Data di pubblicazione: 22/08/2017
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Centro diurno per persone con disabilità intellettiva. Servizio o struttura?

Mario Paolini, Pedagogista, formatore, Treviso, in, Appunti sulle politiche sociali, n. 4/2015

Pensiamo valga la pena continuare a riflettere su un servizio importante come il centro diurno. Cosa chiedere ad un intervento di questo tipo. Con quali questioni oggi è chiamato a confrontarsi? Ci siamo confrontati con Mario Paolini (intervista a cura di Fabio Ragaini)

Se dovessi, a partire dalla tua esperienza, descrivere i tratti caratteristici del centro diurno che hai conosciuto oltre venti anni fa e di quelli che vedi e frequenti oggi, come li raffigureresti? Secondo Mario Paolini come dovrebbe essere un centro diurno?

Parto dalla seconda domanda perché forse è un piccolo specchio di dove siamo oggi. Non è molto importante come dovrebbe essere per me un centro diurno, perché il mio è solo uno dei tanti punti di vista; mi sembra più importante riflettere sul fatto che abbiamo un po’perso la capacità di condividere  pensieri e idee, ciascuno si tiene il suo. Mi chiedo spesso se chi ci lavora dentro se la pone la domanda che tu poni a me: per lui che cosa è un centro diurno? Se la pongono reciprocamente le persone che ogni mattina aprono i cancelli? Lo pensano, ci pensano? Riescono ancora a parlarne tra loro oppure si è smesso e non è chiaro né quando né perché? Si è smesso di pensare o è la comunicazione di rete che non funziona? Mi piacerebbe che tutti quelli che stanno leggendo questo articolo vi scrivessero subito dicendo “io lo penso così, noi la pensiamo così…”, senza essere spettatori del pensiero di altri. 

Per rispondere alla domanda che poni io credo che prima di tutto ci dovrebbero essere più occasioni per discutere, condividere, incontrarsi. Ogni educatore e operatore dovrebbe già ben  sapere che è un errore metodologico non condividere la parzialità dei punti di vista di fronte a qualcosa, quando si cerca la conoscenza e le risposte alle situazioni che si affrontano; forse lo sappiamo che è un errore ma anche sapendolo non riusciamo ad andare oltre.  Così, e inizio a rispondere alla prima domanda, mi capita di vedere più spesso di tempo fa centri diurni dove le attività che si fanno rispondono al “secondo me” di diversi soggetti, stakeholders si chiamano, che poi vuol dire portatori di interessi, e vuol dire tutti ma proprio tutti: un genitore, un presidente, un operatore; a volte senza avere un progetto dietro, senza una identità. Per avere una identità bisogna avere una storia diceva Enrico Montobbio, per poter dire “io sono” bisogna rispecchiarsi in quel che gli altri pensano: credo che una rilettura del capitolo “un sopralluogo a The Never Land” del bellissimo “Chi sarei se potessi essere” scritto da Montobbio e Lepri nel 2000 ci permetta di cogliere quale era e quale è rimasta una delle principali criticità in cui rischiano di impantanarsi molte strutture, essere dei non-luoghi. Ti sto dicendo che mi sembra che alcune cose non sono cambiate e questo è un problema, perché manca la dimensione del tempo, non a caso l’invecchiamento è ancora un tema critico. Così penso che dobbiamo aiutare chi lavora nei centri a ri-trovar-si, a conoscere e raccontare la propria storia, le storie delle persone che sono passate di lì, ma allo stesso tempo guardando avanti, immaginando futuro. A volte vedo stanchezze, routine, difficoltà di comunicazione e di relazione interne ai gruppi, solitudini. Sembra aumentata la distanza tra la dimensione progettuale e la quotidianità: la prima è spesso molto avanzata sulla carta, documenti e analisi innovative si sprecano, ma la seconda è spesso distante dai progetti su carta, affaticata. Ma non è solo “colpa dei centri”, ci sono anche responsabilità diverse, a cominciare dalla formazione universitaria o dei corsi per gli OSS, ma subito dopo penso a me che mi occupo di formazione: che responsabilità ho io in ciò che sta succedendo e cosa posso fare? Esula dalla domanda ma vorrei dire che una condizione analoga secondo me la sta vivendo la scuola inclusiva, gli insegnanti che forse in modo semplicistico vorrei ricomprendere sotto la parola bravi, i bravi insegnanti che fanno buona scuola. Magari più avanti riprendo la questione, perché penso sia importante parlarne, a questo pensavo quando ho scritto il libro “disabilità e qualità dell’incontro”: nell’agire di rete tutto gira attorno all’incontro.

