Data di pubblicazione: 24/10/2025
Numero accessi: 25

indietro

Decostruzione del caso sociale in sanità

La prospettiva di un assistente sociale, di Giorgio Zoccatelli, Assistente sociale specialista, Tutor Università di Verona, Laurea magistrale in ambiti complessi, In Scambi di prospettive

Quando incontriamo una persona, non entriamo in relazione solo con un individuo ma con una trama complessa fatta della sua storia, della sua cultura, dei suoi valori di riferimento, del suo modo di attribuire significato alla realtà, del contesto in cui è vissuto. Veicolo dell’incontro sono le parole: importanti, potenti, evocative, che sanano o feriscono, includono o squalificano, curano o stigmatizzano. Se poi parliamo di persone che per i motivi più diversi accedono ai Servizi sanitari e sociosanitari, il linguaggio è la prima forma di cura, di quel ‘prendersi cura’ che trascende il trattamento di un sintomo o di una malattia. Per questo quando in tali Servizi si sente l’affermazione “quello/a è un caso sociale”, sarebbe opportuno fermarsi e riflettere sul messaggio che si manda e sulle conseguenze di tale affermazione, che, se poi è fatta da un professionista che ricopre ruoli dirigenziali o didattici, assume apparente autorevolezza e validità.

Perché un tossicodipendente o un alcolista che si reca in un Pronto Soccorso per una crisi di astinenza dovrebbe essere definito un caso sociale? Con quale criterio un paziente con frattura del femore e decadimento cognitivo, impossibilitato a intraprendere un percorso riabilitativo, solo perché è privo di una rete familiare di sostegno viene etichettato come un caso sociale? Perché è tale la persona senza dimora che per una forma di psicosi non cura il diabete di cui soffre fino a subire l’amputazione di un arto? Pur non negando la rilevanza di problematiche socioassistenziali come solitudine, precarietà abitativa, povertà economiche e educative che caratterizzano la condizione di molte persone, non è possibile oscurare le tematiche sanitarie che portano le stesse ai Servizi per bisogni di tipo medico.

In un contesto sociale complesso come quello attuale, semplificazioni, etichette e frettolose deleghe ad altri di matasse ingarbugliate, trovano poca aderenza ai veri bisogni e alla natura interconnessa dei problemi e delle loro risposte. Come ricordano Camarlinghi, D’Angella e Floris, “il lavoro sociale è tale non tanto perché tratta problemi cosiddetti ‘sociali’ (la povertà, l’educazione, la disabilità…), ma per il modo in cui li tratta: mai privatizzandoli, mai sottraendoli dal contesto in cui prendono forma, ma sempre cercando di affrontarli dentro una trama ampia di cause, relazioni, apporti” (Camerlinghi, 2022).

In questa prospettiva, Folgheraiter sottolinea che “un problema sociale non è una cosa oggettiva che chiunque, diciamo, la veda per strada può prendere e risolvere. Non è neppure come il classico problema di matematica che gli studenti si trovano davanti a scuola e che ha sempre la sua implacabile soluzione in fondo al libro. Un problema sociale è un complesso di percezioni e valutazioni di inadeguatezza/difficoltà, cioè di vissuti connessi a dati o circostanze” (Folgheraiter, 1998, pag. 286). Per questo motivo, “nel lavoro sociale non si ragiona per categorie” (ibidem, pag. 265) dove l’unicità della persona è schiacciata dalla omologazione, dove i bisogni individuali sono standardizzati come anche le risposte, classificate e precostituite in una sorta di pacchetto preconfezionato pronto all’uso.

Alcolismo, tossicodipendenza e malattia mentale sono ambiti in cui lo stereotipo del caso sociale si manifesta con particolare forza: comportamenti percepiti come bizzarri, evitanti, aggressivi o violenti sono spesso giudicati come maleducati e inopportuni, fino ad essere considerati delinquenziali con annesse conclusioni. In questi casi la difficoltà di gestire rapporti sociali, ruoli e relazioni a causa di elementi complessi (biologici, contestuali, patologici, familiari, …) viene semplificata e derubricata a devianza, antisocialità, colpa personale, in una gabbia che oscura basi sanitarie arrivando in maniera più o meno esplicita a pensare all’esclusione anche fisica di queste persone. Come sottolinea Goffman, “lo stigma è un tipo di rapporto sociale, non un attributo in sé” (Goffman, 1963). In questo senso è significativo osservare che direttori e dirigenti di Servizi di alcologia, dipendenze e salute mentale siano generalmente (e non a caso) professionisti di formazione sanitaria come medici e psicologi.

