«Riconoscere al Ministero della giustizia la gestione delle REMS.»? Le discutibili proposte del Csm e il diritto alla salute dei detenuti Se «la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo» (art.32 Cost.), «i detenuti e gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni efficaci ed appropriate» (art.1 d.lgs. n.230/1999) e, quindi, alla «tutela della salute mentale in modo da eliminare ogni forma di discriminazione e di segregazione» (art.2 co.2 lett.G legge n.833/1978). In questo contesto destano gravi perplessità alcune delle proposte presentate dalla “Commissione mista per i problemi della magistratura di sorveglianza relativi alle problematiche connesse alle REMS” nel documento del 12.11.2024 di cui il CSM ha «preso atto» nella riunione plenaria del 25.1.2025. Sommario: 1. Premessa. - 2. Il pregiudizio manicomiale e la «voce del testo» della Costituzione e delle leggi. - 2.1. La Costituzione: «la salute come fondamentale diritto dell’individuo». - 2.2. Un limite assoluto del potere punitivo: il diritto alla vita (art.27 co.4 Cost.). - 2.3. La tutela della salute mentale come limite alle ordinarie modalità di esercizio del potere punitivo. - 2.3.1. Un passo indietro: la «detenzione domiciliare sostitutiva del rinvio della esecuzione della pena» per «chi si trova in condizioni di grave infermità fisica» (art.4 legge n.165/1998)… - 2.3.2. …e due avanti: la «grave infermità psichica sopravvenuta» come limite alle ordinarie modalità di esercizio del potere punitivo (Corte costituzionale, n.99/2019). - 3. Il diritto alla salute psichica come limite relativo alle ordinarie modalità di esercizio del potere punitivo dello Stato: i margini per un bilanciamento. - 3.1. L‘ambito di applicabilità del principio della «tutela della salute mentale in modo da eliminare ogni forma di segregazione»: art.2 co.2 lett.G legge n.833/1978. - 4. Il diritto alla salute psichica come limite assoluto alle ordinarie modalità di esercizio del potere punitivo dello Stato: la disciplina vigente della esecuzione delle misure di sicurezza cd. “psichiatriche”. - 4.1. «I detenuti e gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni efficaci ed appropriate» (art.1 d.lgs n.230/1999): le fondamentali disposizioni legislative per il trasferimento della sanità penitenziaria tra cultura manicomiale e realizzazione di un «fondamentale diritto dell’individuo». - 4.2. Le parole della legge come ‘testimone’ di una tradizione di civiltà giuridica per la «solidarietà politica, economica e sociale» (art.2 Cost.): il «superamento degli ospedali psichiatrici». - 4.3. L’effettività del diritto alla salute in esecuzione di misure di sicurezza cd. “psichiatriche”. - 4.3.1. Il contesto teorico di riferimento. - 4.3.2. Le disposizioni per la «effettività primaria» dei divieti di segregazione ed istituzionalizzazione psichiatrica nella legge n.180/1978: il numero chiuso di «posti letto» negli S.P.D.C. - 4.3.3. Le corrispondenti disposizioni per la «effettività primaria» del diritto alla salute degli internati nella normativa per il «definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari»: il numero chiuso di «letti» nelle R.E.M.S. - 5. Le nuove proposte del Consiglio Superiore della Magistratura sul diritto alla salute di detenuti e internati e sanità penitenziaria. 1. Premessa In qualsiasi modo, in qualsiasi luogo, in qualsiasi tempo e in qualsiasi contesto si discuta del rapporto tra psichiatria e giustizia penale, un pregiudizio atavico quanto la cultura manicomiale (se non, addirittura, endemico) rischia sempre di disorientare il discorso e condizionarne gli esiti. Anche quando si tratta di cultura manicomiale, infatti, l’«immenso dominio della cultura» sovrasta e resiste al «dramma dei grandi avvenimenti»: sono queste, in estrema sintesi, le ragioni per cui gli storici della Scuola francese degli Annales hanno teorizzato la «longue durée» ovvero la necessità di «una storiografia di lunga, addirittura lunghissima durata»[1]. Anche di fronte ai pregiudizi più ostinati, però, il circolo vizioso si spezza se la «coscienza ermeneuticamente educata» dell’interprete - che necessariamente «implica una precisa presa di coscienza delle proprie presupposizioni e dei propri pregiudizi» - «nel rapporto col testo, mette alla prova la legittimità, cioè l’origine e la validità di tali presupposizioni»[3]. 2. Il pregiudizio manicomiale e la «voce del testo» della Costituzione e delle leggi Un pregiudizio atavico ed endemico, dunque, lambisce e rischia di compromettere una precisa configurazione del rapporto tra il potere punitivo dello Stato e il diritto alla salute dell’individuo e può arrivare a travolgerla e sconvolgerla se, poi, il diritto alla salute in questione è, in particolare, il diritto alla salute mentale. 2.1. La Costituzione: «la salute come fondamentale diritto dell’individuo» Il riferimento fondamentale per la «coscienza ermeneuticamente educata» del giurista è, ovviamente, la Costituzione che, all’art.32, «tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo». Ovvero senza pregiudizi che non siano stati rigorosamente verificati nella loro «legittimità». Quello delle occorrenze valuta rigorosamente e puntualmente tutti gli usi e, quindi, ogni selezione della stessa parola nello stesso testo sacro e, per questo, aiuta a comprenderne il significato e, soprattutto, a misurare il peso che ad essa ha inteso attribuire il pensiero (divino) che ha ispirato quel testo. Ma all’«individuo»: una riduzione eidetica più severa (e, quindi, inclusiva) è difficilmente immaginabile. 2.2. Un limite assoluto del potere punitivo: il diritto alla vita (art.27 co.4 Cost.) Un altro diritto fondamentale che la Costituzione pure avrebbe potuto riconoscere e tutelare è, evidentemente, il diritto alla vita. Tuttavia, probabilmente è un diritto cosi «fondamentale» che la Costituzione neppure si preoccupa di affermarne, per principio, la necessaria tutela. Forse, dunque, non sono ammessi neppure esercizi del potere punitivo che violano il diritto alla salute, dato il rapporto di evidente, esclusiva, immediata e diretta funzionalità di quest’ultimo con il diritto alla vita? 2.3. La tutela della salute mentale come limite alle ordinarie modalità di esercizio del potere punitivo Sono molteplici le disposizioni di legge ordinaria (in alcuni casi già previste anche nel testo originario del codice penale del 1930) che, a determinate condizioni, tutelano il diritto alla salute e lo definiscono chiaramente come un limite, almeno potenziale, alle ordinarie modalità di esercizio del potere punitivo. Per quanto, poi, concerne più specificamente il diritto alla salute mentale, in tempi recenti è intervenuta una nota ed esemplare pronuncia della Corte costituzionale a dichiararne illegittima la mancata considerazione tra i limiti che possono essere posti alle ordinarie modalità di esecuzione della pena detentiva. 