebbero bastati tre anni di dirigenza anche non continuativi, la dice lunga sulla “inconsistenza” decisionale delle Aree Vaste nella visione della attuale Giunta. 

Un altro punto sul quale chiedo una tua riflessione è questo. La nostra sanità è considerata virtuosa: siamo tra le Regioni di riferimento a livello nazionale (siamo tra le prime tre regione italiane definite “benchmark”), eppure, dal versante dei cittadini, il nostro sistema è percepito in sofferenza. Tra il “tutto va bene e tutto va male”, vuoi aiutarci a capire, dove secondo te siamo “eccellenti” e dove invece, al netto della propaganda, siamo in effettiva difficoltà? In particolare vorrei che approfondissi anche il tema della cosiddetta “mobilità passiva” che è alta ma, secondo la Regione in diminuzione, dall’altro (dati regionali presentati in previsione del nuovo Piano sanitario) riguardare quella che la regione Marche definisce “complessità medio/alta e medio bassa”.

Belle domande tutte e due: qualità del sistema sanitario delle Marche e importanza della mobilità sanitaria. Risponderò separatamente.

Cominciamo dalla qualità del sistema sanitario delle Marche. Come noto ci sono molti organismi che valutano la performance dei vari sistemi sanitari regionali attraverso un proprio sistema di indicatori. In alcuni casi queste valutazioni  producono anche graduatorie. Ogni regione enfatizza la classifica che la premia di più. Ovvio. Nel caso della Regione Marche il riferimento più frequentemente citato dalla Regione è la classifica fatta da parte del Ministero della salute per identificare le tre Regioni benchmark da utilizzare come riferimento per i cosiddetti costi standard. Questa classifica dà grande importanza al risultato economico e  questo ha favorito la Regione Marche che ha avuto avanzi “positivi” di gestione in alcuni anni. In questa classifica eravamo primi, siamo diventati secondi e quest’anno (con i dati 2015) siamo diventati terzi. Ci sono altri sistemi di valutazione delle Regioni che consentono graduatorie: quella ministeriale costruita con la cosiddetta griglia LEA ci colloca per il 2016 all’ottavo posto (come si ricava dalla relazione 2018 della Corte dei Conti), posizione simile a quella che le Marche occupano in altre classifiche come quella del Rapporto 2018 del CREA (Consorzio per la Ricerca Economica Applicata in Sanità promosso dall’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”) in cui  e del Rapporto 2017 Meridiana Sanità dell’European House-Ambrosetti SpA.

Ci sono poi sistemi di  monitoraggio delle performance regionali che non danno punteggi complessivi o indicatori sintetici “finali”, ma sono ricchi di informazioni. Uno è il Programma Nazionale Esiti (PNE), sempre di origine ministeriale, che valuta alcuni aspetti importanti dei risultati della attività ospedaliera come la sopravvivenza dopo una procedura interventistica o chirurgica e i volumi di attività delle stesse (uno dei principi della moderna organizzazione ospedaliera è proprio quello di concentrare le casistiche complesse in ospedali con adeguati volumi di attività). Il PNE (ultimo aggiornamento: dati 2016) sui sistemi più accreditati documenta notevoli criticità, ma la Regione non le ha mai commentate e fatte sue in termini di obiettivi di cambiamento. Un altro sistema importante è quello della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. E’ un sistema  volontario cui partecipano diverse Regioni; oltre alle Marche ci sono  tra le altre la Lombardia, il Veneto, la Toscana e l’Umbria. In questo sistema (gli ultimi dati sono del 2017) non c’è un “voto” sintetico finale, ma ci sono rappresentazioni grafiche che fanno capire come stanno messi i servizi delle varie Regioni. Le più note sono dei bersagli con cinque zone di colore diverso dal centro (verde scuro) alla periferia (rosso) che fanno capire per i diversi aspetti presi in esame come vanno le diverse Regioni. Se il valore dell’indicatore finisce sul rosso (per le Marche succede diverse volte) non va bene e occorre intervenire. I dati del Sant’Anna sono stati di recente commentati in due comunicati stampa prima dai sindacati CGIL CISL e UIL (criticamente) e poi dal dott. Volpini, Presidente delle Commissione Consiliare che nelle Marche si occupa di sanità (positivamente).  Se uno guarda il bersaglio delle Marche, vede gli “indicatori” rossi o comunque lontani dal centro e lo confronta con quello delle altre Regioni non può che essere critico. Certo la situazione dal 2016 al 2017 è migliorata, come ha ricordato il dott. Volpini, ma le criticità rimangono tante e sono più numerose ed importanti di quelle di altre Regioni del Nord (al solito Toscana, Veneto, ecc.).