Non voglio però dare l’impressione di uno sguardo inutilmente pessimista, credo che ci siano molte cose che si possono fare e che vadano fatte adesso; una tardiva prevenzione ma pur sempre una prevenzione. Se non si interviene invece credo che qualcosa di fondante andrà perso e per rimediare si spenderà di più e ci vorrà più tempo. Sembra che parliamo di altre cose, dell’ambiente, della pace, del civismo; ma non è strano perché stanno insieme: la cultura dell’inclusione è cultura della pace, del civismo; l’agire inclusivo è un agire ecologico e si fonda sul rispetto dell’ambiente. Bisogna conoscere da dove si viene, chi c’era prima di me, perché sono state fatte certe scelte e non altre. Io ho iniziato a lavorare sistematicamente con persone adulte con disabilità nel 1996, prima mi ero occupato prevalentemente di bambini. La presidente dell’Anffas di Mestre mi chiese se ero disposto a entrare in un progetto per la realizzazione di un centro diurno “innovativo”, voluto dal Comune di Venezia. Erano anni in cui l’assessore alle politiche sociali era Gianfranco Bettin e il Comune investiva nel sociale una parte importante del proprio bilancio. La Dirigente si chiamava Francesca Corsi, dal carattere difficile ma certamente una delle persone più competenti che mai ho incontrato, capace di visioni alte. Fu una bellissima esperienza, ora cancellata e dimenticata. Non sono tanti anni fa, eppure  c’erano ancora persone “nascoste in casa”; mi ricordo di una signora con gravi pluridisabilità che stava in una cameretta sempre in penombra, in un lettino da bambini con le sponde in cui anche volendo non avrebbe potuto stendere del tutto le gambe. Ci vollero mesi di paziente lavoro perché accettasse con meno paura la presenza di altri, delle luci, delle voci, dell’aria perché bastava un soffio per farla andare in crisi. All’inizio della storia, fine anni ’70, erano solo i disabili più in gamba che uscivano di casa e dopo la scuola frequentavano i centri diurni; gli altri stavano in istituto o nascosti in casa. I centri diurni nacquero come “istituti feriali” e il nome la dice lunga, le proposte erano di tipo laboratoriale e coinvolgevano persone, per lo più volontari, che avevano competenze specifiche laboratoriali e qualche attitudine nello stare con i diversi. D'altronde anche nei manicomi di inizio ‘900 c’era l’infermiere cuoco, l’infermiere falegname, l’infermiere addetto alla caldaia, l’infermiere manutentore e così via. Negli anni ’90 si è dato spazio crescente anche alle persone con gravi disabilità, sia dal punto di vista cognitivo-neuromotorio sia sul piano comportamentale. I centri offrivano delle buone risposte e aumentava il numero di persone che ne facevano richiesta. È evidente che l’equilibrio iniziale era già saltato e che i crescenti problemi di gestione quotidiana, esplosi per un verso quando è cominciata la crisi economica e parecchie aziende che fornivano lavoro ai laboratori dei centri chiusero o delocalizzarono la produzione, mostravano l’impossibilità di proseguire con un modello operativo-progettuale non più adeguato ai bisogni e alle caratteristiche delle persone.

