Data di pubblicazione: 05/09/2024
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Le strade divergenti del welfare sociale. Come conciliare uniformità con personalizzazione?

Sergio Pasquinelli | 3 Settembre 2024, in welforum

Come conciliare uniformità con personalizzazione? È la sfida degli anni che abbiamo davanti. Da un lato l’autonomia differenziata, se mai andrà a dama, chiede veri livelli essenziali delle prestazioni sociali (Leps) cioè qualcosa che non sta solo nei documenti programmatori, ma livelli minimi di servizio tangibili, con obiettivi da raggiungere e finanziamenti ad hoc. Dall’altro si insiste da anni su un welfare a misura della persona, valore magistralmente incarnato nei progetti di vita indipendente e nel budget di progetto, formule che rinviano a qualcosa di unico, irripetibile, non comprimibile dentro standard predefiniti.

Due paradigmi incompatibili? Certamente diversi: il primo è quello proprio di una rete dei servizi strutturata, standardizzata, che tende all’equità orizzontale, stabilisce garanzie ma anche vincoli: è successo nel Leps supervisione del personale sociale finanziato con risorse PNRR, vincoli che ne hanno ridotto la fruizione. Il secondo paradigma, emergente, riguarda la spinta verso la personalizzazione dei progetti, l’autodeterminazione, la composizione di sostegni individualizzati.

Ma di che cosa stiamo parlando? Da un lato, i livelli essenziali di tipo sociale, talvolta definiti con grande dettaglio, lo sono solo sulla carta, se ci riferiamo letteralmente a diritti individuali a prestazioni. Più di vent’anni fa, nel 2003, pubblicavamo il numero speciale di “Prospettive Sociali e Sanitarie” (nn. 15-17) dal titolo Livelli essenziali delle prestazioni sociali: dai principi alla pratica? Un po’ sconsolati dobbiamo riconoscere quanto quel punto interrogativo valga tutt’oggi. Perché la pratica, appunto, latita.

Sono stati definiti livelli essenziali l’assistenza domiciliare, le dimissioni protette, il pronto intervento sociale, la prevenzione dell’allontanamento familiare, i servizi sociali di sollievo, la supervisione del personale sociale, strumenti per favorire l’incontro tra domanda e offerta di assistenza, servizi per la residenza fittizia, progetti per il dopo di noi e per la vita indipendente1. Si chiamano “livelli essenziali” ma non lo sono, semplicemente perché mancano di una caratteristica fondamentale: l’esigibilità. Che siano di erogazione o di processo, per ognuno di essi vanno identificati obiettivi di servizio, costi, fabbisogni standard e relativi finanziamenti dedicati, per ridurre dotazioni regionali profondamente diverse (e fuori dall’illusione di un percorso a saldi di bilancio invariati). L’unico Leps quantificato e finanziato è quello che riguarda il servizio sociale professionale, che deve essere garantito con un assistente sociale ogni 5.000 abitanti.

Spostiamoci ora verso la personalizzazione degli interventi. Già dentro i livelli essenziali richiamati ci sono servizi (per esempio l’assistenza a casa) che richiedono grande flessibilità e mal si adattano a una codificazione standard. Analogo discorso vale per il budget di progetto, dispositivo variamente evocato. Non è un servizio, nemmeno un intervento che si aggiunge ad altri: il budget di progetto è il paniere di disponibilità per realizzare il progetto di vita delle persone con disabilità, non autosufficienti, vulnerabili. Oggetto di una costellazione di sperimentazioni, ma non ancora sedimentato in pratiche condivise2. A Milano, nell’ambito del progetto “Ricetta QuBì” (promosso da Fondazione Cariplo in collaborazione con il Comune), si è arrivati a lavorare sul budget di comunità, una dotazione finanziaria a disposizione di uno specifico quartiere, di una rete di soggetti, risorse ad uso non predefinito, aperte a esigenze che possono manifestarsi nel corso del tempo e non programmabili. Certamente un’esperienza di frontiera, ma di estremo interesse per le dinamiche di collaborazione che un dispositivo simile richiede.

Il progetto di vita delle persone con disabilità si colloca in questa stessa logica, dove non tutto è prevedibile. Deve partire dai desideri di indipendenza e autonomia della persona, ricomponendo le risorse, le possibilità, le opportunità del suo intorno sociale (si veda l’intervento di Claudio Castegnaro su questo sito). Acquista senso nella cooperazione tra attori – servizio pubblico, famiglia, privato sociale. Ma cooperare richiede accordi, protocolli, procedure. Strumenti che rischiano a loro volta di codificare, ingessare relazioni che devono essere fluide, perché il corso di vita delle persone inevitabilmente lo è.

Standardizzazione e personalizzazione possono convivere? Forse sì, se corrono in parallelo, più difficile se incrociano le loro strade. Livelli essenziali senza standard nazionali rischiano di diventare generici, perdendo così la loro funzione. Viceversa, progetti di vita molto strutturati si allontanano dal loro ingrediente principale: la personalizzazione. Occorrono amministratori che mettano in equilibrio estensione ed efficacia, quantità e qualità, senza snaturare le funzioni specifiche dei diversi percorsi.

Importante è una politica che ci creda, e allo stato attuale qualche dubbio è lecito. Due segnali: i nuovi Lea sanitari sono stati rinviati al gennaio 2025 (gli ultimi risalgono a sette anni fa e hanno cambiato poco sul terreno sociosanitario) mentre il nuovo Fondo dedicato ai progetti di vita della popolazione disabile, con 25 milioni di euro annui (un terzo del fondo “Dopo di noi”), può interessare meno di tremila persone: una goccia nel mare.

Ma la direzione è stata presa: la convivenza tra uniformità e personalizzazione si compirà. Quando? In un futuro forse neanche così remoto, quando anche i progetti di vita diventeranno un livello essenziale, un diritto esigibile.


Vedi anche

Livelli essenziali prestazioni sociali (LEPS). A che punto siamo? 

Interventi sociali e sociosanitari: organizzazione, modelli, livelli essenziali 

RIPENSARE I SERVIZI. Personalizzare gli interventi 

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