2.3.1. Un passo indietro: la «detenzione domiciliare sostitutiva del rinvio della esecuzione della pena» per «chi si trova in condizioni di grave infermità fisica» (art.4 legge n.165/1998)… In particolare, con la sentenza della Corte costituzionale n.99/2019 è stata dichiarata la parziale illegittimità del co.1-ter dell’art.47-ter della legge n.354/1975 che prevede l’applicabilità della detenzione domiciliare nelle ipotesi di rinvio obbligatorio e facoltativo della esecuzione della pena previste agli artt.146 e 147 c.p.: in questi casi possono essere derogati i limiti di pena previsti al co.1 dello stesso articolo per le ipotesi ordinarie di applicabilità della stessa misura. I dettagli della disciplina sono noti. Con l’art.4 legge n.165/1998 è stato aggiunto il co.1-ter all’art.47-ter che amplia l’ambito di applicabilità della detenzione domiciliare sotto un duplice profilo: alle ipotesi già previste si aggiungono, infatti, quelle in cui «potrebbe essere disposto il rinvio obbligatorio o facoltativo della esecuzione della pena ai sensi degli articoli 146 e 147 del codice penale» e inoltre, in queste ulteriori ipotesi, il Tribunale di sorveglianza può applicare la detenzione domiciliare «anche se la pena supera il limite di cui al comma 1». Già nel testo originario del 1930, infatti, l’art.147 c.p. prevedeva e tuttora prevede al n.2, tra le condizioni per il differimento facoltativo dell’esecuzione della pena, la necessità di eseguire «una pena restrittiva della libertà personale (…) contro chi si trova in condizioni di grave infermità fisica»: stavolta, quindi, era addirittura il codice penale fascista a prevedere la possibilità di un limite al potere punitivo dello Stato per una maggiore tutela del diritto alla salute del condannato. Ma se nelle stesse condizioni oggi viene applicata la misura di cui all’art.47-ter legge n.354/1975, quella che era la mera sospensione della esecuzione di «una pena restrittiva della libertà personale» prevista dal codice penale del 1930 diventa detenzione domiciliare. Non solo. Paradossalmente, infatti, in questi casi la detenzione domiciliare (ovvero comunque una forma di privazione della libertà personale) interverrebbe in sostituzione della mera sospensione della esecuzione della pena anche per un tempo superiore agli ordinari quattro anni previsti al co.1 dell’art.47-ter legge n.354/1975 e, soprattutto, interviene nei confronti di persone che, più di quelle a cui fa riferimento il co.1, sono bisognose di cure perché non «in condizioni di salute particolarmente gravi» (art.47-ter co.1 lett.C legge n.354/1975), ma in condizioni di vera e propria «infermità» che, comunque, deve essere anche «grave» (ex art.147 c.p. ad integrazione, mediante esplicito rinvio, dell’art.47-ter co.1-ter legge n.354/1975). 2.3.2. …e due avanti: la «grave infermità psichica sopravvenuta» come limite alle ordinarie modalità di esercizio del potere punitivo (Corte costituzionale, n.99/2019) Con la sentenza n.99/2019 la Corte costituzionale interviene, dunque, in un cotesto normativo che, in realtà, è caratterizzato dall’ampliamento (determinato con l’art.4 della legge n.165/1998) delle possibilità offerte al Tribunale di sorveglianza di applicare modalità di esecuzione della pena che sono comunque restrittive della libertà personale, laddove, prima di allora, avrebbe potuto essere disposta, invece, la mera sospensione della esecuzione della «pena restrittiva della libertà individuale» ai sensi dell’art.147 c.p. Come già era accaduto quando la disposizione impugnata era stata aggiunta all’art.47-ter con l’art.4 della legge n.165/1998, anche la Corte costituzionale, dunque, estende ulteriormente l’ambito di applicabilità della detenzione domiciliare. Dopo l’ambigua disposizione di cui al co.1-ter aggiunto nel 1998 all’art.47-ter della legge n.354/1975 con la legge n.165 - che, per «riaffermare la piena operatività del principio di indefettibilità della sanzione penale»[9], in realtà aggrava la posizione precedentemente riconosciuta al condannato in «condizioni di grave infermità fisica» -, con la sentenza n.99/2019 della Corte costituzionale le esigenze di tutela del diritto alla salute tornano a prevalere sulle ordinarie modalità di esercizio del potere punitivo dello Stato in un ambito che riguarda, peraltro, proprio la salute mentale del condannato. 3. Il diritto alla salute psichica come limite relativo alle ordinarie modalità di esercizio del potere punitivo dello Stato: i margini per un bilanciamento La necessità che la legge preveda che anche il diritto alla salute psichica possa costituire un limite alle ordinarie modalità dell’esercizio del potere punitivo dello Stato è, quindi, chiaramente affermata nella sentenza n.99/2019 della Corte costituzionale. In particolare, nell’ipotesi della applicabilità delle detenzione domiciliare per la tutela della salute psichica del condannato, le motivazioni della sentenza della Corte attribuiscono chiaramente due ambiti di discrezionalità al Tribunale di sorveglianza che riguardano innanzitutto la “gravità” della condizione di infermità psichica sopravvenuta e, poi, la sua “incompatibilità” con la permanenza in carcere: la condizione della incompatibilità, infatti, è chiaramente posta nelle motivazioni della sentenza n.99/2019 laddove la Corte afferma che «l’istituto della detenzione domiciliare è una misura che può essere modellata dal giudice in modo da salvaguardare il fondamentale diritto alla salute del detenuto, qualora esso sia incompatibile con la permanenza in carcere»[10]. Trattandosi della esecuzione della pena e, comunque, di qualità psichiche dipendenti da cause patologiche, ai sensi dell’art.220 co.2 c.p.p. l’interprete giurista potrebbe innanzitutto affidarsi ad un perito che, in quanto tale, dovrebbe avere a disposizione parametri di valutazione più rigorosi. Non per questo, tuttavia, il giurista sarebbe esonerato dal ruolo di peritus peritorum che tradizionalmente gli attribuisce la dottrina processualpenalistica[11] e, comunque, anche il perito potrebbe non essere immune da «pregiudizi» e «presupposizioni». In quanto tali, infatti, entrambi gli ambiti di discrezionalità implicano comunque anche l’ulteriore effetto di esporre l’interprete (giurista o perito che sia) all’«immenso dominio» e, quindi, alla «longue durée» della «cultura» se, con «coscienza ermeneuticamente educata», egli non «mette alla prova la legittimità, cioè l’origine e la validità» dei pregiudizi che possono derivargliene e, in particolare, non li confronta con il «dramma dei grandi avvenimenti» (anche legislativi!) che, intanto, pure potrebbero essere intervenuti. 