Dopo questa carrellata la domanda è: ma le Marche come sono messe? Questi sistemi in modo coerente evidenziano che le Marche hanno importanti problemi di qualità nella erogazione dei cosiddetti LEA, tra cui (ce ne sarebbero molti altri):

  1.  forte carenza dei servizi territoriali in genere con una bassa copertura da parte dell’ADI e una offerta residenziale e in generale dell’area della post-acuzie inadeguata con una enorme difficolta alla dimissione protetta;
  2.   forte carenza di servizi nell’area delle fragilità come quella della salute mentale, delle dipendenze patologiche, della disabilità cronica  e delle demenze (e la assenza di un Piano Regionale Demenze vero);
  3.   la pratica scomparsa dei consultori;
  4.  integrazione scarsa tra servizi sanitari dei distretti e servizi sociali degli Ambiti;
  5.  sottofinanziamento della prevenzione negli ambienti di vita e di lavoro;
  6.  piano per il contenimento delle liste di attesa ancora pieno di ritardi e buchi;
  7.  una spesa elevata per farmaci e dispositivi medici;
  8.  una forte mobilità passiva.

Per concludere con questa domanda qualche dato e qualche riflessione sulla mobilità passiva.

C’era da esserne sicuri: non appena la mobilità sanitaria fosse andata (apparentemente) meglio la Regione, che sull’argomento di solito glissa o sfuma, ne avrebbe data immediata comunicazione. Così è avvenuto. Le Regioni si sono appena scambiati i dati 2017. La Regione Marche non ha messo a disposizione di tutti i dati completi, ma ne ha fornito una sintesi alla stampa che ha generato un entusiastico commento del tipo “Sembrava una mission impossible, invece la cura Ceriscioli pare avere sortito gli effetti sperati”. Vediamoli questi effetti in base ai dati riportati nell’articolo.

La mobilità sanitaria complessivamente intesa scende come saldo negativo dai 56 milioni del 2016 ai 47,1 del 2017. Quindi un recupero (apparente) di circa 9 milioni di euro. In realtà, la mobilità passiva è aumentata di circa 1,6 milioni di euro (passando da 161,5 a 163 milioni di euro), mentre quella attiva è aumentata di circa 10, 5 milioni di euro (passando da 105,4 milioni a 115,9 milioni). Ma dal momento che gran parte di questo aumento è avvenuto a seguito dell’incremento di produzione dei privati quel “bonus” di 10,5 milioni scende di parecchio.

Il dato economico ci porta a dire che c’è un vero problema di saldo negativo di mobilità. Questo è in larga misura riconducibile al mancato governo del fenomeno da parte della Regione: non si fanno più da anni accordi di confine per regolamentare i flussi con le Regioni vicine e non si analizzano i dati. Quindi mancano strategie per il recupero progressivo della mobilità passiva e non è possibile ragionare sulla tipologia di ricoveri “in fuga”.

Quanto alla tipologia dei ricoveri fuori Regione, storicamente si sa che nel saldo negativo di mobilità per l’attività di ricovero influiscono molto sia in termini di numero che di valore economico le discipline di ortopedia, quelle di area cardiologica  e di area chirurgica (chirurgia vascolare, chirurgia toracica e neurochirurgia) e la riabilitazione. In termini economici gran parte di questi ricoveri sono di complessità medio-alta, il  che vuol dire che “recuperarli” è  comunque costoso in termini di produzione e che questa deve essere di buona qualità perché i cittadini scelgono dove andare per attività interventistiche e chirurgiche “non banali”.

Veniamo al ruolo ed al rapporto con il privato. Se ne è discusso molto in occasione della proposta di legge (che sembra ora al palo) delle cosiddette sperimentazioni gestionali. Ma al netto di questa proposta se è vero che l’offerta ospedaliera privata regionale non è superiore  alla media nazionale, contemporaneamente oltre ad essere in aumento è molto alta quella nell’area della post acuzie e in particolare nella riabilitazione ospedaliera ed extra ospedaliera (intensiva ed estensiva). Un dato evidenziato, recentemente,  anche dalla relazione della Corte dei Conti per le Marche, sul bilancio ASUR del 2016. A ciò si aggiunge, soprattutto nell’area della residenzialità extraospedaliera (ad esempio RSA, Cure intermedie), il lento ma progressivo affidamento di servizi a cooperative sociali, servizi gestiti precedentemente dall’ASUR con proprio personale. Tra le motivazioni addotte quella del blocco del personale che impedirebbe l’aumento della dotazione. 