Il DSM-5-TR (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Text revision. V Edizione) (Nicolò, Pompili, 2023), manuale di riferimento internazionale per il mondo della medicina e della psicologia, mette al centro dimensioni come quella clinica, biologica, psicologica che cercano di spiegare e interpretare comportamenti e patologie alla luce delle conoscenze scientifiche. Dire che una persona che presenta un disturbo psichiatrico, che fa uso di alcol o che è dipendente da sostanze sia un caso sociale significa attenzionare condizioni esterne alla persona (questioni economiche, problemi familiari, disoccupazione, …) o anteporre un presunto giudizio morale e di colpa, come se il problema fosse solo di scelte personali, di ambiente sociale e familiare negativo: alcol, sostanze psicoattive e disturbi mentali impattano certamente su relazioni familiari, lavoro, questioni economiche piuttosto che abitative, ma vi è di base un misto di problemi come alterazioni di neurotrasmettitori e circuiti cerebrali, deliri, allucinazioni, craving, astinenza, dispercezioni e molto altro che devono avere la giusta considerazione. Ad esempio, sempre con riferimento al DSM-5-TR, nella diagnosi di Schizofrenia i criteri clinici (deliri, allucinazioni, disorganizzazione del pensiero) si completano con quelli di compromissione del funzionamento lavorativo, scolastico o sociale; nella diagnosi di Disturbo da Uso di Alcol si intrecciano dimensioni sanitare – biologiche (tolleranza, astinenza, … ), psicologiche (craving, perdita di controllo, … ) e sociali – comportamentali (problemi lavorativi, familiari, scolastici, abbandono di attività sociali, … ). La relazione tra questi elementi è estremamente complessa e tutt’ora oggetto di ricerca scientifica; tuttavia, la persona che si presenta in Pronto Soccorso in crisi di astinenza o con un TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio) deve essere vista e gestita innanzitutto come caso clinico e con la dignità di persona; solo in un secondo momento si potranno affrontare tematiche sociali o assistenziali, mentre mai dovrà essere derubricata e semplificata a caso sociale. 

Un’ulteriore conferma della natura impropria del termine caso sociale emerge sul piano istituzionale e amministrativo a partire dall’ICD-9-CM, la “Classificazione delle malattie, dei traumatismi, degli interventi chiurgici e delle procedure diagnostiche e terapeutiche” del Ministero della Salute: si tratta di un sistema di codici che permette di standardizzare diagnosi mediche, interventi e procedure per stabilire i rimborsi esigibili dagli ospedali al Servizio Sanitario Nazionale. È interessante notare che la parola “sociale/sociali” nelle 1120 pagine dell’ICD-9-CM compare 111 volte con varie accezioni (sociale, asociale, psicosociale, socializzazione, antisociale), ma mai compare il caso sociale anche laddove le problematiche assistenziali sono rilevanti: si tratta della sezione dei codici “V” dal 60 al 63, utilizzati per giustificare quei ricoveri che si prolungano significativamente per motivi familiari o problemi sociali. Alcuni esempi: V60.0 Mancanza di abitazione; V60.1 abitazione inadeguata; V60.2 risorse materiali inadeguate; 60.4 mancanza di un familiare capace di prestare cure; V61.11 Abuso da parte del coniuge o del partner; V61.41 Alcolismo in famiglia; V63.2 Persona in attesa di ricovero in altro istituto più adeguato. Normalmente questi codici sono secondari alle diagnosi principali: difficilmente una persona accede ad un Pronto Soccorso o viene ricoverata unicamente per assenza di rete familiare, di risorse materiali o di una abitazione, mentre è più probabile che siano problematiche originate da un accesso per motivi sanitari (una caduta, uno stato confusionale, eventi neurologici o in generale internistici). Quindi anche in tale istituzionale e fondamentale manuale per la sanità (per la classificazione clinica ma anche per le implicazioni economiche), non è previsto il caso sociale, definizione che rappresenta una scorciatoia comunicativa che cela una valutazione implicita di non-pertinenza medica per cui il paziente diventa un “problema di qualcun altro”; tuttavia è evidente che tale categorizzazione riduce la natura complessa delle situazioni con meccanismi di delega e trasferimento della responsabilità dell’intervento scotomizzando le questioni sanitarie.