Vorrei introdurre un altro elemento che mi sembra importante: l’età. Gli anni passano per tutti, ogni centro all’inaugurazione aveva operatori e operatrici molto giovani, oltre agli obiettori di coscienza (che non ci sono più ed è un grande sbaglio secondo me) ed era relativamente facile organizzare i soggiorni e un sacco di cose che si possono fare quando hai vent’anni. Ma ora che anche l’età media delle persone che lavorano nei centri si è molto alzata, sull’invecchiamento delle persone con disabilità ho già detto, non è proprio semplice fare le stesse cose: d’altra parte non credo sia giusto un modello per cui l’educatore a vent’anni fa i soggiorni e a quaranta sta chiuso in una stanza o è dietro una scrivania, cosa che ho visto spesso soprattutto nel pubblico. Si tratta di un modello che ha aumentato la distanza tra educatori e operatori (fenomeno comune pur tra le differenze di organizzazione  e attribuzioni di ruolo presenti in regioni diverse tra loro) lo stesso modello per cui a sentire certi psicologi, si lavora con la disabilità solo all’inizio per farsi un po’ di esperienza, ma poi il lavoro vero è con i pazienti, altra cosa. Assomiglia al modo con cui si pensa all’insegnante di sostegno, con cui molti insegnanti pensano a se stessi.

La domanda quindi diventa: come deve essere un centro diurno con operatori cinquantenni accanto ai ventenni, persone che lo frequentano molto diverse tra loro per età, caratteristiche, bisogni, famigliari molto anziani accanto ad altri giovani. Come mai i problemi paiono essere sempre gli stessi, a cominciare dalla difficoltà di fare rete tra colleghi e poi all’esterno, con chi è venuto prima e con chi verrà dopo? Un intero approccio, quello che sta dietro i centri diurni, basato sulla relazione ed evidentemente affaticato proprio dall’obbligo di essere costantemente in relazioni non scelte, a volte mal sopportate. Credo sia importante e urgente fare una buona manutenzione.

Il centro diurno e il rapporto con il territorio, con la comunità di appartenenza.  Chiusura ed apertura del Centro. Le - e quali - competenze degli operatori. Vorrei che sulle singole questioni tratteggiassi, possibilità e rischi. E quanto secondo te si investe sulla “qualità di vita”.

Quella del rapporto con il territorio è secondo me una delle cose che meritano maggiore attenzione per cercare il significato profondo di questa relazione, che non va dimenticato è stata la grande innovazione dell’ICF, senza accontentarsi  di comodi rituali, le feste ogni tanto, le celebrazioni del trentennale... Da sempre, uno dei criteri richiesti ai centri è di essere in un ambiente reale, ma non basta fisicamente essere vicini ad altre case, scuole, piazze: bisogna essere capaci di pensarsi come uno degli elementi dell’ambiente, non ospiti e non sconosciuti. In realtà è più semplice agire facendo anche bene le cose ma tutto “dentro”, mentre è un pochino più scomodo agire in modo inclusivo, perché oltre a preoccuparsi che le persone disabili stiano bene tocca occuparsi della gente. Anche in questo ho la sensazione che ci siano tutti gli strumenti per fare più e meglio di come si fa, deve essere un cambiamento che parte dall’interno, per dirla con parole che ho sentito spesso dire da Mariena Scassellati, storica presidente de La Bottega del Possibile di Pinerolo, bisogna occuparsi contemporaneamente dell’interno e dell’intorno per trovare l’intero.

Però è allo stesso tempo la cosa più importante e forse più bella dell’agire educativo: contribuire con ciò che si fa a costruire una cultura inclusiva, essere consapevoli di agire un lavoro politico che fa pensare la gente, e che se la gente smette di pensare inclusivo, di desiderare e di sentire proprio un modello inclusivo allora prevale il deserto dell’avarizia. Non importa che sia tanta gente, penso che la cultura inclusiva sia cultura di minoranza e non mi preoccupa questo, mi preoccupa che sparisca per sfinimento di qualcuno e per poca conoscenza di altri.