Come dicevi tu, il recente (e perdurante) dibattito sulla Proposta di Legge 145/2017 sulle sperimentazioni gestionali ha fatto crescere i timori di una progressiva privatizzazione della sanità delle Marche. Questa proposta è poi stata accompagnata da alcuni atti (DGR 639/2018 e DGR 523/2018) che hanno previsto un incremento di 50 posti letto ospedalieri nell’Area Vasta 1 di Pesaro, di fatto assegnati ad una futura casa di cura privata per attività prevalenti di ortopedia e riabilitazione, che hanno ulteriormente fatto crescere questa preoccupazione.

Adesso guardiamo i numeri del privato nella sanità delle Marche, non prima però di aver chiarito che stiamo parlando del ruolo del privato finanziato dal sistema pubblico (e quindi stiamo in realtà parlando di sanità pubblica erogata dal privato contrattualizzato) e di aver ricordato che nella categoria privato ci finiscono sia le attività imprenditoriali propriamente dette (privato for profit che opera con fini di lucro ed è rappresentato da imprese e liberi professionisti) che il privato sociale (rappresentato da Cooperative sociali, Associazioni, Fondazioni, ecc. ) che è altra cosa. Io non mi addentro in questa differenza che però è fortemente rilevante. Il privato for profit, opera soprattutto nell’area delle prestazioni ospedaliere e ambulatoriali mentre il privato sociale svolge un ruolo importante nella assistenza residenziale e semiresidenziale sociosanitaria oltre che nei trasporti. La mia attenzione sarà rivolta qui soprattutto al privato “puro”.

Più che esprimere valutazioni complessive sul peso del privato nella sanità delle Marche occorre entrare nel merito dei singoli settori in cui opera analizzando dati ed atti. Conviene dirlo subito: come spesso succede il diavolo è nei particolari (detto che pare abbia una lunghissima tradizione). A titolo di esempio, il peso del privato nella produzione di ricoveri ordinari per acuti (ultimi dati ministeriali nel Rapporto SDO 2016 è nelle Marche dell’11,1% (contro una media nazionale del 13,8%), mentre per la riabilitazione è il 67,4% (contro una media nazionale del 53%). Quindi se si ragiona per settori abbiamo indicazioni diverse sul ruolo del privato. In generale i dati delle Marche assomigliano tendenzialmente a quelli medi nazionali per la attività di ricovero.

Il problema con i privati non è dunque quanto, ma cosa e come. E qui vediamo alcuni esempi di criticità da affrontare nell’area delle attività ambulatoriali e di ricovero.

L’ultimo accordo con le Case di Cura Private Multispecialistiche (DGR 1636/2016) è di complicatissima lettura, ma alcune cose sono chiare e vanno valutate con attenzione. Se prendiamo il 2018 le Case di Cura hanno un budget di base di 54 milioni di euro, di cui 44 per la attività di ricovero, 8,7 per la attività ambulatoriale e 2,1 per le cure intermedie. A questo si aggiunge un budget per la  mobilità attiva di circa 40 milioni di euro di cui 36,5 per la attività di ricovero e quasi 3 per la attività ambulatoriale. Si aggiungono poi (sempre in base alla DGR 1636/2016) quasi altri 8 milioni di euro per progetti di recupero della mobilità passiva e di riduzione dei tempi di attesa.

Questa DGR va letta incrociandola con gli atti (numerosissimi) sulla rideterminazione dei posti letto delle varie case di cura  multispecialistiche (l’ultimo recentissimo è la DGR 639/2018, che va a modificare la tabella 1 della DGR 940/2015), che prevedono per le Case di cura 415 posti letto per acuti, 208 di lungodegenza e riabilitazione,  20 di cure intermedie e 20 di RSA.