3.1. L‘ambito di applicabilità del principio della «tutela della salute mentale in modo da eliminare ogni forma di segregazione»: art.2 co.2 lett.G legge n.833/1978 Alcune delle disposizioni fondamentali delle leggi nn.180 e 833 del 1978, nella loro aspirazione apparentemente onnicomprensiva, sembrano potere addirittura annullare qualsiasi ambito di discrezionalità nella valutazione della incompatibilità tra la permanenza in carcere e «l’ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta». Solo pochi mesi prima era stata approvata la legge n.180 che, notoriamente, dispone il «graduale superamento degli ospedali psichiatrici» (art.7 co.6) e, conseguentemente, all’art.11 prevede espressamente l’abrogazione, tra gli altri, dell’art.1 della legge n.36 del 1904 laddove si disponeva che «debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo o non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi». Fino ad allora, dunque, la regola era la segregazione che, però, era riferita solo ai casi più gravi di «alienazione mentale» di persone per le quali si escludeva la possibilità di «essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi». Dato il tenore letterale della disposizione, l’art.2 co.2 lett. G della legge n.833/1978, riferendosi ad «ogni forma di segregazione», è evidentemente comprensivo di qualsiasi forma di limitazione della libertà personale del paziente psichiatrico e chiaramente condivide la funzione terapeutica della libertà notoriamente teorizzata e praticata in quegli anni da Franco Basaglia con i suoi “rivoluzionari” protocolli terapeutici[12]. Ma la storia dei protocolli terapeutici della psichiatria e quella delle disposizioni della legge n.180/1978, nonché il relativo tenore letterale ne definiscono l’ambito di applicabilità chiaramente ed essenzialmente in riferimento ad ipotesi di grave infermità psichica (che, poi, saranno espressamente citate anche nel dispositivo della sentenza n.99/2019 della Corte costituzionale). Ancora una volta, pertanto, sono i dettagli delle misure terapeutiche e delle particolari condizioni del paziente che offrono la possibilità di un bilanciamento tra il diritto alla salute psichica e le ordinarie modalità di esercizio del potere punitivo dello Stato: l’art.2 co.2 lett. G della legge n.833/1978 chiaramente afferma la incompatibilità della salute psichica con «ogni forma di segregazione», ma la privazione della libertà personale del paziente psichiatrico decisa dall’autorità giudiziaria in esecuzione penale è illegittima solo nei casi più gravi di infermità psichica. 4. Il diritto alla salute psichica come limite assoluto alle ordinarie modalità di esercizio del potere punitivo dello Stato: la disciplina vigente della esecuzione delle misure di sicurezza cd. “psichiatriche” La grave infermità psichica sempre si risolve, invece, in un limite assoluto alle ordinarie modalità di esercizio del potere punitivo dello Stato (del tutto analogo, quindi, a quello stabilito con il divieto di pena di morte di cui all’art.27 co.4 Cost.), quando essa esclude del tutto la capacità di intendere o di volere. Come è noto, in questi casi non è possibile pronunciare una sentenza di condanna, non è possibile, quindi, applicare una pena e, data anche la pericolosità sociale del paziente psichiatrico non imputabile (presunta in via assoluta fino alla sentenza n.139/1982 della Corte costituzionale) che ha commesso un fatto preveduto dalla legge come reato, è possibile applicare solo una misura di sicurezza di sicurezza che, nel sistema originario del codice penale del 1930 (ovvero fino alla sentenza n.253/2003 della Corte costituzionale), era necessariamente - ed oggi comunque potrebbe ancora essere! - il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario di cui all’art.222 c.p.. Dunque, nella prospettiva della tutela del diritto alla salute psichica, la disciplina codicistica del sistema del doppio binario e, in particolare, la impossibilità di applicare una pena diventano chiaramente un limite assoluto alle ordinarie modalità di esercizio del potere punitivo dello Stato. Ancora una volta, infatti, si trattava di adeguarsi alle fondamentali disposizioni di cui alla legge n.833/1978 che, riproponendo anche testualmente l’art.32 Cost., «tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo» (art.1 co.1) e afferma che «la tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana» (art.1 co.2). È questa la ragione per cui, al pari di quanto accade per i trattamenti di qualsiasi altra patologia, anche per le infermità psichiche non sarebbe legittima alcuna differenza tra il trattamento della infermità psichica degli individui liberi e il trattamento della infermità psichica degli individui ristretti in esecuzione penale. 4.1. «I detenuti e gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni efficaci ed appropriate» (art.1 d.lgs n.230/1999): le fondamentali disposizioni legislative per il trasferimento della sanità penitenziaria tra cultura manicomiale e realizzazione di un «fondamentale diritto dell’individuo» Anche cronologicamente, il primo, fondamentale e decisivo superamento di «ogni forma di discriminazione» nella tutela della salute mentale di individui liberi e individui ristretti o che comunque hanno commesso un fatto preveduto dalla legge come reato è stato realizzato con la disposizione di cui alla lett.A del co.283 dell’art.2 della legge n.244/2007 che ha disposto il «trasferimento al Servizio sanitario nazionale di tutte le funzioni sanitarie svolte dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e dal Dipartimento della giustizia minorile del Ministero della giustizia». In particolare la disposizione era espressamente prevista «al fine di dare completa attuazione al riordino della sanità penitenziaria di cui al decreto legislativo 22 giugno 1999, n.230» che all’art.1 dispone che «i detenuti e gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, efficaci ed appropriate, sulla base degli obiettivi generali e speciali di salute e dei livelli essenziali e uniformi di assistenza individuati nel Piano sanitario nazionale, nei piani sanitari regionali e in quelli locali» 4.2. Le parole della legge come ‘testimone’ di una tradizione di civiltà giuridica per la «solidarietà politica, economica e sociale» (art.2 Cost.): il «superamento degli ospedali psichiatrici» Sono noti, soprattutto tra gli operatori di settore, gli avvenimenti successivi al 2008 che, anche a seguito di una particolare incidenza di suicidi nell’OPG di Aversa tra il 2010 e il 2011, portarono gli ospedali psichiatrici giudiziari alla particolare attenzione del Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene e dei trattamenti inumani e degradanti del Consiglio d’Europa, nonché a quella della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla efficacia l’efficienza del servizio sanitario nazionale. L’esito fu l’approvazione delle «disposizioni per il definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari» di cui all’art.3-ter che fu aggiunto al d.l. n.211/2011 con la legge di conversione n.9/2012 e successivamente rivisto. Anche nel testo definitivo dell’art.3-ter d.l. n.211/2011, conformemente al principio della parità di trattamento tra «detenuti», «internati» e «cittadini in stato di libertà» affermato espressamente all’art.1 d.lgs. n.230/1999, per il paziente psichiatrico non imputabile per vizio totale di mente, socialmente pericoloso e autore di un fatto preveduto dalla legge come reato, sono chiaramente definiti soluzioni e percorsi del tutto analoghi a quelli previsti per il paziente psichiatrico in libertà e utili, pertanto, ad «eliminare», anche per loro, «ogni forma di discriminazione». La rubrica dell’art.3-ter del d.l. n.211/2011 intitolato «disposizioni per il definitivo superamento degli ospedali psichiatri giudiziari» ripropone, infatti, parole che furono già utilizzate all’art.7 co.6 della legge n.180/1978: attribuendo alle regioni il compito di “attuare” il «graduale superamento degli ospedali psichiatri» quella disposizione rappresenta efficacemente l’essenza e il ruolo storico, giuridico e sociale della legge n.180/1978. Come il testimone di una staffetta o, meglio, di una tradizione di civiltà giuridica e impegno sociale, le stesse parole erano state riproposte identiche, poi, a conclusione dell’allegato C del d.P.C.M. del 1 aprile 2008, dedicato alle «Linee di indirizzo per gli interventi negli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) e nelle case di cura e custodia», dove, dopo la definizione delle tre fasi per la relativa riorganizzazione, si affermava la necessità di monitorare e valutare il «programma di graduale superamento degli OPG». Quando nel 2012 fu aggiunto l’art.3-ter al d.l. n.211/2011, quella ideale tradizione di impegno giuridico e sociale fu rinnovata anche nelle parole della nuova legge che cambiarono solo in ragione della evidente scelta di sottolineare l’esigenza di una più incisiva effettività: il «graduale superamento degli ospedali psichiatrici» divenne il «definitivo superamento degli ospedali psichiatri giudiziari». 4.3. L’effettività del diritto alla salute in esecuzione di misure di sicurezza cd. “psichiatriche” Praticamente nulla, invece, cambiò, nelle strategie di effettività perseguite sia con la legge n.180/1978, che con le disposizioni di cui all’art.3-ter d.l. n.211/2011. In entrambi i casi furono adottate strategie di effettività sicuramente insolite in una prospettiva tipicamente giuridica, ma simili tra loro e probabilmente indotte dalla consapevolezza della occasione e della necessità di tutelare l’unico «fondamentale diritto dell’individuo» riconosciuto nella Costituzione. 4.3.1. Il contesto teorico di riferimento Nella prospettiva della teoria e della sociologia del diritto, sia nel caso delle disposizioni di cui alla legge n.180/1978, che in quello delle disposizioni di cui all’art.3-ter d.l. n.211/211 si tratta di singolari soluzioni di «effettività primaria» che prescindono del tutto da qualsiasi necessità di effettività anche «secondaria» e che, nel caso della legge n.180/1978, hanno già dato ampie e consolidate prove di efficacia. Il contesto teorico di riferimento è definito dalla fondamentale distinzione kelseniana tra norme primarie e norme secondarie ovvero tra norme «prescrittive di obblighi o divieti» («norme primarie») e norme «prescrittive delle relative sanzioni» («norme secondarie»). Sia nel caso del «graduale superamento degli ospedali psichiatrici», che in quello del «definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari» non è stata semplicemente prevista la chiusura di strutture esistenti, ma sono state previste anche soluzioni alternative per la gestione del problema che si era inteso risolvere con quelle strutture. 4.3.2. Le disposizioni per la «effettività primaria» dei divieti di segregazione ed istituzionalizzazione psichiatrica nella legge n.180/1978: il numero chiuso di «posti letto» negli S.P.D.C. L’art.6 co.3 della legge n.180/1978 attribuiva alle regioni il compito di individuare «gli ospedali generali nei quali, entro sessanta giorni dall'entrata in vigore della presente legge, devono essere istituiti specifici servizi psichiatrici di diagnosi e cura» (S.P.D.C.). Ai sensi del successivo co.4, gli S.P.D.C. «non devono essere dotati di un numero di posti letto superiore a 15» e, ai sensi del precedente co.2, sono destinati ai «trattamenti sanitari per malattie mentali che comportino la necessità di degenza ospedaliera». Nonostante le ragioni per le quali, nell’immaginario collettivo, la legge n.180/1978 è passata alla storia sociale, politica e giuridica italiana, ad essi era dedicato il titolo di quella legge che li distingue in volontari (art.1 co.1) e obbligatori con precise limitazioni, in quest’ultimo caso, nella definizioni dei presupposti, della durata (molto breve!) e delle procedure (artt.2, 3 e 4). Ma, nelle disposizioni delle legge n.180/1978, la «effettività primaria» delle «norme primarie» che prevedevano la chiusura dei manicomi nonché, quindi, la effettività delle disposizioni destinate a prevenire il rischio che nei nuovi S.P.D.C. si riproducesse la istituzionalizzazione dei vecchi manicomi non erano affidate alla «effettività secondaria» di «norme secondarie» (ovvero sanzionatorie) che neppure erano previste, ma, secondo logiche evidentemente conformi alla «fattualità del diritto», erano perseguite con la strategia del numero chiuso. Ai sensi dell’art.6 co.2 della legge n.180/1978 «gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione relativi alle malattie mentali sono attuati di norma dai servizi e presidi psichiatrici extraospedalieri»: è questo il destino dei pazienti psichiatrici previsto dalla legge n.180/1978 e solo offrendo questi percorsi anche ai pazienti eccezionalmente ricoverati in S.P.D.C. nei tempi brevi previsti dalla legge (7 giorni, ai sensi dell’art.3 co.4 legge n.180/1978), negli S.P.D.C. ci sarà sempre posto per altre emergenze. 