Data di pubblicazione: 27/12/2019
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Educatori. Siamo prigionieri …

Andrea Canevaro, docente di pedagogia, Università di Bologna. In Appunti sulle politiche sociali, n. 5/2013

Un Educatore Sociale può fare crescere la propria professione, con l’incremento delle proprie competenze, evolvendo verso due elementi che confluiscono e si intrecciano: l’individuazione di contesti competenti, e lo sviluppo della logica e della pratica dei sostegni di prossimità.  Vedi anche, In ricordo di Andrea Canevaro.

La lettura delle briciole

Siamo prigionieri? Siamo prigionieri dei pregiudizi. Degli stereotipi. Che sono entrambe presenti negli accenti dialettali, nelle pettinature, nei modi di fare. E ovviamente nella pelle, nel suo colore.

Siamo prigionieri di una diagnosi-destino.

Siamo anche prigionieri dell’ignoranza. A questo proposito, il socratico “so di non sapere” può fornire un alibi e una promozione. Un alibi, o una giustificazione per le nostre presuntuose pigrizie. Una promozione: potremmo sentirci alla pari con Socrate! C’è chi riesce anche a trasformare le sue ignoranze in tratti di nobiltà. E fare carriera…

Se invece siamo prigionieri della sfortuna, potremmo ritenere che il ruolo di vittima può anche portare qualche vantaggio, come l’essere ascoltati, aiutati, assistiti…

Se poi siamo prigionieri della malattia correremmo sempre il rischio del vittimismo… che sembra compensare una prigionia a volte molto difficile.

Siamo dunque un po’ tutti prigionieri? E’ probabile, ma molti non lo vogliono sapere o non lo sanno proprio. Pensiamo all’illegalità diffusa e a quanti ne siano prigionieri. Ma quanti lo sanno e sono disposti ad ammetterlo? I termini legalità e illegalità sembrano fare riferimento a dati oggettivi. Ma sono invece condizionati dai nostri pre-giudizi, che comprendono l’etica, la morale. Che ci fanno ritenere pericoloso avere come vicino di casa una persona proveniente da un’altra parte del mondo, o, ancor più pericolosa, una persona proveniente dalla cultura Rom (“sono tutti ladri”, crediamo…); mentre non percepiamo come pericoloso il vicino di casa evasore fiscale. Ma la minaccia alla legalità potrebbe essere anche maggiore con questo vicino che con l’altro. E’, questo, un piccolo esempio di come tanti non si sentano prigionieri, pur essendo tali.

L’espressione “sentirsi prigioniero” è certo approssimativa. Ci piacerebbe sostituirla con una definizione certa. In questo senso vanno gli studi di Patricia S. Churchland (2012; 2011). “L’ipotesi che propongo è che ciò che noi esseri umani chiamiamo etica e morale è uno schema quadridimensionale per il comportamento sociale a quattro dimensioni plasmato da processi cerebrali interconnessi:

  1. prendersi cura (basato sull’attaccamento a parenti e amici e sull’interesse per il loro benessere);
  2. riconoscimento degli stati psicologici altrui (basato sui benefici di predire il comportamento degli altri);
  3. soluzione di problemi nel contesto sociale (per esempio, come dovremmo distribuire beni che scarseggiano, risolvere dispute sulle proprietà territoriali, punire i criminali);
  4. apprendimento delle pratiche sociali (tramite rinforzo positivo e negativo, per imitazione, per tentativi ed errori, in virtù di tipi di condizionamento, per analogia).”(P. S. Churchland, 2012, pp.  21-22).

 

Riprenderemo questi quattro punti quando ragioneremo in termini più specifici degli Educatori Sociali.

Se ci sentiamo davvero prigionieri, e, come tutti i prigionieri, viviamo la sofferenza della nostra prigionia, abbiamo bisogno di Germaine Tillion e di quella che Tillion ha chiamato scienza carceraria: “una definizione un po’ esagerata per qualificare i bocconi di informazioni che i detenuti strappano una briciola alla volta nella loro prigione, ma queste briciole le accumulano, le confrontano, cercano di verificarle, e ci riflettono su continuamente. Perciò è quasi una scienza” (G. Tillion, 2013, p. 41).