Tralasciando moltissimi aspetti di dettaglio alcune considerazioni si possono fare a proposito dei  budget aggiuntivi per la mobilità attiva, il recupero della passiva e la riduzione delle liste di attesa: 

1) è previsto un budget molto alto (in proporzione) per la attività in mobilità attiva il che vuol dire che le strutture hanno autorizzati e contrattualizzati con le Marche molti più posti letto di quanto ne servano alle Marche stesse. E se le altre Regioni - come vuol fare la Regione Marche - intendono giustamente recuperare la loro mobilità passiva non si sa cosa si farà di quei posti letto; 

2. come si fa a riconoscere al privato la quota molto consistente di budget prevista per la mobilità attiva nel caso, probabile, che il valore della stessa venga (limitatamente a quella erogata dal privato e limitatamente a quella in aumento negli ultimi anni) abbattuto in sede di conferenza Stato-Regioni come avvenuto negli ultimi anni? Si ricordi che l’aumento della mobilità del privato non può essere controbilanciato dalla eventuale riduzione della mobilità attiva del pubblico (mobilità che oltretutto andrebbe quantomeno mantenuta);

3. come si fa a riconoscere al privato la quota di mobilità passiva abbattuta a seguito di un suo incremento di produzione? E’ difficile che in tempi brevi la mobilità passiva diminuisca ed è quasi impossibile comunque calcolare la quota di diminuzione “rigirabile” come finanziamento all’incremento di produzione del privato;

4. come si fa a riconoscere l’impatto sulle liste di attesa della produzione del privato? L’incremento di produzione è facile da documentare, ma l’impatto sulle liste di attesa molto meno. E se la produzione richiesta alle Case di Cura private aumenta e le liste di attesa non diminuiscono sarà difficile comunque non riconoscere al privato la produzione aggiuntiva erogata e contrattualizzata.

Passando poi alla riconversione dei posti letto

1) siamo sicuri che la post-acuzie (la vecchia lungodegenza), le cure intermedie e le RSA affidate ai privati nel processo di riconversione siano l'attività giusta per strutture da sempre a vocazione chirurgica e dedicate ad un attività per acuti? Mi sembra legittimo avere molte perplessità: il passaggio da una organizzazione per acuti ad una organizzazione per la post-acuzie è prima di tutto culturale e poi strutturale;

2) perché mettere negli atti in un unico contenitore i posti letto di riabilitazione e post-acuzie?  Sono discipline molto diverse tra loro a partire dai criteri di accesso e dagli standard assistenziali per arrivare ai modelli culturali ed organizzativi e alle tariffe);

3) siamo sicuri che se nella stessa rete d’impresa delle case di cura (adesso ce ne sono tre) ci sono posti letto per acuti e posti letto di riabilitazione e post-acuzie le Case di cura non chiudano il cerchio riservandosi gran parte della attività di questi posti letto per pazienti in dimissione dai propri reparti per acuti? In assenza di controlli ad hoc questo rischio è molto alto.

Passando ad altri settori, ci sono altri atti che meritano specifiche riflessioni. Con la DGR 184/2017 è stato fatto un accordo con i laboratori privati autorizzati ed accreditati. Si tratta di un settore in cui c’è stata una imponente riorganizzazione nel settore pubblico a seguito delle possibilità di razionalizzazione della rete dei laboratori che danno le nuove tecnologie.  L’accordo prevede due nuovi laboratori contrattualizzati che si aggiungono ai 47 già contrattualizzati per un budget complessivo di circa 9 milioni di euro. I laboratori sono una importante realtà professionale ed economica. Ma il settore è tra quelli da depotenziare. Infatti, la DGR 184/2017 prevedeva un processo di riorganizzazione dei laboratori privati da concludersi entro il 31.12.2017. Non risulta a chi scrive che il processo sia stato concluso, o anche solo avviato.

Altro atto importante in un altro settore quello della chirurgia di giorno. Con la DGR 1577/2016 sono entrati in scena nuove tipologie di strutture private e cioè quelle aderenti all’Associazione Italiana delle Unità Autonome Private di Day Surgery (AIUPAAPDS) e alla Libera Associazione Imprese Sanitarie Ambulatoriali Nazionali (LAISAN). Con queste strutture (dovrebbero essere due e trovarsi nell’Area Vasta 5 a ridosso del confine con la Regione Abruzzo, ma l’atto non lo dice, o m’è sfuggito) è stato fatto un accordo che prevede un budget regionale 2018 di nuovo distinto tra budget di base (155 mila euro per una più 70 mila per l’altra), un budget per le liste di attesa (330 mila più 382 mila)  e uno per la mobilità attiva (760 mila euro e 333 mila euro). Le domande: 

1) è stata sentita la Regione Abruzzo per la attivazione da parte delle Marche di un rapporto contrattuale con strutture che hanno un budget per la mobilità attiva in una caso più di quattro volte superiore a quello base per i residenti?

