Data di pubblicazione: 18/10/2025
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Inclusione difficile: la sfida delle persone autistiche

di Gianfranco Vitale, in, superando.it.

Parlare di inclusione delle persone autistiche significa affrontare un terreno irto di ostacoli, dove i princìpi proclamati nei documenti ufficiali raramente coincidono con la realtà quotidiana. Sulla carta, la società garantisce diritti e uguaglianza; nei fatti, però, questi rimangono spesso parole vuote, brandite come slogan da politici e istituzioni per legittimare un approccio che, nella sostanza, è largamente deficitario.
Ma perché verifichiamo ogni giorno che la parola inclusione è solo una scatola vuota che la politica utilizza per rendere mediaticamente credibile ciò che, nei fatti, non esiste? Perché è così difficile rompere questa cortina di indifferenza che inevitabilmente produce chiusure persino da parte di tanti familiari, spesso restii a mostrarsi e a mostrare all’esterno i propri figli, nel timore che vengano feriti da quel clima di emarginazione che li circonda? Prepongo alla riflessione alcuni esempi.

Diagnosi e presa in carico: il mito della precocità
In Italia si stima che un bambino su 77 nella fascia 7-9 anni rientri nello spettro autistico. Le linee guida parlano di diagnosi precoce e intervento tempestivo, ma la realtà è un’altra: non tutti i centri, infatti, offrono sia la diagnosi che la presa in carico, e molti percorsi terapeutici iniziano con anni di ritardo. Le famiglie, spesso lasciate sole, si trovano a dover affrontare un vero e proprio “pellegrinaggio sanitario”, mentre le leggi che dovrebbero garantire uniformità restano sulla carta (1).

Disparità territoriali e accesso ai servizi
Secondo i dati più recenti dell’Istituto Superiore di Sanità, in Italia esistono 1.214 centri per la diagnosi e la presa in carico dei disturbi dello spettro autistico. Ma la loro distribuzione è tutt’altro che equa: oltre il 54% si trova al Nord, mentre solo un quarto è al Sud e nelle Isole. Questo significa che un bambino nato in Lombardia o Emilia-Romagna ha molte più possibilità di ricevere diagnosi e terapie tempestive rispetto a uno nato in Calabria o Sardegna. L’inclusione, dunque, comincia già ad essere diseguale dal punto di partenza (2).

La scuola: un’inclusione solo sulla carta
La scuola, che dovrebbe essere il primo e più importante laboratorio di cittadinanza, resta uno dei luoghi più contraddittori. L’alunno autistico è presente in classe, ma quante volte è davvero incluso? Molto spesso la sua partecipazione è limitata: compagni che non lo comprendono, insegnanti senza strumenti adeguati, ambienti caotici e non pensati per chi vive una sensibilità sensoriale diversa.
Qui la retorica dell’inclusione si riduce a una pura questione burocratica: ore di sostegno, piani individualizzati, riunioni. Ma la vita scolastica reale resta terreno di un’esclusione silenziosa.

Il lavoro: l’illusione dell’inclusione
Secondo le stime delle Associazioni, in Italia vivono circa 600.000 persone autistiche, ma vergognosamente solo l’1,7% di queste è inserito nel mondo del lavoro. Un numero che grida vendetta: nonostante esistano leggi come la 68/99 che obbligano le aziende ad assumere persone con disabilità, l’autismo rimane praticamente invisibile nei contesti professionali.
La conseguenza è una società che continua a relegare le persone autistiche a una condizione di dipendenza e marginalità, negando loro la possibilità di contribuire attivamente e di autodeterminarsi (3).

Sanità: il paradosso più feroce
È nella Sanità che il fallimento dello Stato diventa più evidente. Come fa un Paese civile a parlare di inclusione se, durante una visita medica, ci troviamo di fronte a personale non formato, che confonde la sua mancanza di conoscenza con un problema del bambino stesso? La realtà è che il problema non è l’autistico: è lo Stato che non forma i professionisti, non adatta gli ambienti, non prepara protocolli inclusivi.
E non basta: spesso, se chiediamo giustamente priorità nelle attese, veniamo trattati come privilegiati o maleducati, dimenticando che l’inclusione è un diritto, non una concessione.
Nella Sanità la responsabilità politica si fa macroscopica: non si tratta solo di risorse mancanti, ma di una visione assente. Lo Stato non solo non educa la società, ma la lascia libera di discriminare, di escludere, di etichettare.