Ma prima di proseguire, dobbiamo segnalare il rischio che l’estensione della prigionia a tanti, e forse a tutti, la trasformi in una metafora retorica, o la banalizzi. Per cercare di tener conto di questo rischio, cerchiamo di fare uno sforzo: riconoscere le nostre ignoranze e tentare di porvi  rimedio imparando qualcosa da chi la prigionia l’ha vissuta senza metafore ma con le sbarre.

Sergio Vuskovic Rojo è stato sindaco di Valparaiso del Cile dal 1970 al 1973, e poi incarcerato e deportato nel campo di concentramento di Dawson – isola a sud dello stretto di Magellano - dal regime di Pinochet. Riteneva fondamentale l’attenzione e la vigilanza alle informazioni delle diverse identità che ciascun individuo ha. “Questa inquietudine trascendente dell’essere che vigila si produce perché è una cosa ‘altra’ della coscienza: il mondo esterno […]; il mondo altro, il campanello d’allarme, la luce rossa. Entrambe i mondi sono messi in rapporto da questa eterna dell’essere che vigila, atteggiamento che lo definisce essenzialmente attivo, non passivo, perché deve rispondere. […]. La risposta [comporta] la trasformazione della sofferenza fisica in dolore di una passione” (S. Vuskovic Rojo, in 1988, p. 44).

Bocconi di informazioni, dice Tillion. E Vuskovic parla di inquietudine trascendente. Proviamo a collegare queste due espressioni. I bocconi di informazioni sono tracce da seguire, con inquietudine trascendente. Non è facile, perché portano in un altro mondo. E’ l’evasione più importante. Non è per un capriccio casuale che i prigionieri dei campi di sterminio dovessero spogliarsi di ogni elemento di appartenenza e di identità “altra” da quella di detenuti. Ogni oggetto, ma anche ogni gesto, rito, richiamo, ad una appartenenza culturale, religiosa, politica, professionale, doveva essere cancellata. Ma a volte, le tracce da seguire per cercare di evadere e andare in un altro mondo, sono nella nostra testa. Germaine Tillion é etologa e storica. Sergio Vuskovic é professore di Filosofia. Potremmo ricordare che Primo Levi é chimico. Allora le scienze accademiche erano nella vita di queste persone che hanno esplorato e praticato la scienza carceraria. Questo aspetto è interessante e vale la pena soffermarcisi.

Sembra che la scienza carceraria possa identificarsi ed essere identificata anche grazie alle scienze codificate, o riconosciute come accademiche. Germaine  Tillion raccoglie le briciole di scienza carceraria e le organizza secondo una metodologia che deriva dalla sua formazione di scienziata accademica. Capisce l’importanza delle briciole,e le valorizza come tali, perché ha una formazione di scienziata accademica? E’un interrogativo a cui lei stessa, Germaine Tillion, ha cercato di dare risposta. Sa che deve scrivere dal contesto del contesto. Fare lo sforzo di essere dentro la prigione, e di trasferire le briciole fuori, perché fuori siano leggibili. Non è facile. E’l’ inquietudine trascendente? E’ possibile.

La lettura delle briciole è possibile. Da una posizione che permetta di scoprirne la prospettiva. Intesa come una luce che non sia accecante, ma capace di far risaltare frammenti diversamente trascurabili.

“Io parlo come uno che cerca e che non sa”

“Io parlo come uno che cerca e che non sa”, scrive Michel de Montaigne (1960, p. 50). Siamo sulla scia di Socrate. E vale la pena richiamare il contesto, narrato da Platone nell’Apologia, in cui l’autore fece raccontare da Socrate le sue stesse vicende. Un suo amico, tal Cherofonte, era andato a chiedere all’oracolo di Delfi chi fosse la persona più sapiente di tutti. E aveva avuto in risposta proprio il nome di Socrate. Che si stupì non poco: volle cercare di dimostrare che i sapienti c’erano, e più di lui. Non si sentiva tale. Interrogò un certo numero di persone che erano ritenute sapienti. Ne ottenne un doppio risultato: scoprire che la loro sapienza era solo presunta; e di conseguenza attirarsi odio e antipatie tali da condurlo alla morte – molti pensavano che lui, facendo delle domande, ne conoscesse le risposte… -. Morì. Non senza prima dire che almeno lui sapeva di non sapere. Rovesciava in questo modo criteri consolidati e tentava di far capire che molto sovente la sapienza è ignoranza e l’ignoranza è sapienza.