2) siamo sicuri di poter calcolare l’impatto sulle liste di attesa della produzione  aggiuntiva mirata a quell’obiettivo?

Concludiamo con i contenuti dell’ultimo accordo 2016-2018 (DGR 1438/2016)[1] con le strutture di riabilitazione accreditate e associate ARIS della Regione Marche. Si segnalano i seguenti punti:

1. le tariffe: non ci sono stati adeguamenti delle tariffe ospedaliere nell’ultimo accordo, che conferma quelle DGR 709/2014 in cui alle strutture private di riabilitazione delle Marche venne riconosciuta una tariffa più alta per la riabilitazione nei reparti codice 56 (i normali reparti di riabilitazione) in caso di malattie del sistema nervoso (tipo ictus). La tariffa per il pubblico è di 272,70 euro al giorno che scendono a 163,62 dopo 60 giorni, mentre per il privato è di 312, 68 euro che scendono a 187,61 dopo 90  giorni (trascuriamo alcuni dettagli, ma la sostanza è questa). Quando poi il personale alle strutture private costa meno per motivi contrattuali.  Delle due l’una: o il privato ha standard assistenziali più alti (e non andrebbe bene) o il pubblico ha tariffe troppo basse (e non andrebbe bene nemmeno questo). Oltretutto il privato opera anche in mobilità attiva per la quale vale la TUC (tariffa unica per la compensazione tra Regioni) che è uguale alla tariffa del pubblico. Come venga motivata e gestita questa differenza non si capisce (non lo capisco io almeno) dall’accordo. C’è il consistente rischio  che la differenza la paghi la Regione Marche;

2. il budget economico: il budget di settore era di 70 milioni nel 2006 ed è diventato di 88 milioni nel 2018 con un incremento di oltre il 25. Non dovrebbe essere difficile stimare quanto avvenuto nello stesso periodo con la riabilitazione a gestione diretta da parte del pubblico, sia in termini di posti letto che di personale e risorse destinate. Sicuramente non c’è stato un incremento del 25% dell’uno e/o  dell’altro parametro;

3. compensazioni e riequilibrio del budget assegnato: il budget assegnato ad una struttura o gruppo societario non si perde mai. Il budget può essere in base all’accordo redistribuito all’interno della singola struttura tra le diverse tipologie di prestazioni, tra strutture diverse facenti capo al medesimo gruppo societario sia della stessa Area Vasta che di Aree Vaste diverse (sempre in accordo con l’ASUR) e infine (per il solo Santo Stefano) la ridistribuzione può avvenire anche includendo strutture non ricomprese nell’Accordo come le sedi di Fossombrone e Serrapetrona di Abitare il Tempo, la neo-acquisita Casa di Cura Villa Jolanda e la struttura residenziale Anni Azzurri del Conero.

Insomma, tutti gli accordi che riguardano i privati contengono forti elementi di criticità che andrebbero approfonditi. Certo  è che il pubblico ha in mano tutte le leve per governare il privato ed esercitare quella che di solito viene chiamata funzione di committenza: 

  1. autorizzazione e accreditamento;
  2. accordi regionali e contratti locali;
  3. sistema dei controlli di appropriatezza, qualità e congruenza.

Con una committenza ben gestita il privato può benissimo contribuire al una migliore offerta sanitaria e socio-sanitaria con una erogazione di servizi centrata su bisogni veri e prioritari dentro limiti e regole che siano di buon senso, tecnicamente fondati/e e politicamente sostenibili (nell’ordine). Ma una committenza ben gestita richiede un investimento di risorse, dati e prima ancora di una scelta politica. Che non è stata fatta e che non sembra ci sia la volontà di fare.

Prima di concludere sul nostro livello regionale, ti chiedo invece sul versante nazionale quali sono secondo te le questioni che la programmazione non può eludere compreso il nodo del finanziamento del servizio sanitario nazionale.

Credo che nell’agenda della sanità pubblica a livello nazionale siano diversi i temi da affrontare. Sono più abituato a ragionare in termini regionali, ma a livello centrale le “mie” priorità sarebbero queste:

1. il primo è certamente quello del finanziamento del SSN, che va incrementato portandolo quantomeno al livello come percentuale sul PIL della media degli altri paesi europei;

2. il vincolo sul costo del personale che dovrebbe per tutte le Regioni essere oggi quello di portare la spesa a quella del 2004 meno l’1,4%. Il vincolo va rimosso o quantomeno modulato in funzione delle caratteristiche di ciascun Servizio Sanitario regionale;

3. i controlli effettuati sulla erogazione dei LEA da parte delle  Regioni dovrebbero essere più cogenti e coprire meglio i bisogni della popolazione specie per quanto riguarda la cronicità e l’integrazione socio-sanitaria.

