Data di pubblicazione: 04/11/2024
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A partire dal Rapporto Draghi. Per un welfare di aiuto, ma non ancella della crescita

Elena Granaglia, prendendo le mosse dal Rapporto Draghi e approfondendo alcuni aspetti del recente documento del Forum Disuguaglianze Diversità, torna a riflettere sulla relazione fra crescita e welfare. Contro le visioni dell’inevitabilità del trade off fra crescita e welfare e del trickle down, il Rapporto riconosce le complementarità fra crescita e welfare ma presenta una visione del tutto ancillare del welfare rispetto alla crescita. Anziché di un welfare al servizio della crescita vi è necessità di un welfare al centro della crescita.  Vedi in, eticaeconomia.it anche gli altri contributi sul Rapporto. 

Fra i diversi stimoli che offre, Il Rapporto Draghi ci induce a riflettere ancora una volta sulla relazione fra crescita e welfare. Scrive il Rapporto a pag. 1 (trad. mia) Se l’Europa non riuscirà a diventare più produttiva non saremo in grado di finanziare il nostro modello sociale” e continua a pag. 15 (sempre trad. mia), “la UE dovrebbe puntare ad avvicinarsi all’esempio statunitense in termini di crescita della produttività e dell’innovazione, ma senza gli svantaggi di quel modello… (in primis), i più elevati tassi di disuguaglianza…. Il cambiamento tecnologico può comportare notevoli disagi per i lavoratori di settori prima dominanti…. Lo Stato sociale europeo sarà quindi fondamentale per fornire servizi pubblici solidi, protezione sociale, alloggi, trasporti e assistenza all’infanzia durante questa transizione. Allo stesso tempo, …l’UE deve garantire a tutti i lavoratori il diritto all’istruzione e alla riqualificazione, consentendo loro di passare a nuovi ruoli man mano che le loro aziende adottano la tecnologia, o a buoni posti di lavoro in nuovi settori”. 

Appaiono indicazioni confortanti per chi ha a cuore il welfare. Contro le retoriche dell’inevitabilità dei trade off fra crescita e welfare e dei benefici del trickle down (sgocciolamento), secondo cui le disuguaglianze economiche beneficerebbero anche i più svantaggiati, il Rapporto afferma che la crescita serve ad assicurare il finanziamento del welfare e, al contempo, il welfare è indispensabile per contrastare le disuguaglianze che della crescita sono corollario nonché per sostenere la crescita stessa. Siamo lontani anni luce da posizioni quali quelle del Premio Nobel Lucas, secondo cui “tra le tendenze dannose per una sana economia, la più seducente, e a (suo) avviso la più velenosa, è quella di concentrarsi su questioni di distribuzione… Il potenziale per migliorare la vita dei poveri trovando modi diversi di distribuire la produzione attuale è nulla rispetto al potenziale apparentemente illimitato di aumentare la produzione”.

Tutto bene allora? No. Approfondendo alcuni aspetti del recente documento del FDD, vorrei portare l’attenzione su quello che mi sembra un importante nodo critico della posizione espressa nel Rapporto e sopra richiamata. Tralascio, invece, affermazioni pure presenti nel Rapporto che potrebbero ridimensionare l’impegno contro le disuguaglianze, quali la tendenza a ridurre il contrasto alle disuguaglianze all’inclusione sociale dei più svantaggiati. Il nodo è che, anche qualora l’impegno contro le disuguaglianze fosse maggiore, il Rapporto si concentra su una relazione al meglio strumentale/ancillare fra crescita e welfare, inteso come Stato sociale.

È una relazione strumentale/ancillare, in quanto è il welfare che deve occuparsi ex post della riduzione delle disuguaglianze. La crescita serve solo per le risorse che può portare al finanziamento della spesa sociale. Sulla base della nota logica dei due tempi, prima si aumenta la torta e poi si redistribuisce. I mercati e le imprese sono, però, istituzioni sociali, come tali, oggetto esse stesse di giustizia sociale. Non possono pertanto esimersi dall’occuparsi di disuguaglianze. Non occuparsene induce sia ad una ingiusta ripartizione delle responsabilità fra economia e stato sociale sia a ingiuste penalizzazioni a danno di chi nell’economia si trova perdente. Un conto, infatti, è accettare i costi e compensare con un trasferimento (che peraltro neppure tiene conto dei costi non monetari) e un altro è fare il più possibile per prevenire ex ante la penalizzazione, che sempre è fonte di ansia, pena e negazione, quanto meno parziale di diritti. 