Per cercare senza sapere ci vuole tempo. Quanto? Non si può saperlo prima. In dialetto si dice che alcuni, sapienti, i am vèstt in fûria, capì poc e i san incôsa: hanno visto in fretta, capito poco e sanno tutto. Ma chi cerca senza sapere, non sa neanche cosa cerca. Per saperlo, a volte, deve aspettare e vivere aspettando molto tempo. Non sa neanche che cerca. Ha bisogno di qualcuno (Educatore?) che, accompagnandolo, gli faccia capire che sta,o meglio stanno cercando. Ciascuno il suo passaggio a nord-ovest, il suo stretto di Magellano. Ma insieme. In questo “insieme” c’è la scoperta (coscientizzazione…) di stare cercando. Coscienza di cosa? Della ricerca di un passaggio per un altro mondo. Che può essere anche un altro modo: di  essere, di vivere, di pensare, di percepire. Può far paura. Per questo, “insieme” è importante. La nostra vita attraversa tanti mondi. Sentirsi prigioniero di un mondo, può far rinunciare a voler trovare il varco per un altro mondo. Andare all’altro mondo, nel parlare corrente, è morire. E noi abbiamo sempre un po’ di paura della morte. Anche per questo, “insieme” è importante. E può far capire, almeno in parte, le difficoltà che possiamo trovare nel cercare di evadere dalla prigione in cui ci troviamo: meglio un asino vivo che… E meglio prigionieri di pregiudizi che morti…

Embrione, in ebraico si dice ubar, che richiama anche passaggio, transito … verso dove? Altri spazi, più ampi … Chissà se l’invecchiamento, che viene anche  detto rimbambimento, non sia una perdita di autonomie che riavvicina all’embrione, al transito. Ma noi potremmo esserci adattati agli spazi ristretti dai nostri pregiudizi, e non volerli abbandonare. Sentire il loro abbandono come una morte. Chi cerca, implicitamente o meno, parte da una sicurezza – prigione sicura. Paradosso continuo… – di cui sente i limiti. Vuole superarli. Per questo cerca, parla e ascolta. Impara ad ascoltare anche e soprattutto chi crede di non avere niente da dire. Impara a parlare a chi non sembra in grado di ascoltare.

Ritorna il tema, e problema, del rapporto fra scienze accademiche e scienza carceraria, nella formulazione che ne ha dato Germaine Tillion. Possiamo fare tre ipotesi.

Come è facile immaginare, prendiamo in considerazione più favorevolmente l’ultima ipotesi. Ma riteniamo che le altre due facciano parte della realtà. L’ultima ipotesi è anche una prospettiva verso cui dirigerci. Implica un passaggio, un transito … E implica che le scienze accademiche non si ritengano progetto già realizzato; piuttosto progetto in fieri. E’ probabile che tutti sottoscrivano questa affermazione (progetto in fieri). Ma potrebbero sottoscriverla e non viverla. Affermarla e non praticarla. Risulterebbero prigionieri di un’ideologia.

Dicevamo che occorre rendere leggibili le briciole di scienza carceraria grazie alle scienze accademiche. Utilizzando l’immagine di una possibile luce che permetta di individuare frammenti, vorremmo segnalare che non è tanto la potenza della luce a permettere questo; è piuttosto l’angolazione. Questo significa che le scienze accademiche non devono restare immobili ritenendosi illuminazione completa e perfetta.

Da questa immagine è facile arrivare a riferirsi all’illuminismo. Non a quello della luce da interrogatorio di terzo grado, che vuole far confessare la verità come colpa. Ma quello che cerca la verità insieme agli altri. Una luce per cercare.

Gaston Bachelard (1975; 1957) ha espresso un’idea di Illuminismo che, più o meno, dice: Non c’è un unico lume che rischiara tutto ed è la ragione unica e assoluta, posseduta da qualcuno e non da altri. Ci sono tante persone che si muovono, ognuna con una candela in mano, ognuna con un lume, e rischiarano un pezzetto del sentiero, e in questo muoversi hanno bisogno gli uni degli altri. Quel po’ di sentiero che rischiara il mio lume non è sufficiente a farmi capire dove sono: ho bisogno del lume dei miei vicini, degli altri. E’ un illuminismo del dialogo e della prossimalità.