4.3.3. Le corrispondenti disposizioni per la «effettività primaria» del diritto alla salute degli internati nella normativa per il «definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari»: il numero chiuso di «letti» nelle R.E.M.S. Data la necessità di organizzare la tutela della salute mentale «in modo da eliminare ogni forma di discriminazione» (art.2 co.2 lett. G legge n.833/1978) e dato che «i detenuti e gli internati hanno diritto, al pari dei cittadini in stato di libertà, alla erogazione delle prestazioni efficaci ed appropriate» (art.1 d.lgs n.230/1999), le stesse soluzioni per evitare il rischio di istituzionalizzazione e segregazione psichiatrica devono valere, evidentemente, anche per il paziente psichiatrico non imputabile per vizio totale di mente che ha commesso un fatto previsto dalla legge come reato. Tale, infatti, è l’esito perseguito con le disposizioni della normativa per il definitivo superamento degli OPG che, sotto questo profilo, appaiono del tutto analoghe e corrispondenti a quelle della legge n.180/1978. Come all’art.6 co.4 della legge n.180/1978 fu previsto il limite massimo di 15 posti letto per gli S.P.D.C., così ai sensi dell’allegato A al Decreto adottato dal Ministero della salute di concerto con il Ministero della giustizia il 1 ottobre 2012 ai sensi del co.2 dell’art.3-ter d.l. n.211/2011 per la definizione dei «Requisiti delle strutture residenziali per le persone ricoverate in ospedale psichiatrico giudiziario e assegnate a casa di cura e custodia» è ammesso «un numero massimo di 20 letti» per l’«area abitativa» delle «strutture destinate ad accogliere le persone cui sono applicate le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell’assegnazione a casa di cura e custodia» (art.3-ter co.2 d.l. n.211/2011). Come ai sensi dell’art.6 co.3 della legge n.180/1978 le regioni avrebbero dovuto indicare «entro sessanta giorni dall’entrata in vigore» della legge «gli ospedali generali nei quali […] devono essere istituiti specifici servizi psichiatrici di diagnosi e cura», così ai sensi del co.6 dell’art.3-ter d.l. n.211/2011, solo «entro il 15 giugno 2014» le regioni avrebbero potuto «modificare i programmi» presentati per l’impiego delle risorse e quindi per «la realizzazione e la riconversione delle strutture» che, ai sensi del co.2 dello stesso articolo, sono «destinate ad accogliere le persone cui sono applicate le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell’assegnazione a casa di cura e custodia». Come ai sensi dell’art.3 co.4 della legge n.180/1978 sono poste condizioni ancor più rigorose per la eventuale proroga della degenza in S.P.D.C. «oltre il settimo giorno», così ai sensi del co.1-ter aggiunto all’art.1 del d.l. n.52/32014 con la legge di conversione n.81/2014 «i percorsi terapeutico-riabilitativi individuali di dimissione di ciascuna delle persone ricoverate negli ospedali psichiatrici giudiziari […] devono essere obbligatoriamente predisposti […] entro quarantacinque giorni» dalla entrata in vigore della legge n.81/2014. Quest’ultima disposizione, in realtà, era evidentemente destinata alla situazione molto particolare e storicamente irripetibile in cui si trovavano le persone che erano ancora ricoverate in OPG al momento della approvazione della legge n.81/2014. Tuttavia, data la disponibilità rigidamente limitata di posti, è abbastanza relativa l’importanza della espressa previsione di un limite temporale di permanenza nelle strutture «destinate ad accogliere le persone cui sono applicate le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell’assegnazione a casa di cura e custodia» (definite, in realtà, come «residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza» - R.E.M.S. - solo nel 2014 quando fu aggiunto il co.1-quater all’art.1 d.l.n.52/2914 con la legge di conversione n.81). Peraltro, dopo la legge n.81/2014 una analoga disposizione fu prevista, per esempio, nella legislazione regionale della Campania che, più opportunamente, la riferisce a «tutte le persone presenti» nelle R.E.M.S. e, con maggiore rigore, per predisporre i relativi piani terapeutici individuali concede alle autorità sanitarie solo 30 giorni che, ovviamente, decorrono dalla data di «ingresso» in R.E.M.S. del singolo l’internato[15]. Ma si tratta, in fondo, di un dettaglio perché la necessità di un rapido turn-over nella gestione dei posti disponibili (e quindi l’effettività e l’uguaglianza nella realizzazione del «fondamentale diritto» alla salute degli internati) dipende essenzialmente e direttamente dal numero chiuso di posti nelle R.E.M.S. 5. Le nuove proposte del Consiglio Superiore della Magistratura sul diritto alla salute di detenuti e internati e sanità penitenziaria La tutela della «salute come fondamentale diritto dell’individuo» a cui, quindi, devono avere accesso anche «detenuti e internati […] al pari dei cittadini in stato di libertà» è affidata, pertanto, ai delicati equilibri di un contesto normativo di diretta ed evidente rilevanza costituzionale. Sia in ambito statale che in ambito regionale, esso si è consolidato a seguito di una evoluzione legislativa iniziata, ormai, oltre 25 anni fa, nel corso della quale ha avuto implicazioni persino capillari come i numerosi ed esemplari protocolli di intesa per la migliore attuazione delle normative per il superamento degli OPG opportunamente sollecitati anche dal Consiglio Superiore della Magistratura nella delibere del 19.4.2017 e del 24.9.2018 e sottoscritti tra autorità sanitarie regionali e autorità giudiziarie[16]. In questo contesto si inseriscono, oggi, le nuove e diverse valutazioni del Consiglio Superiore della Magistratura che nella seduta plenaria del 22 gennaio 2025 «ha preso atto» di un «documento predisposto dalla Commissione mista per i problemi della magistratura di sorveglianza relativi alle problematiche connesse alle REMS»[17]. Il documento risale al 12 novembre 2024 e si conclude con una sintetica rappresentazione delle proposte che si risolve in una sorta di agenda politico-istituzionale e, per questo, sembra riproporre una soluzione di efficacia comunicativa già adottata nelle conclusioni delle motivazioni della sentenza n.22/2022 dalla Corte costituzionale. Con maggiore disinvoltura, tuttavia, oggi nel documento si propone, tra l’altro, la «implementazione dei posti disponibili presso le strutture destinate a R.E.M.S. di circa 700 unità». Ovvero pressoché la duplicazione dei posti attualmente disponibili nelle R.E.M.S. che, quindi, potrebbero tornare ad ospitare un numero di internati paragonabile a quello degli internati presenti in OPG quando ne fu decisa la chiusura. Ovvero il ripristino della stessa situazione precedente al d.P.C.M. del 1 aprile 2008. Senza una «coscienza ermeneuticamente educata», evidentemente in qualsiasi luogo e in qualsiasi contesto si discuta del rapporto tra psichiatria e giustizia penale rischiano ancora di essere travolti dalla «longue durée» della cultura manicomiale e della segregazione i «grandi avvenimenti» che, per la tutela di un «fondamentale diritto dell’individuo», hanno segnato la lenta, difficile e complessa, ma lineare evoluzione legislativa del riconoscimento del diritto alla salute psichica dei «cittadini in stato di libertà». E in tempi più recenti, in perfetta e necessaria corrispondenza, dell’analogo diritto di «detenuti e internati». [2] Gadamer, Verità e metodo. Elementi di una ermeneutica filosofica (1986), trad. it. di G. Vattimo, Milano 2001, p.559. [3] Gadamer, Verità e metodo, cit., p.553 ss. [4] Moccia, Il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica, Napoli 