Ma non è tutto. La stessa relazione strumentale/ancillare è solo al meglio tale, in quanto le disuguaglianze che caratterizzano la crescita potrebbero esse stesse indebolire la sostenibilità politica della redistribuzione operata dallo Stato sociale. Detto in altri termini, le disuguaglianze di mercato (ossia le disuguaglianze che si verificano nell’economia prima dei trasferimenti e delle imposte) potrebbero mettere a repentaglio il sostegno a politiche sociali in grado di ridurre le disuguaglianze auspicate nei redditi disponibili (ossia nei redditi dopo i trasferimenti e dopo le imposte). Da un lato, i più ricchi potrebbero trovarsi così distanti dal resto della popolazione da non sentirsene più parte, vivendo nei “loro” spazi globali, comprando i “loro servizi”, facendo di fatto secessione dalle comunità spaziali dove hanno la residenza. Emblematica, al riguardo, è l’immagine riportata sulla copertina di un rapporto dell’Ocse: la mongolfiera dell’1% che si allontana dal pianeta terra per salire nel cielo. Fare secessione, come ben sappiamo, significa non pagare le imposte o, comunque, pagarne molto di meno rispetto a quanto la capacità contributiva richiederebbe. Dall’altro lato, qualora la disuguaglianza prendesse la forma anche di una riduzione delle opportunità di vita al centro, l’insicurezza percepita dai ceti medi potrebbe favorire comportamenti di opportunity hoarding (Richard Reeves, Dream Hoarders, 2017), vale a dire di accaparramento per sé delle poche buone opportunità esistenti, a discapito della disponibilità a sostenere chi sta peggio. Già Tocqueville riconosceva che lo «spirito pubblico» ugualitario si alimenta dell’uguaglianza delle condizioni: più si è uguali, più si condividono interessi e propensioni e più si è disposti ad aiutarsi l’un l’altro. Non a caso, i maggiori progressi dello Stato sociale sono avvenuti in un contesto di ridotte disuguaglianze di mercato.

Inoltre, le disuguaglianze di mercato prodotte dalla crescita potrebbero aggravare i problemi stessi che il welfare deve affrontare. Le disuguaglianze potrebbero, infatti, riflettere un aumento nel numero delle persone disoccupate o con basse retribuzioni e più aumenta il numero di chi è in queste condizioni più lo Stato sociale deve intervenire con politiche di contrasto. Più le remunerazioni sono basse più potrebbe essere difficile contrastare la povertà, dovendosi comunque mantenere una “distanza di legittimità” fra chi lavora e chi non lavora. Le disuguaglianze di salute pure rischiano di aumentare. Come ben mette in evidenza Michael Marmot (La salute disuguale, 2019), soffermandosi sulle elevate disuguaglianze economiche presenti a Londra, a ogni fermata della metropolitana dalla City verso est, diminuiscono le aspettative di vita e lo stesso sembra valere procedendo dal centro di Roma verso sud, come rilevano Carlo Saitto e Lionello Cosentino (Sanità non è sempre salute, 2022). Una ragione ha a che fare con la precarietà del lavoro e con il senso di perdita di controllo sulla propria vita, un’altra con il vivere in posti lasciati indietro. Maggiore la morbilità fra chi sta peggio e maggiori rischiano di diventare la spesa sanitaria e le difficoltà di attuazione delle politiche di attivazione (sul tema cfr. IPPR, Our Greatest Asset). 

I rischi appena segnalati appaiono elevati quando si consideri il tipo di crescita auspicato dal Rapporto Draghi, ossia, una crescita trainata dalla concentrazione di potere in grandi imprese e dai diritti di proprietà intellettuale che aumentano le disuguaglianze fra le persone e fra territori, fra i centri in cui si addensa l’innovazione e i posti lasciati indietro. A quest’ultimo riguardo, ricordo la tendenza già in atto nell’Unione europea di incremento delle disuguaglianze territoriali (vedasi Salvatore Morelli, 2024 in Elena Granaglia e Gloria Riva, a cura di, Quale EuropaCapire, discutere, scegliere).