Chi è educatore dovrebbe sentirsi come un prigioniero

E dovrebbe servirsi della scienza carceraria. Ma perché dovrebbe sentirsi prigioniero? Perché dovrebbe vivere, nella sua professione, una condivisione di prigionia, nella disabilità, nell’emarginazione, nei pietismi, nei vittimismi, e in tanti altri ismi. A proposito: non vorremmo finire prigionieri del pauperismo. Non stiamo facendo l’elogio della povertà, che è anch’essa una prigionia – forse sarebbe più giusto chiamarla miseria – da cui cercare di uscire, di evadere.

Chi fa l’Educatore Sociale lamenta il fatto di non avere una professione riconosciuta. Di avere una precarietà paradossalmente consolidata. Eccetera. Vuole abbandonare tutto questo. E’ comprensibile e giusto.

Ci sono evasioni che costringono chi evade a nascondersi per tutta la vita. Le briciole di scienza carceraria non vengono raccolte e utilizzate per conquistare spazi di libertà “insieme”, ma per nascondersi altrove da soli. Così un Educatore può nascondersi diventando Psicoterapeuta; e liberarsi di quel “insieme” che scambia come la prigione. Invece era in un’altra prigione, ed era insieme a qualcuno che poteva insegnargli la scienza carceraria.

Riprendiamo i quattro punti indicati da Patricia S. Churchland (2012; 2011): prendersi cura; riconoscimento degli stati psicologici altrui; soluzione di problemi nel contesto sociale; e apprendimento delle pratiche sociali. Sembrano delineare le qualità e le competenze di chi é Educatore Sociale. Incrementabili dai bocconi di informazioni reperibili dalla scienza carceraria di cui parla Germaine Tillion.

Si produce una situazione che può apparire paradossale. Un Educatore si sente in una prigione -  di precarietà, non riconoscimento, confusione di ruolo -. Ma proprio questa condizione permette l’incremento della sua professionalità. E’ chiaro  che a qualcuno può sembrare una trappola senza via di uscita, se non il cambiare professione, non vedendo evoluzione possibile in quella in cui si è trovato. E’ però possibile sviluppare una dinamica evolutiva professionale.

Un Educatore Sociale può fare crescere la propria professione, con l’incremento delle proprie competenze, evolvendo verso due elementi che confluiscono e si intrecciano: l’individuazione di contesti competenti, e lo sviluppo della logica e della pratica dei sostegni di prossimità. Richard Sennett (2009; 20008), studioso dell’artigianato e della sua storia, ci fa notare come un bravo artigiano abbia nella sua bottega, artigiana, una risorsa fondamentale per il successo del suo lavoro. E’ il suo contesto competente, che gli fornisce un appoggio formidabile. Quell’artigiano non opera unicamente nella sua bottega, ma anche nelle varie abitazioni di chi lo interpella, per, ad esempio, riparare uno scaldabagno. Quell’artigiano si guarda attorno, sposta qualcosa, appoggia un paio di attrezzi… Sta “leggendo” e “istruendo” la competenza di quel contesto. Sa individuare, e creare, contesti competenti. E’ il contrario dei non-luoghi di cui parla Marc Augé (2009 e 1996). Antoine de la Garanderie (1996) ha capito come ogni soggetto potrebbe organizzare i propri percorsi mentali appoggiandosi o alle parole che evoca o alle immagini,anch’esse evocate. E’ una interpretazione interessante, vicina ai contesti competenti. Potremmo fare molti altri esempi tratti da quelle che si chiamano cure ricorsive, che utilizzano competenze non discorsive. Sono i lavori per le manutenzioni, per la cura della casa, per cucinare o rifare i letti. Eccetera. Questo fa capire come le competenze, se sappiamo leggerle, sono diffuse. E un Educatore Sociale può valorizzarle come sostegni di prossimità.

E’ l’evoluzione, e la crescita di competenze, di un Educatore Sociale. Da operatore che accompagna sorreggendo continuamente l’altro, in una funzione quasi protesica, diventa accompagnatore in un percorso che presenta una pluralità di punti d’appoggio, che quell’Educatore Sociale dapprima indica utilizzandoli insieme all’altro di cui ha e conserva una responsabilità educativa (permanente); e in seguito non ha più bisogno di indicare perché l’altro ha fatte proprie le indicazioni. Ma non lo lascia solo. Scoprono, insieme, che ci si può accompagnare in molti modi, oltre alla funzione protesica del sorreggere.