Da ultimo siamo in fase di definizione del Piano sociosanitario regionale. Cosa ti aspetti e cosa secondo te non può non esserci nel nuovo Piano?

A proposto del nuovo Piano  Sociosanitario (d’ora in poi semplicemente “il Piano”) mi sto un po’  perdendo, ma non penso di essere l’unico. La mia prima aspettativa è che non sia un piano di carta. La  seconda è che venga utilizzato per affrontare tutte le criticità esposte in precedenza, sia quelle che riguardano l’erogazione dei LEA che quelle che riguardano “il funzionamento della macchina”.

Ricostruendo le tracce del Piano mi ritrovo due riferimenti. Il primo  è la conferenza stampa di metà gennaio di quest’anno in cui commentando i risultati 2017 dell’ASUR il Governatore ha annunciato l’avvio del percorso del Piano e delle relative consultazioni, impegno importante affidato  al dott. Volpini Presidente della IV Commissione.   Ritroviamo poi il Piano nella DGR 102 del 5 febbraio 2018 relativa al Piano delle Performance 2018-2020 della Regione Marche. Qui, in particolare, al Servizio Sanità  viene dato il compito di elaborare il Piano con due scadenze: realizzazione del 100% degli incontri con le organizzazioni sindacali e gli altri stakeholders (30 marzo 2018) e predisposizione della prima stesura del documento (entro il 30 giugno 2018). Del Piano non si conosce (non conosco) ufficialmente altro. Immaginiamo  che siano stati prodotti alcuni documenti,  che verosimilmente saranno circolati in bozza,  tipo samizdat.

Dopo l’annuncio dell’avvio del percorso del Piano a gennaio 2018 non è successo praticamente niente, o almeno niente che assomigli all’inizio di quel confronto che in teoria si sarebbe dovuto concludere entro il mese di marzo. Non circolano documenti, ma soprattutto continuano a non circolare dati. Nel frattempo escono atti deliberativi, come quelli già citati  sui “nuovi posti letto”, o proposte di Legge come quella già citata sulle sperimentazioni gestionali  che rispettivamente anticipano il piano o assumono la sua tempestiva approvazione.

Nel frattempo manifesta le sue ricadute negative l’effetto annuncio del Piano: tutto si rimanda o si vorrebbe rimandare al Piano. Il caso della già citata proposta di legge sulle sperimentazioni gestionali e la contestuale discussione sui rapporti col privato è stato al riguardo emblematico. A più riprese si è reclamato da più parti che si trattava di temi da trattare nel nuovo Piano.

Purtroppo, di fatto al momento in realtà nessuno sa cosa è il Piano o meglio  cosa sarà. Soprattutto nessuno sa cosa aggiungerà alla programmazione dei servizi un Piano che per ora nasce in assenza di dati e documenti su tutti i fenomeni più significativi che il Piano dovrebbe affrontare (dalla prevenzione, alla assistenza ospedaliera passando per la distrettuale e l’integrazione sociosanitaria). In questa situazione è difficile capire a cosa possa servire una consultazione online dei portatori di interesse.

Sarebbe (da tanto tempo ormai) giunto il momento di fornire ai tanto (troppo) spesso evocati stakeholders precise informazioni su cosa il Piano affronterà e su quale  base di dati e documenti lo farà.  Ai territori, ad esempio,  scottano ancora le riconversioni dei piccoli ospedali e il ridimensionamento di alcuni ospedali (come si diceva una volta) di rete. Non vale la pena di dire subito che queste sono scelte ormai irreversibili o se non è così non vale la pena di dire che margini di trattativa ci sono al riguardo? E non è meglio chiarire se ci si intende esprimere sulla riduzione delle Centrali Operative 118 e sulla riorganizzazione del sistema di emergenza territoriale? E ancora: si è disponibili, partendo dal piano, a investire sui temi in cui la Regione Marche è tra le ultime Regioni in termini di spesa pro-capite (prevenzione e salute mentale, ad esempio)?

No, il Piano di carta, per favore no!


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[1] Per un approfondimento vedi anche, Accordo 2016-18 con le strutture private di riabilitazione. Estendere garanzie a tutti i servizi, in http://www.grusol.it/apriSocialeN.asp?id=916.


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