Provo a fare qualche esempio: di solito quando incontro dei gruppi di operatori in formazione chiedo sempre “cosa ne sa di voi e di cosa succede qui dentro la signora che abita di fronte?” Non di rado la risposta è un silenzio. Quando incontro insegnanti che fanno dei corsi di specializzazione o qualche volta insegnanti che operano nel sostegno da tempo, chiedo loro “ma cosa offre il territorio intorno alla scuola, cosa succede nei pomeriggi, la domenica. Cosa farà Mario finita la scuola?” I genitori se lo chiedono tutte le mattine, sono sempre più convinto che molte persone con disabilità fanno lo stesso. 

A volte ho l’impressione che siano gli educatori ad avere smarrito l’identità di sé nel lavoro con le persone disabili che frequentano i centri: la confusione tra l’educatore animatore, l’educatore progettista, l’educatore sanitario, l’educatore di strada, l’educatore socio-qualche-cosa, va affrontata secondo me. Adesso faccio una affermazione un po’ forte ma la penso: gli operatori e i servizi che maggiormente lavorano per il dentro anziché per il fuori sono quelli maggiormente protetti e garantiti. Mancano le motivazioni, la fame come diceva Steve Jobbs (stay foolish stay hungry), per guardar fuori, per lavorare in modo diverso. In certi casi si dovrebbe intervenire drasticamente, difendere tutto e tutti è un errore che alimenta dal di dentro la cultura del pietismo verso i disabili e dell’eroismo per chi se ne occupa.

La questione della qualità della vita è un'altra cartina da tornasole del come vanno le cose. Se ne parla tanto, a volte sembra un nuovo mantra; ma a che serve fare molta formazione se poi chi va in formazione non riporta ciò che ha imparato? Se dal giorno successivo non si sperimentano modelli diversi? Se non si capisce che per lavorare sulla qualità della vita bisogna frugare in tasca anche a se stessi? Io credo che la questione sia anche legata alle rappresentazioni mentali della persona con disabilità, e sappiamo che sono difficili da modificare. Posso migliorare la qualità di vita di una persona se questa domanda di qualità è al centro dei progetti e se c’è un  continuo monitoraggio che oltre a dire qualcosa su come sta quella persona rende via via più normale il porsi la domanda per tutti. La qualità della vita, la qualità dell’inclusione, la qualità del territorio vanno insieme, non servono più soldi ma un po’ più di tempo e un approccio politico al tema, come disse don Milani “ho imparato che il mio problema è uguale a quello degli altri. Sortirne da soli è l’avarizia, sortirne insieme è la politica”. Sembra che l’avarizia stia vincendo, ma manca ancora alla fine del secondo tempo, bisogna giocare.

Prima del Centro c’è la scuola, dopo, spesso c’è la comunità. Prima e dopo c’è la persona e il suo nucleo familiare.

Un genitore se lo chiede che cos’è un centro diurno, in che posto manda il proprio figlio. Se lo chiede tante volte e quel che ci sta dietro è un mondo complesso che si chiama fiducia. Fiducia che sei obbligato a dare. La scuola è stato il trauma precedente, perché è quando tuo figlio va a scuola che diventa più evidente la disabilità, la distanza rispetto agli altri bambini, e questo fa male. Dura poco la scuola, crescono in fretta e tocca fidarsi di altri, ricominciare ancora con altre persone luoghi, orari. Dovremmo pensarci un po’ di più, non servono solo i manuali da studiare, bisogna imparare ad ascoltare. Ci sono anche romanzi che aiutano a pensare, come “Tempo di Imparare” di Valeria Parrella, un libro che mi ha lasciato senza fiato. Non si pensa mai volentieri alla comunità residenziale perché è pensare alla propria morte, a quel che arriva dopo, dopo di me; anche si fa tutto razionalmente bene non si può far finta che il costo emotivo sia poco. L’altra comunità, quella che accompagna tutte le fasi della vita, quella a cui si desidera appartenere, resta un sogno irraggiungibile a volte. Provo a riavvolgere il nastro del progetto di vita e penso che sarebbe un utile esercizio per l’educatore rivedere le vite all’incontrario per pensarne altre di altri nel loro verso; andare a dormire fuori di casa dovrebbe essere una normale “attività” dei centri diurni, avere una rete di strutture residenziali  dove portare a dormire le persone per una notte, due. Pensa che potenti contesti osservativi sarebbero e quanto lavoro si potrebbe definire partendo da lì; allo stesso tempo così facendo si renderebbe un pochino più normale lo stacco dalla famiglia, perché è sano lo stacco, anche se spaventa, anche se sembra proprio impossibile va fatto; perché non farlo, rinviarlo sinedie, è malsano.