Un’utile precisazione è la distinzione tra problemi sociali e bisogni sociali. I primi (disoccupazione, povertà, violenza di genere, discriminazioni, disuguaglianze e marginalità, solo per accennarne alcuni) sono fenomeni osservabili, quantificabili e attenzionati da sociologi, psicologi, epidemiologi che rilevano numeri, tendenze, orientamenti. Tra l’altro toccano trasversalmente diversi ambiti e fasce di persone fragili della popolazione: minori, adolescenti, anziani, donne, persone con disabilità e le loro famiglie, rifugiati e migranti. I bisogni sociali appartengono invece delle singole persone, sono sempre diversi e, se messi in relazione con eventuali problematiche di salute, moltiplicano le difficoltà e rendono meno lineare il percorso di cura. Da questo punto di vista è inevitabile adottare una prospettiva sistemica: come ricorda Folgheraiter, “mettere l’accento sulle interconnessioni fra le parti che costituiscono la persona richiama la nozione di sistema. […] L’idea di sistema fa pensare che dentro la persona esista un meccanismo obbligato per cui, quando uno squilibrio o un deficit si produce in una parte, questo squilibrio si ripercuote sulle altre” (Folgheraiter, op. cit., pag. 112). È la logica ecologica, bio-psico-sociale, visione che rappresenta una conquista delle società moderne che vede come necessaria una fattiva integrazione sociosanitaria, superando approcci frammentati e parziali.

Proseguendo l’analisi della questione sul piano normativo, è essenziale citare il D.P.C.M. 14 febbraio 2001 (Atto di indirizzo e coordinamento in materia di prestazioni sociosanitarie): questo provvedimento, nel tentativo di superare la storica contrapposizione tra sociale e sanitario, ha di fatto messo ordine su alcuni aspetti dando delle precise definizioni e attribuendo relative responsabilità. L’articolo 3, denominato “definizioni”, chiarisce tre livelli distinti di intervento:

  1. Prestazioni sanitarie a rilevanza sociale: si tratta di prestazioni assistenziali che, erogate contestualmente ad adeguati interventi sociali, sono finalizzate alla promozione della salute, alla prevenzione, individuazione, rimozione e contenimento di esiti degenerativi o invalidanti di patologie congenite o acquisite. Sono di natura sanitaria, quindi di competenza delle ASL, ma hanno anche un importante impatto sulla vita sociale e relazionale. Esempi possono essere: l’ADI (Assistenza Domiciliare Integrata) per malati cronici o anziani fragili; i trattamenti sanitari in strutture residenziali o semiresidenziali come le RSA/Centri Servizi; le vaccinazioni; un ricovero in Hospice e le cure palliative.
  2. Prestazioni sociali a rilevanza sanitaria: attività del sistema sociale che hanno l’obiettivo di supportare la persona in stato di bisogno, con problemi di disabilità o di emarginazione che condizionano lo stato di salute. Sono attività di competenza dei Comuni, prevedono la compartecipazione alla spesa da parte dei cittadini e rispondono a bisogni connessi non solo alla dimensione sociale, ma anche alla salute complessiva della persona.
  3. Prestazioni socio-sanitarie ad elevata integrazione sanitaria: si tratta di interventi caratterizzati da particolare rilevanza e intensità terapeutica e da un’inscindibile integrazione tra sanitario e sociale. Riguardano prevalentemente aree quali: materno-infantile, anziani, handicap, patologie psichiatriche e dipendenze da droga, alcol e farmaci, patologie per infezioni da H.I.V. e patologie terminali, inabilità o disabilità conseguenti a patologie cronico-degenerative. Dette prestazioni sono erogate dalle ASL e sono a carico del fondo sanitario. Esempi: progetti terapeutico-riabilitativi per persone con disturbi mentali gravi, programmi di assistenza integrata per disabili gravissimi, il reinserimento sociale per persone con dipendenze.

Questo DPCM, in sostanza, non separa mai in modo netto la dimensione sociale da quella sanitaria, chiarendo le competenze e le responsabilità. Sociale e sanitario sono posti in relazione costante, con un equilibrio che può pendere di volta in volta da una parte o dall’altra, ma senza che una dimensione escluda l’altra.