Se noi avessimo la dentiera, avremmo una protesi. E questa ci accompagnerebbe costantemente. Ci servirebbe, è scontato dirlo, per mangiare. Ma non eliminerebbe l’impiego delle posate. Coltello e forchetta, o cucchiaio, sarebbero strumenti utili, e sarebbero con noi in una maniera diversa. La dentiera farebbe parte del nostro corpo, sarebbe incorporata. Non sarebbe percepibile come altro da noi. Le posate, invece, sono esterne, sono altro.

L’evoluzione di un Educatore Sociale può essere indicata come il percorso da dentiera (protesi. Con tutto il rispetto, sostegno diadico) a posata (strumento fra strumenti, sostegno di prossimità). Continuando in questa immagine, riflettiamo sul fatto che la dentiera ha una personalizzazione immodificabile che non richiede alcuna attività da chi l’ho incorporata se non l’usarla per mangiare e poco di più. Ben diversa è la condizione delle posate. Sono polifunzionali, al servizio delle necessità di chi le utilizza con un’attività intenzionale e guidata da un progetto attivo. Il coltello può essere utilizzato come tagliacarte. Insomma: è altro.

Vogliamo sottolineare, in modo forse un po’ schematico, che la funzione della dentiera è sostanzialmente ristretta al binomio “funziona - non funziona”. La funzionalità plurale delle posate apre ad un bricolage evolutivo (Cfr. N. Gencarelli, 2012). Possiamo servirci di un coltello come cacciavite. Il che significa che il cacciavite potrà rientrare nelle sue funzioni appena lo avremo a portata di mano. Il coltello ha avuto un ruolo di sostegno di prossimità: in un certo momento è stato utile come cacciavite. Ma perché è stato utile? Perché è stato utilizzato. Qualcuno ha agito attribuendogli un compito inusuale e funzionale a un piccolo progetto che è stato elaborato e controllato dal soggetto agente. Il progetto deve collegare una finalità e delle regole, una disciplina di gesti, buone maniere, limiti imposti dalla realtà in cui viviamo…Le regole sono importanti: “al modo stesso che la voce costretta nell’angusto passaggio della tromba ne esce più squillante e più forte, così mi sembra che la parola, costretta dalle numerose regola della poesia, si  elevi assai più aridamente […]”(M. de Montaigne, 1960, p. 53). Un progetto diventa nostro, di chi è agente. Il guasto della dentiera sposta l’agire dall’utilizzatore della stessa al tecnico. L’utilizzatore è agito dal tecnico che ripara la dentiera. E’ il percorso da agito ad agente (A. Bandura, 2000; 1997). Porta all’autoefficacia.

Questo percorso è soprattutto evadere dalla prigione della mono-funzionalità totale – o funzione unica - e raggiungere il funzionamento polifunzionale. Diventare altro. Diventare: esistere.

Note bibliografiche

P.S. CHURCHLAND (2012; 2011), Neurobiologia della morale, Milano, R. Cortina.

G. TILLION (2012; 1973 e 1988), Ravensbrück, prefazione di T. TODOROV, Roma, Fazi editore.

S.VUSKOVIC ROJO (1988), in M. NOCERA, a cura di, La via del Cile, Comune di Martignano (Lecce).

M. DE MONTAIGNE (1960), a cura di P. BERTOLINI, Antologia del pensiero pedagogico, Bologna, Malipiero.

G. BACHELARD (1975; 1957), La poetica dello spazio, Bari, Dedalo.

R. SENNETT (2009; 2008), L’uomo artigiano, Milano, Feltrinelli.

M. AUGE’ (2009; 2008), Che fine ha fatto il futuro? Dai nonluoghi al nontempo, Milano, Elèuthera.

M. AUGE’ (1996), Nonluoghi. Introduzione a un’antropologia della submodernità, Eleuthera, Milano.

A. DE LA GARANDERIE (1996), La motivation. Son éveil son développement, Paris, Bayard éd.

N. GENCARELLI (2012), Ausili fai da te. Creare e adattare oggetti e strumenti tecnologici per la disabilità, Trento, Erickson.

A. BANDURA (2000; 1997), Autoefficacia. Teoria e applicazioni, Presentazione di Gian Vittorio Caparra, Traduzione di Gabriele Lo Iacono, Erickson, Trento.


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