Servizi e spazi pubblici: barriere ovunque
La stessa incoerenza si ritrova negli spazi pubblici. Non possiamo frequentare un supermercato se nessuno si preoccupa di offrire, almeno in alcuni orari, condizioni sensorialmente sostenibili, come luci soffuse e riduzione del rumore. Non possiamo portare i nostri figli nei parchi, se mancano giochi inclusivi. Non possiamo iscriverli a centri sportivi, perché molti si rivelano del tutto impreparati ad accoglierli. Persino piscine e centri ricreativi, che dovrebbero essere luoghi per tutti, diventano ostili o inaccessibili.

Che fare?
Noi genitori sopravviviamo a questo sfascio con enormi sacrifici, ma nessuno può accusarci di mentire se affermiamo che sono lo Stato in primis, e a cascata larghi pezzi della società, a disabilitare e ad emarginare. Siamo dentro a un paradosso: una Repubblica che si proclama fondata sull’uguaglianza, non sa tradurre i propri princìpi in azioni concrete. È un Paese, il nostro, che produce leggi avanzate ma non le applica, che proclama diritti ma non li rende esigibili, che celebra l’inclusione nei convegni e nei comunicati, salvo poi disinteressarsene nella vita reale.
Ed è qui che la mancata responsabilità politica diventa causa diretta di una mancata maturazione culturale. Se non educa, se non mostra la via, se non costruisce strumenti e ambienti realmente inclusivi, allora anche la società resta ferma, prigioniera di stereotipi, paure e pietismi. È un circolo vizioso che disabilita due volte: istituzionalmente e socialmente.

E allora, cosa possiamo fare per dare un segnale di cambiamento? Non possiamo nasconderci. Non possiamo rinunciare a portare i nostri figli “nella mischia”. È vero: siamo abbandonati da tutti, è tutto faticoso, è doloroso. Ma se non mostriamo i nostri figli, se non sfidiamo pregiudizi e incomprensioni, come possiamo sperare che la società si abitui a loro?
Come possiamo immaginare un mondo in cui non esista più un “Noi” e un “Loro”, ma un plurale magnificamente diverso? La sfida è questa: costringere la società a fare i conti con ciò che non conosce, educarla a riconoscere la diversità come valore e non come ostacolo.
Inclusione non significa solo inserire qualcuno in un contesto già esistente. Inclusione vuol dire trasformare quel contesto, renderlo nuovo, più giusto, più equo, capace di accogliere e valorizzare davvero le differenze. Non è un atto di generosità, non è un favore concesso. È un diritto inalienabile, sancito ma troppe volte negato.
La vera sfida non è “integrare” le persone autistiche, ma cambiare la società intera perché diventi davvero accogliente. E questo cambiamento parte da una responsabilità politica che deve finalmente tradursi in azioni concrete, in formazione capillare, in spazi accessibili, in leggi rispettate. Ma parte anche da una responsabilità sociale: imparare a guardare senza giudicare, ad accogliere senza pietismo, a condividere senza timore.
E noi familiari anche se siamo stanchi, dobbiamo restare visionari. Perché solo se continuiamo a sfidare gli sguardi, i giudizi, le incomprensioni, apriremo la strada a un futuro in cui inclusione non sia più un miraggio, ma una realtà concreta. Un futuro in cui la politica smetta di riempirsi la bocca di parole e cominci davvero a costruire giustizia. Un futuro in cui la società non si limiti a tollerare la diversità, ma la celebri come la sua più grande ricchezza.

Note:
(1)
Nell’età evolutiva, la maggioranza dei centri per l’autismo dichiara di erogare sia diagnosi che presa in carico/riabilitazione. Ma resta una quota significativa che offre solo diagnosi o solo presa in carico: si veda a questo link.
(2) Secondo l’Osservatorio Nazionale sull’Autismo (OssNA) dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), a marzo 2024 risultavano esserci 1.214 centri per la diagnosi e la presa in carico delle persone con disturbi dello spettro autistico (ASD) e altri disturbi del neurosviluppo (DNS). La distribuzione risultava fortemente squilibrata, con il 54% dei Centri al Nord, il 21% al Centro e il 24–25% al Sud e nelle Isole.
(3) In questa inquietante disamina gli autistici sono tutt’altro che soli, visto che – ad esempio – soltanto il 13,3% delle persone con sindrome di Down ha un contratto di lavoro (si veda, in proposito, la ricerca Non uno di meno realizzata dal Censis per l’AIPD nel 2022). Il lavoro resta ancora un miraggio per troppi. Eppure, a molte persone con la sindrome di Down non mancano certo il talento o la capacità di mettersi in gioco. E con loro quanti altri?

Vedi anche

La scuola e gli studenti con disturbo dello spettro autistico: ciò che serve per un cambiamento reale

Istituto Superiore Sanità. Autismo. Raccomandazioni per diagnosi e trattamento bambini e adolescenti

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