Certo, nel Rapporto si auspica anche che il welfare investa in politiche che potremmo definire ex ante (non compensative), di riduzione delle disuguaglianze, e di sostegno alla crescita. Esemplificative sono le politiche auspicate di investimento nelle competenze. Tale investimento contribuirebbe sia al contrasto delle disuguaglianze, aumentando la qualità del capitale umano, sia alla crescita. Esemplificativa, specificamente delle seconde, è la proposta, condivisa dal Rapporto Letta, di promuovere un secondo pilastro pensionistico fiscalmente agevolato. L’obiettivo indicato è quello di stimolare l’afflusso nel mercato finanziario e, con esso, nelle imprese di risparmi oggi congelati nelle banche.

Queste proposte, tuttavia, continuano a privilegiare il ruolo strumentale/ancillare rispetto alla crescita. Ciò è evidente nel caso del secondo pilastro, rispetto al quale sono del tutto trascurati il trasferimento sugli assicurati, dei rischi del mercato finanziario e le iniquità delle agevolazioni. Queste ultime tendono a favorire chi sta meglio (ed è capiente), anziché i tanti lavoratori e le tante lavoratrici con rapporti di lavoro non standard, nonché diminuiscono il gettito spendibile per altri comparti di spesa sociale. Nel caso della formazione, sono trascurati le tante evidenze sui limiti dell’istruzione in competenze quale via per la riduzione delle disuguaglianze. Difficile, infatti, ridurre le disuguaglianze se non si incide sulla struttura/sulla piramide delle occasioni di lavoro offerte. Al massimo, si può aumentare le chances di cambiare posto, lubrificando i canali di accesso per chi proviene da famiglie svantaggiate. Peraltro, anche a questo riguardo, maggiori sono le disuguaglianze prodotte dall’economia più rischia di diventare complesso garantire la stessa uguaglianza di opportunità per i giovani. Difficile, ad esempio, addirittura aspirare a migliorare e darsi da fare qualora si viva in contesti territorialmente emarginati che cancellano la speranza. Colpisce, al riguardo, nel Rapporto, l’indicazione di concentrare l’aiuto sui giovani più abili, come se le abilità fossero un dato puramente naturale e individuabile in un ben preciso momento temporale e non fossero fortemente influenzate dal contesto socioeconomico in cui si cresce.

La giustizia sociale ci impone, dunque, di abbandonare la relazione ancillare fra crescita e un welfare che deve rimediare alle disuguaglianze create dal mercato e contribuire a sostenere la crescita stessaAnche l’economia è spazio di giustizia sociale e non solo il welfare. Ciò significa che le regole di funzionamento dei mercati e delle imprese devono esse stesse essere improntate alla giustizia sociale impedendo/prevenendo l’insorgenza delle disuguaglianze ingiuste attuali, come suggerito da molte proposte che si ispirano alla pre-distribuzione (vedasi Franzini). Significa altresì non lasciare alle imprese la scelta di come innovare, ma decidere la direzione dell’innovazione, chiedendo innovazioni che promuovano lo stato del lavoro, aumentino la possibilità di controllo e voce da parte dei lavoratori, alzino la qualità dell’occupazione, inclusa la qualità del lavoro sociale, nonché l’uso collettivo dei dati. Significa, inoltre, orientare gli investimenti alla creazione di contesti e rapporti di lavoro e di habitat sociali e naturali che preservino l’ambiente, favoriscano la salute e la socialità. Boitani e Tamboriniin questo numero, offrono molte indicazioni su come emendare il Rapporto Draghi in questa direzione.

Il welfare, dal canto suo, non è solo strumento di sostegno alla crescita. È, in primis, la via per garantire condizioni di vita dignitose a tutti attraverso la fornitura di una base di beni e servizi fondamentali per tutti e tutte per la formazione e per il perseguimento dei singoli piani di vita. Tale fornitura influenzerebbe positivamente anche la crescita, seppure la crescita non sia l’obiettivo primario. Il welfare, inoltre, rappresenta anche l’opportunità per forme non mercificate di produzione.

D’altro canto, non diciamo da decenni che il Pil non è tutto? Che dobbiamo invece muovere verso uno sviluppo sostenibile dove il welfare rappresenta uno degli obiettivi fondamentali? Ricordo che il 25 settembre 2015, i governi di ben 193 Paesi membri delle Nazioni Unite, sotto l’egida dell’Assemblea Generale dell’ONU, hanno aderito all’Agenda per un siffatto sviluppo sostenibile. Deve restare solo retorica? 


Vedi anche, Verso la legge di Bilancio 2025 

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