Quanti anni sono che ce lo diciamo? Ti racconto un fatto accaduto a dei genitori di una persona disabile: sono diventati proprio vecchi, non ce la fanno più e i servizi offrono un posto al loro figlio in una struttura residenziale. Il papà si sente dire che potrà andare a trovare il proprio figlio due volte la settimana per un’ora. Ecco, io mi chiedo se non dovremmo tutti chiedere scusa a quel genitore; vorrei discutessimo se ci va bene una regola del genere, se bisogna adattarsi, capire,  o se invece regole simili vanno respinte perché sono un insulto.

E poi come dici tu c’è la persona e non è che basti dare risposte alle famiglie se per farlo evitiamo il confronto con il reale “consumatore finale” di tutti questi progetti. Penso che ogni giorno dovrebbe esserci chi chiede “Come va?”, ma autenticamente, prendendosi il tempo per la risposta, quale che sia il modo e il tempo necessario perché essa arrivi. Non lo si fa tutti in cerchio all’arrivo del pulmino in attesa della prima merenda; lo si fa dando voce alle persone con disabilità, dando ascolto al non-previsto. Non lo si fa trattando persone adulte-invecchiate come bambini da sgridare se non fanno cose per benino, lo si fa favorendo la costruzione di un sé autentico e contrastando gli innumerevoli falsi sé (ancora Montobbio) che spesso caratterizzano la vita di molte persone con disabilità intellettiva.

Criteri di accesso e scale di valutazione. Qual è la tua opinione in proposito. Tu vivi in una Regione che, se non sbaglio, sta utilizzando una scala (Svama disabilità)

Premetto che non sono un esperto della questione e che potrei dire delle inesattezze. Penso sia stato importante definire dei criteri di valutazione condivisi che portano anche a definire delle previsioni di spesa; era intollerabile che nel raggio di pochi km ci fossero delle rette significativamente diverse a parità di condizioni. Mi chiedo se non si dovrebbe adottare lo stesso criterio per i gestori dei servizi, in modo da contrastare le gare al massimo ribasso, lo sfruttamento del personale e le inevitabili gravi conseguenze sulla qualità erogata. Quel che forse andrebbe meglio discusso è l’evidente distanza tra il mondo della sanità e il mondo del sociale e credo che quest’ultimo abbia delle responsabilità in tal senso; la domanda se la persona con disabilità sia oggi un peso o una risorsa ha molteplici risposte, molte delle quali potrebbero essere orientate in un orizzonte positivo e costruttivo, ma ho l’impressione che anche tra molti addetti ai lavori la risposta, non detta, sia che sono un peso: che partita giochi se non ci crede per primo il giocatore?.

Gli strumenti oggi in essere rispondono in primis a un bisogno di contenimento della spesa ma poi bisogna vedere chi li applica e come: ho visto dei documenti in cui persone con gravi disturbi del comportamento, per intendersi quelli difficili, vengono definiti come “medi” con rette e rapporti operatore utente francamente impossibili se non aumentando un uso  dei farmaci che non mira allo star bene della persona ma solo per riuscire a galleggiare. So che ci sono diverse istanze di revisione di casi e sono prevalentemente per persone con quel tipo di problemi. La cosa è stranamente simile a quel che avviene con gli anziani con demenza; quando il disturbo comportamentale è evidente e certificato, e questo accompagna una lunga e devastante fase (per le famiglie in primis) del decadimento, le persone entrano in un girone in cui solo alcune strutture specializzate se ne possono far carico. Tuttavia finché non peggiorano drasticamente le condizioni di salute il punteggio resta quello e le persone restano indietro in graduatoria in attesa della morte di altri per liberare posti. Invece proprio quello sarebbe il periodo in cui c’è più bisogno di risposte condivise. Sai, penso che ci dovrebbero essere più sinergie tra chi si occupa di disabilità e chi del decadimento cognitivo dell’anziano, per curare meglio di come si fa ora l’invecchiamento delle persone con disabilità, e qui ritorno all’urgente necessità di rivedere gli approcci alle attività che si fanno sempre uguali da vent’anni.