1992, p.95. [5] Sul principio della sottoposizione del giudice soltanto alla legge costituzionalmente legittima deducibile dal combinato disposto degli artt.101 co.2 e 134 Cost. cfr. Riccio, Responsabilità penale, in Enc. giur. Treccani, XXVII, Roma 1991, p.3. [6] Nella legislazione ordinaria il divieto di pena di morte era diventato assoluto con la legge n.589/1994 che la aveva abolita dal codice penale militare di guerra e dalle leggi militari di guerra: sul punto senso Padovani, Commento a L. 13/10/1994 n. 589 - Abolizione della pena di morte nel codice penale militare di guerra, in Legislazione penale 1995, 369 ss., 370; Palazzo, Pena di morte e diritti umani (a proposito del Sesto protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo), in Rivista italiana di diritto e procedura penale 1984, 759 ss. 762; nonché Fiandaca, Il 4° comma dell'art.27, in Aa.Vv., Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca e V. Pizzorusso, Rapporti civili. Art.27-28, Bologna-Roma 1991, p.346 ss., 348. [7] Per una limpida ed essenziale interpretazione critica della disposizione di cui al co.1-ter aggiunto con la legge n.165/1998 all’art.47-ter della legge n.354/1975 cfr., per tutti, Pavarini, Guazzaloca, Corso di diritto penitenziario, Bologna 2004, p.140 s. [8] Corte costituzionale, sentenza 6-20 febbraio 2019, n.99, dispositivo (https://www.cortecostituzionale.it/actionSchedaPronuncia.do?anno=2019&numero=99 – consultato il 7.5.2025); cfr. sul punto, tra gli altri, Apicella, Infermità psichica sopravvenuta: una importante sentenza della Corte costituzionale sulla detenzione domiciliare c.d. “umanitaria” (Corte cost., sent. 20 febbraio – 19 aprile 2019, n.99), in Critica del diritto 2019, p. 39 ss., Calcaterra, Salute mentale e detenzione: un passo avanti. È possibile la cura fuori dal carcere, in Diritto penale e uomo, 2 maggio 2019 (https://dirittopenaleuomo.org/wp-content/uploads/2019/05/rifcalca.pdf - consultato il 7 maggio 2025). [9] Così, testualmente, in riferimento alla «detenzione domiciliare sostitutiva del rinvio dell’esecuzione della pena» di cui all’art.47-ter co.1-ter legge n.354/1975, Pavarini, Guazzaloca, Corso di diritto penitenziario, cit., p.140. [10] Corte costituzionale, sentenza 6-20 febbraio 2019, n.99, cit., punto 5 del “Considerato in diritto”.[11] Per tutti Corso, Periti e perizia (diritto processuale penale), in Enciclopedia del diritto, XXXIII, Milano 1983, p.89 ss., 102. [12] Nell’ambito di numerosissimi e costanti riferimenti alla funzione terapeutica della libertà, rasenta lo slogan ed è particolarmente rappresentativa anche della reale complessità del suo pensiero la affermazione secondo cui «il primo passo verso la cura del malato è il ritorno alla libertà»: così Basaglia, La distruzione dell'ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione (1965), in Id., L'utopia della realtà, Torino 2005, p.17. [13] Grossi, La Costituzione italiana quale espressione di un tempo giuridico pos-moderno (2013), in Id., L’invenzione del diritto, Bari 2017, p.60 ss., 68 ss. [14] Ferrajoli, Effettività primaria ed effettività secondaria. Prospettive per un costituzionalismo globale, in Aa.Vv., Dimensioni dell’effettività. Tra teoria generale e politica del diritto, Milano 2005, p.129 ss., 131 (le evidenziazioni grafiche sono dell’A.). [15] In particolare prevede la «predisposizione e l’invio all’Autorità Giudiziaria competente [...] dei progetti terapeutico-riabilitativi individuali di dimissione per tutte le persone di competenza presenti negli attuali OPG e delle realizzande Strutture residenziali per le misure di sicurezza (REMS) ed entro 30 giorni dal loro ingresso nelle predette strutture» il Decreto n.104 del 30.9.2014 della Regione Campania - Commissario ad acta per la prosecuzione del piano di rientro del settore sanitario, per l’«Adeguamento del Programma per il superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari della Regione Campania», in B.U.R.C. (Bollettino Ufficiale della Regione Campania) n.69 del 6.10.2014, punto 5.3. del decretato. [16] Le delibere sono disponibili ai seguenti link: https://www.csm.it/documents/21768/87321/Delibera+del+19+aprile+2017/044037f9-419e-b424-103f-f17608f96f79 e https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/upload/2746-csm---risoluzione-opg-2018.pdf (consultati il 7.5.2025): sul punto Secchi, Calcaterra, La nuova risoluzione del CSM in tema di misure di sicurezza psichiatriche (5.11.2028), in Diritto penale contemporaneo 5 novembre 2018 (https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/6311-la-nuova-risoluzione-del-csm-in-tema-di-misure-di-sicurezza-psichiatriche - consultato il 7.5.2025). [17] Il documento è reperibile al seguente link: https://www.csm.it/web/csm-internet/attualita/news/-/asset_publisher/YoFfLzL3vKc1/content/brevi-dal-pl-290?p_p_auth=M5aBGYxK&inheritRedirect=false&redirect=https%3A%2F%2Fwww.csm.it%2Fweb%2Fcsm-internet%2Fattualita%2Fnews%3Fp_p_auth%3DM5aBGYxK%26p_p_id%3D101_INSTANCE_YoFfLzL3vKc1%26p_p_lifecycle%3D0%26p_p_state%3Dnormal%26p_p_mode%3Dview%26p_p_col_id%3Dcolumn-1%26p_p_col_pos%3D1%26p_p_col_count%3D3 - consultato il 7.5.2025): sul punto cfr. i diffusi commenti critici già pubblicati da Calcaterra, Pellegrini, Secchi, La triste sorte degli “inemendabili (ma davvero esistono?) e il forte bisogno di ritorno ai manicomi, in Sistema penale 10 febbraio 2025 (https://www.sistemapenale.it/it/scheda/la-triste-sorte-degli-inemendabili-ma-davvero-esistono-e-il-forte-bisogno-di-ritorno-ai-manicomi - consultato il 7.5.2025); Centro di ricerca in “diritto penitenziario e Costituzione – European Penological Center”, Le criticità delle R.E.M.S. nella relazione della Commissione mista presso il CSM: prove tecniche di Controriforma?, in Questione giustizia 24 marzo 2025 (https://www.questionegiustizia.it/articolo/le-criticita-delle-r-e-m-s-nella-relazione-della-commissione-mista-presso-il-csm-prove-tecniche-di-controriforma - consultato il 7.5.2025). [18] Sul punto Schiaffo, «Le REMS non sono istituzioni volte a sostituire i vecchi ospedali psichiatrici». Considerazione a margine di un diffuso equivoco in tema di esecuzione delle misure di sicurezza, in Archivio penale 14 luglio 2023 (https://archiviopenale.it/File/DownloadArticolo?codice=1e973028-d97f-4d5a-b031-8098c1f348b9&idarticolo=41568 - consultato il 7.5.2025). Vedi anche Corte Costituzionale. Stop agli OPG. REMS necessario intervento normativo ............................ LA RICHIESTA DI SOSTEGNO del Gruppo Solidarietà Altri materiali nella sezione documentazione politiche sociali. La gran parte del lavoro del Gruppo è realizzato da volontari, ma non tutto. Se questo lavoro ti è utile PUOI SOSTENERLO CON UNA DONAZIONE e CON IL 5 x 1000. Clicca qui per ricevere la nostra newsletter.