La questione può essere vista anche attraverso la lente della teoria della Street-Level Bureaucracy (SLB) di Michael Lipsky: secondo questa prospettiva i professionisti della cura (medici, infermieri, assistenti sociali, educatori, …) esercitano in realtà un’importante discrezionalità operativa nel gestire situazioni complesse, costruendo interventi personalizzati che non si limitano a ‘risolvere problemi’ o a ‘erogare prestazioni’ secondo protocolli standardizzati; pur agendo in una cornice normativa e con dei vincoli istituzionali, aprono di fatto percorsi interpretando bisogni contestualizzati e unici, agendo la discrezionalità possibile. Tuttavia, gli attuali assetti organizzativi orientati all’efficienza e alle logiche aziendali, vedono nell’etichetta del caso sociale una de-responsabilizzazione dei sanitari, una sorta di contenitore opaco in cui inserire tutto ciò che non si presenta come chiaramente patologico. In tal senso, lavorare in un’ottica di SLB significa rinegoziare continuamente con l’organizzazione, per orientare lo sguardo collettivo alla complessità delle situazioni e promuovere interventi integrati, realistici e coerenti con i principi della cura

Dall’analisi fin qui condotta appare chiaro che la semplificante classificazione di caso sociale tende a delegare la responsabilità dell’intervento a figure non sanitarie, riducendo la reale complessità dei bisogni della persona a una categoria; si tratta nello specifico di un meccanismo funzionale a chi formula l’etichetta perché permette di sottrarsi a responsabilità ulteriori, come ad esempio nel caso di un ricovero prolungato oltre la fase acuta.

Questo approccio parte da una visione costruttivista della realtà: la realtà sociale non è data e determinata una volta per tutte e uguale per tutti, ma presenta connotati che si costruiscono attraverso iterazioni e attribuzioni di significati veicolati dalla narrazione di storie di vita più che da ‘casi’ o generalizzazioni. In questo senso il linguaggio è particolarmente importante perché non solo descrive, ma può condizionare la creazione di categorie, che per la questione in oggetto è discutibile sia su un piano di realtà che su quello etico-deontologico. Realtà e fatti che sono anche in movimento perché, al contrario di un’etichetta che cristallizza la situazione, un buon assesment, ovvero una buona valutazione, fa luce anche sulle potenzialità da sviluppare, sulle capacità residue, sui punti di forza su cui lavorare per agire il cambiamento. Se poi anche la persona dovesse sentirsi nominare come caso sociale, non sentirebbe neppure quella spinta ad uscire dalla propria posizione, incastrata in un circolo vizioso tra l’attribuzione di un’immagine negativa e la identificazione nella stessa. Per questo, la presente decostruzione va nella direzione del ‘Servizio sociale anti-oppressivo’: un approccio che invita a mettere in discussione le narrazioni dominati, scontate e legittimate da logiche di potere, per esplorare invece diverse possibili prospettive e interpretazioni (Fook, 2022). Un posizionamento che promuove inclusione, riflessione critica e giustizia sociale.

In conclusione, decostruire la categoria caso sociale è un passo fondamentale verso una presa in carico multiprofessionale realmente integrata, riflessiva, non delegante, rispettosa della complessità delle persone e di tutte le sfaccettature delle fragilità, obiettivo e senso autentico del lavoro dei Servizi di Welfare. Come ricorda Folgheraiter, “come tutte le cose, soprattutto nell’intervento sociale, partire con il piede giusto – con lo sguardo giusto – è essenziale. […]. I problemi di attinenza degli operatori sociali, a fronte dei quali si attivano, devono essere in effetti osservati/pensati come fenomeni compositi […]: non sono problemi di individui, come vorrebbe la psicologia, né problemi di strutture o entità collettive, come vorrebbe la macrosociologia […]. Una volta messi a fuoco nella loro esatta caratura, i problemi ‘ringrazieranno’ l’osservatore lasciandosi lavorare con maggiore proprietà ed efficacia.” (Folgheraiter, op. cit., pag. 267-268). Solo restituendo centralità alla complessità della valutazione e ai suoi aspetti situati si potrà evitare che il caso sociale diventi un’etichetta vuota, utile solo a gestire la pressione del tempo e delle risorse.

Bibliografia


LA RICHIESTA DI SOSTEGNO del Gruppo Solidarietà 

Altri materiali nella sezione documentazione politiche sociali

La gran parte del lavoro del Gruppo è realizzato da volontari, ma non tutto. Se questo lavoro ti è utile  PUOI SOSTENERLO CON UNA DONAZIONE e CON IL 5 x 1000.

5x1000

 Clicca qui per ricevere la nostra newsletter


Adempimenti legge 4 agosto 2017, n. 124


Il nostro Bilancio


60030 Moie di Maiolati (AN), via Fornace, 23


(+39) 0731 703327


grusol@grusol.it

Il materiale elaborato dal Gruppo Solidarietà presente nel sito pụ essere ripreso a condizione che si citi la fonte

-


IBAN IT90 V050 1802 6000 0002 0000 359 (Banca Etica)


Iscrizione al RUNTS, decreto n. 212 del 14/09/2022