Tornando alle scale ti devo dire anche qual è la mia diffidenza. Non mi lasciano indifferenti le riflessioni di persone che da anni, tanti anni sono nell’ambiente;  Raffaele Iosa è uno di questi e il suo scritto “I dilemmi della pedagogia difensiva” (in questo numero a pagina 11), riprende questioni che non hanno ancora risposta: cos’è successo per passare nel giro di trent’anni da un bambino autistico su 1000 nati a uno su 80? Cosa sta succedendo nella crescita esponenziale di bambini con disturbi della condotta? Quando faccio formazione mostro sempre un’immagine con dei bambini, sono immagini dell’800, gli sguardi sono rivolti verso il basso, la bocca all’ingiù, non c’è allegrezza in loro. Chiedo ai presenti di dire cosa stanno vedendo e poi inserisco nell’immagine la didascalia del libro: c’è scritto “Tipi di fanciulli delinquenti” e quel libro era l’atlante dell’uomo criminale di Cesare Lombroso. Anche quella era scienza, solo che tra le persone a cui finora ho mostrato le immagini a nessuno mai è venuto in mente di essere al cospetto di fanciulli delinquenti. Tutti però comprendevano che, un istante dopo che la comparsa della scritta sotto l’immagine, diventava impossibile guardare i bambini senza essere condizionati dall’etichetta/diagnosi. Questo è il grande rischio che a mio avviso stiamo correndo: spezzettare sempre più le diagnosi nell’incapacità di stare di fronte a un bambino e ai suoi problemi. Non è facile, proprio non lo è, avere davanti un ragazzino con disturbi del comportamento; non è facile avere in un centro una o più persone in cui il quadro di disabilità ha dei colori con delle tonalità che spaventano gli altri, perché mena o si fa male.

Invece di fare lo spezzatino dei segni sintomo bisogna tenere insieme le cose, perché è anche un ambiente adeguato che fa la differenza e dell’ambiente fanno parte le persone, le relazioni, suoni luci odori. La qualità di vita si modifica con organizzazioni capaci di adeguarsi anche a nuovi orari, nuovi modelli di presa in carico; lo spazio c’è, avverto da un lato il rischio di sanitarizzare la cura ma per altro verso c’è tutto lo spazio per provare a fare cose diverse, la normativa stessa lo richiede, ma le resistenze sono anche da dentro: ecco perché prima dicevo che bisogna aiutare gli operatori a ripensarsi, mica dobbiamo farli sentire in colpa, fanno un lavoro duro e spesso malpagato, ed è un lavoro, non una missione.

Vorrei dedicare due righe conclusive al problema dei ragazzi con lievi disabilità, quelli che non devono (mai più) andare in un centro diurno ma a cui dobbiamo offrire qualcosa di più di una borsa lavoro da pochi euro al mese. È dura abitare vicino al confine della normalità e sapere che non sarà mai possibile avere il passaporto. Costruire una scuola inclusiva giorno dopo giorno, serve a rendere meno dura questa immagine di sé; coinvolgere gli altri, anche quelli ostili non solo quelli facilmente disposti ad ascoltarti e a darti ragione solo perché diciamo cose belle, serve a costruire un ambiente per tutti. Non credo che servano risposte specialistiche ma un continuo intreccio per costruire un paese inclusivo per tutti, come dice Andrea Canevaro, “disabili inclusi”.

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