E proprio nella persistenza, talvolta particolarmente ostinata o addirittura secolare, dei pregiudizi si manifesta la «longue durée» della cultura.
Ma, come in una sorta di circolo vizioso, quegli stessi pregiudizi producono anche l’ulteriore effetto di alimentare e rinnovare l’«immenso dominio» della «cultura» - e, quindi, la sua «longue durée» -, soprattutto se «i pregiudizi di cui non siamo consapevoli […] ci rendono sordi alla voce del testo»[2] o, comunque, del «dramma dei grandi avvenimenti».
Nel nostro caso si tratta del «testo» di leggi recenti dello Stato che hanno introdotto e poi ridefinito le «disposizioni per il definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari» di cui all’art.3-ter d.l. n.211/2011 e i «grandi avvenimenti» contro cui, ormai dopo quasi 50 anni, continua a scontrarsi l’«immenso dominio della cultura» manicomiale sono altre leggi, maturate in un contesto politico-sociale e politico-istituzionale particolarmente fortunato in termini di civiltà giuridica e di tutela di diritti fondamentali, come le leggi nn.180 e 833 del 1978.
Si tratta del "testo sacro" del giurista che, al pari di «tutti i cittadini», ha «il dovere di essere fedele alla Repubblica e di osservarne la Costituzione» (art.54 Cost.)[4] e, se penalista, sempre trova il suo ultimo interlocutore esclusivamente nei giudici che «sono sottoposti soltanto alla legge» costituzionalmente legittima (art.101 co.2 e art.134 Cost.)[5]: pertanto, anche per rispettare e realizzare pienamente il principio di cui all’art.101 co.2 Cost., la legge va interpretata con «coscienza ermeneuticamente educata».
Ma se la Costituzione è il testo sacro dei giuristi, è il caso, allora, di provare ad adottare anche i criteri tipici della esegesi dei testi sacri.
Il peso delle parole utilizzate nella disposizione di cui all’art.32 Cost. appare, allora, più chiaro se si considera che è l’unico «fondamentale diritto» riconosciuto nella Costituzione, che la scelta dell’aggettivo non è casuale perché altrove nella Costituzione ne sono utilizzati altri per indicare un particolare rilievo del diritto in questione (per esempio è «inviolabile» il diritto alla difesa di cui all’art.24 co.2 Cost.) e, infine, che è l’unica volta che la Costituzione attribuisce diritti riferendosi non a diritti «dell’uomo» (per esempio, art.2), non al «cittadino» (per esempio, art.3) e neppure alla «persona» (per esempio, art.3 co.2).
Nella Costituzione, infatti, il diritto alla vita è espressamente tutelato esclusivamente come limite invalicabile per il potere punitivo.
Ed anche questo, nella prospettiva giuridico-penale, è sempre un dettaglio significativo e potrebbe esserlo in modo particolare nel nostro specifico contesto, anche in considerazione della recente ridefinizione del dettato costituzionale.
Sono esattamente sette le parole utilizzate all’art.27 co.4 della Costituzione che, oggi, semplicemente afferma che «non è ammessa la pena di morte».
Anche nella Costituzione, infatti, la definizione di un limite invalicabile per il potere punitivo è diventata rigorosissima - ovvero assoluta - con la Legge costituzionale n.1/2007[6]: in quella occasione è stata soppressa l’eccezione finale dell’art.27 co.4 che, invece, fino ad allora aveva escluso dal divieto di pena di morte «i casi previsti dalle leggi militari di guerra». Oggi più di ieri, dunque, la tutela della vita rappresenta un limite invalicabile per il potere punitivo: «non è ammessa la pena di morte» significa che non è ammesso esercizio del potere punitivo che possa violare il diritto alla vita.
Probabilmente sono decisive, sotto questo profilo, le concrete e specifiche modalità attraverso cui è garantito e tutelato il diritto alla salute e che potrebbero offrire occasioni utili a bilanciarlo con il potere punitivo dello Stato.
Ai sensi del co.1 dell’art.47-ter introdotto nella legge n.354/1975 con la legge n.663/1986, la detenzione domiciliare può essere concessa nel caso di «pena della reclusione non superiore ai quattro anni, anche se costituente parte residua di maggior pena».
Peraltro, nella sua formulazione originaria e tuttora vigente, la disposizione già definiva chiaramente la possibilità di un limite alle ordinarie modalità di esercizio del potere punitivo dello Stato per la tutela del diritto alla salute del condannato: alla lett. C del co.1 dell’art.47-ter, infatti, tra i destinatari delle ipotesi di ordinaria applicabilità della detenzione domiciliare è inclusa la «persona in condizioni di salute particolarmente gravi, che richiedano costanti contatti con i presìdi sanitari territoriali».
Ne risulta evidentemente ampliato l’ambito di applicabilità della detenzione domiciliare, ma non si tratta, tuttavia, della previsione di ulteriori limiti che possono essere posti al potere punitivo dello Stato per la maggiore tutela del diritto alla salute del detenuto[7].
In particolare, la declaratoria di incostituzionalità del co.1-ter dell’art.47-ter legge n.354/1975 ha riguardato la parte in cui, rinviando all’art.147 c.p., la disposizione «non prevede che, nell’ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta, il tribunale di sorveglianza possa disporre l’applicazione al condannato della detenzione domiciliare anche in deroga ai limiti di cui al comma 1 del medesimo art.47-ter»[8].
Infatti, prima della sentenza n.99/2019, l’ipotesi della «grave infermità psichica» poteva assumere rilevanza ai fini della applicabilità della detenzione domiciliare solo nella misura in cui realizzava le «condizioni di salute particolarmente gravi» di cui alla lett. C del co.1 dell’art.47-ter e, comunque, entro i limiti della «pena della reclusione non superiore ai quattro anni, anche se costituente parte residua di maggior pena» previsti nella stessa disposizione. Tuttavia, a differenza dell’ampliamento dell’ambito di applicabilità della detenzione domiciliare - ovvero di modalità di esecuzione della pena comunque restrittive della libertà personale! - determinato con la disposizione di cui al co.1-ter aggiunto all’art.47-ter con la legge n.165/1998, la declaratoria di parziale incostituzionalità di cui alla sentenza n.99/2019 non sottrae alcun margine di applicabilità alla mera sospensione facoltativa della pena perché l’art.147 c.p., al n.2, ha sempre dato rilevanza esclusivamente alla «grave infermità fisica».
Non si tratta, tuttavia, di un limite assoluto ed insuperabile del potere punitivo dello Stato - che, altrimenti, sotto questo profilo sarebbe analogo al divieto di pena di morte di cui all’art.27 co.4 Cost. - perché la sua realizzazione dipende dalle valutazioni del Tribunale di sorveglianza che, ai sensi del co.1-ter dell’art.47-ter della legge n.354/1975 non “applica”, ma «può disporre l’applicazione della detenzione domiciliare».
Ancora una volta, anche nel caso specifico di una applicazione dell’art.47-ter co.1-ter legge n.354/1975 che sia conforme alle indicazioni della sentenza n.99/2019 della Corte costituzionale, la «cultura» atavica ed endemica che, con il suo «immenso dominio», rischia di travolgere l’interprete è la secolare cultura manicomiale della segregazione.
D’altra parte, evidentemente rappresentative dei «grandi avvenimenti» che rischiano di esserne travolti (e, quindi, di finire ignorati) sono le leggi nn.180 e 833 del 1978.
Alla lett. G del co.2 dell’art.2 della legge n.833/1978 è espressamente previsto, infatti, che «il conseguimento delle finalità» della istituzione del Servizio Sanitario Nazionale di cui all’art.1 della stessa legge «è assicurato mediante» anche «la tutela della salute mentale […] in modo da eliminare ogni forma di discriminazione e di segregazione».
Ad essi, quindi si riferiscono anche le disposizioni del 1978 laddove, organizzando i servizi sanitari per la tutela della salute mentale nei «limiti imposti dal rispetto della persona umana» (art.32 co2. Cost., testualmente riproposto all’art.1 co.1 della legge n.833/1978) o, più precisamente, «nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana» (art.1 co.2 legge n.833/1978), hanno riconosciuto la inadeguatezza dei protocolli terapeutici della custodia e della segregazione e, anche abrogando l’art.1 della legge n.36/1904 (art.11 legge n.180/1978), hanno specificamente e in molti altri modi escluso «ogni forma di segregazione».
La necessità di «eliminare ogni forma di segregazione» di cui all’art.2 co.2 lett. G della legge n.833/1978, dunque, non è riferibile a tutte le ipotesi di infermità psichica.
La disposizione, tuttavia, definisce comunque un limite chiaro ed inequivocabile alle ordinarie modalità di esercizio del potere punitivo dello Stato che è determinato dalle esigenze di tutela del prevalente diritto alla salute psichica del detenuto.
Ma, anche in questa prospettiva, oggi intervengono le leggi nn.180 e 833 del 1978 a cui sono state adeguate anche le «disposizioni per il definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari» di cui all’art.3-ter aggiunto al d.l. n.211/2011 con la legge di conversione n.9/2012 e successivamente modificate sei volte in meno di due anni con i dd.ll. nn.158/2012, 24/2013 e 52/2014 e, poi, con ciascuna delle rispettive leggi di conversione nn.189/2012, 57/2013 e 81/2014.
Ma soprattutto, al momento della definizione delle «disposizioni per il definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari» di cui all’art.3-ter d.l. n.211/2011, si trattava di adeguarsi alla disposizione di cui all’art.2 co.2 lett. G della legge n.833/1978 ovvero di organizzare anche nell’ambito dell’area penale «la tutela della salute mentale […] in modo da eliminare» non solo «ogni forma […] di segregazione» (quindi anche quelle riconducibili alla esecuzione di un eventuale provvedimento dell’autorità giudiziaria penale) per le gravi infermità psichiche, ma anche «ogni forma di discriminazione».
Successivamente, con il d.P.C.M. del 1 aprile 2008, «in attuazione dell’art.2, comma 283, della legge 24 dicembre 2007, n.244» furono disciplinati «le modalità, i criteri e le procedure per il trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, delle risorse finanziarie, dei rapporti di lavoro, delle attrezzature, arredi e beni strumentali relativi alla sanità penitenziaria» (art.1) e, in particolare, all’art.5, «al fine di dare completa attuazione al riordino della medicina penitenziaria» fu disposto il trasferimento alle «regioni» e, quindi, alle «Aziende sanitarie locali» delle «funzioni sanitarie afferenti agli Ospedali psichiatrici giudiziari ubicati nel territorio delle medesime» di cui l’allegato C allo stesso d.P.C.M. già organizzava in tre fasi il superamento.
A detenuti ed internati sarebbe consentito, così, l’accesso alla stessa organizzazione di servizi sanitari «efficaci ed appropriati» predisposta per gli individui liberi, conformemente a quanto chiarissimamente disposto, ormai 26 anni fa, all’art.1 del d.lgs. n.230/1999.
L’analogia emerge evidente innanzitutto in un dettaglio che è sicuramente marginale nel contesto delle disposizioni approvate, ma ha un chiaro valore simbolico.
Per questa ragione potrebbe essere apparso più opportuno ed urgente condividere, anche nella prospettiva della effettività, i criteri della «fattualità del diritto» che Paolo Grossi ha ritenuto tipici della cultura giuridica del Novecento e radicati e rappresentati nella disposizione di cui all’art.3 co.2 Cost. laddove si attribuisce alla Repubblica il compito di rimuove gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitando «di fatto» libertà e uguaglianza, impediscono il pieno sviluppo della persona umana[13].
Data questa premessa, si propone di «distinguere l’effettività (e l’ineffettività) primaria o di primo grado, che è assicurata dall’osservanza (o dall’inosservanza) e perciò dalla effettività (e dall’ineffettività) delle norme primarie e delle relative garanzie primarie (nonché dei relativi diritti) e l’effettività (e l’ineffettività) secondaria o di secondo grado, assicurata invece dall’osservanza (o dall’inosservanza) e perciò dalla effettività (e dall’ineffettività) delle norme secondarie e delle connesse garanzie secondarie (e con esse, di nuovo, dei relativi diritti)»[14].
Il limite di 15 posti letto per ciascun S.P.D.C. (art.6 co.4 legge n.180/1978) e il termine molto breve entro il quale le regioni avrebbero dovuto indicare gli ospedali generali nei quali istituire gli S.P.D.C. (art.6 co.3 legge n.180/1978) hanno definitivamente posto un limite molto severo nelle strutture pubbliche destinate alla degenza di pazienti psichiatrici e sono diventati, quindi, garanzia del divieto di segregazione ed istituzionalizzazione psichiatrica.
Alcune delle argomentazioni di quella sentenza – spesso anche tecnicamente discutibili o approssimative o, comunque, imprecise[18] – vengono espressamente assunte a sostegno anche delle posizioni esposte nel documento del 12 novembre 2024 in cui risultano riproposte anche alcune delle indicazioni già date dalla Corte costituzionale.
E con sconcertante risolutezza, ben oltre il cauto «coinvolgimento del Ministero della giustizia nell’attività di coordinamento e monitoraggio del funzionamento delle REMS» proposto nel 2022 dalla Corte costituzionale, nel documento del 12 novembre 2024 si propone il «sollecito intervento del Legislatore al fine di riconoscere al Ministero della giustizia la gestione delle REMS».
[1] Braudel, Historie et Sciences sociales. La longue durée, in Annales. Économics, Sociétés, Civilisation 1958, 725 ss., 727 ss.