È di scena la commissione per il suicidio assistito di Sandro Spinsanti, Fondatore e direttore Istituto Giano per le medical humanities, www.sandrospinsanti.eu. In, ilpunto.it. Dunque, stando alle recenti notizie di stampa, pare che nei piani alti della politica si stia lavorando di buzzo buono per trovare una regolamentazione giuridica del fine vita, come già fortemente sollecitato dalla Consulta. Tra le proposte relative alla questione spinosissima del suicidio medicalmente assistito è trapelata quella di costituire “un organismo valido per tutto il territorio nazionale”, i cui componenti saranno scelti attraverso un decreto del presidente del Consiglio, che avrebbe il compito di decidere chi ha il diritto di accedere a questa modalità di porre fine alla vita e chi invece no. Sorge qualche interrogativo, a cominciare dal nome. Come chiameremo questo organismo? Comitato? Beh, qui incappiamo in qualche resistenza. Non è che i comitati godano di ottima reputazione nell’opinione pubblica. C’è chi sostiene che il cammello sia un cavallo disegnato da un comitato… E soprattutto pesa il macigno dell’inefficienza, espresso dal detto: “Se vuoi che una cosa sia fatta, falla; se vuoi che non sia fatta, affidala a un comitato”. E poi: da quando la bioetica è entrata nella cultura sanitaria del nostro tempo, si è sentita la necessità di creare un comitato apposito: Il Comitato nazionale per la bioetica. Come si rapporterebbe la nuova struttura con l’esistente comitato? Sarebbe un doppione? Una sua agenzia operativa? Vogliamo immaginare che i politici impegnati a risolvere la quadra del fine vita siano a conoscenza dell’esistenza di due tipi di comitati in ambito sanitario: quelli destinati a vagliare la ricerca medica e la sperimentazione, e quelli incaricati di sovrintendere alla pratica clinica. I primi sono stati istituiti per legge e sono distribuiti su tutto il territorio nazionale; gli altri, invece, sono di fatto facoltativi e solo poche Regioni li hanno istituiti. Sia gli uni che gli altri vengono abitualmente chiamati “comitati etici”. La dizione inglese “ethics committee” ha subito in italiano una piccola torsione: l’etica da sostantivo è diventata aggettivo. Il comitato ne ha guadagnato, perché si è così attribuito la gestione monopolistica dell’etica. Basterebbe chiamarlo “comitato per l’etica”: in tal caso, dovrebbe giustificare la propria qualifica e competenza. Ma se si definisce “etico”, per definizione l’etica la gestisce in proprio. Definisce quali comportamenti sono etici e quali non lo sono: “avvinghia e manda”, come il Caronte dantesco. Lo sanno bene i ricercatori che, sottoponendo i loro progetti al comitato apposito, se li vedono approvati o respinti sulla base del criterio dell’etica, che qualifica il comitato stesso. Il problema, riguardo al fine vita, è che la Consulta, volendo coinvolgere i comitati nelle decisioni relative alla presenza delle quattro ben descritte condizioni che esonererebbero l’aiuto al suicidio dalla qualifica di reato, ha indicato come obbligatorio il passaggio attraverso “il comitato etico localmente pertinente”. Ciò significa, in concreto, che, non essendo per lo più disponibili i comitati dedicati alla pratica clinica, il riferimento va ai comitati per la ricerca. Non resta allora che domandarsi, con sgomento: che competenza abbiano per affrontare le complesse questioni che stanno dietro alla domanda: “Fatemi morire”. È come se un esperto di alimentazione, competente nell’individuare i cibi tossici, fosse chiamato a elaborare ricette di haute cuisine (sì, la metafora può risultare irritante, ma rende bene l’idea del salto di qualità!). Non è tutto. Perché questo ventilato organismo, che dovrebbe sentenziare quali domande sono accettabili e quali no, comporterebbe due clamorose svalutazioni. La prima riguarda la persona che chiede di chiudere i conti con la vita, perché le è diventata intollerabile. Far dipendere l’accettazione della sua richiesta da una struttura autoritaria – organismo, comitato, commissione, o come la vogliamo chiamare – giustifica un paternalismo in contrasto con tutte le proposte di autodeterminazione avanzate dalla bioetica. È come se a ogni persona si continuasse a chiedere di fare “il bravo bambino”, in attesa dell’approvazione dei “grandi”. Perché sono loro a sapere qual è il suo bene, e a sentirsi impegnati a proteggerlo da ogni decisione sbagliata. Non meno svalutante sarebbe la procedura nei confronti dei medici e altro personale curante. Non dimentichiamo che stiamo parlando di suicidio “medicalmente” assistito. Ancor meglio sarebbe chiamarlo “aiuto medico a morire”, evitando la parola suicidio, su cui grava una connotazione linguistica e sociale svalutante. Ebbene, anche i medici sarebbero infantilizzati dalle sentenze del fantomatico organismo chiamato a decidere chi può ricevere l’aiuto e chi no. Il discernimento della domanda di concludere la propria vita è un’opera delicata e difficile. Richiede ascolto e non poca abilità nel districare i fili della cura che si sono evidentemente aggrovigliati. Decodificare quella domanda è forse l’atto più alto della cura. È il caso di tornare all’etimologia positiva della parola comitato, che deriva dal latino comitari, cioè “far strada insieme”, accompagnare. Un buon curante è un professionista dell’accompagnamento. Ciò richiede impegno e vicinanza, domanda coinvolgimento. Non a caso, in ambito anglofono si usano due espressioni per qualificare l’etica: armchair ethics e bedside ethics. La prima è l’etica accademica, dei professori di filosofia; la seconda è quella che prende forma al letto del malato. Come potrebbe il ventilato organismo a valenza nazionale – a distanza siderale da ciò che vive il malato – sostituire la delicata funzione che ci aspettiamo dal clinico, competente non solo in scienza medica ma anche nella comunicazione? Sono interrogativi che ci permettiamo di rivolgere ai politici che stanno deliberando quale strada seguire per permettere ai cittadini di modellare sui propri valori non solo la vita intera, ma anche il morire. Domande che nascono, soprattutto, da quei professionisti della cura più direttamente coinvolti nella palliazione. Si tratta di un’opportunità offerta – di diritto – a tutti i cittadini malati, e che purtroppo è lungi dall’essere disponibile per tutti coloro che ne hanno bisogno. I professionisti della palliazione inorridiscono quando sentono ventilare l’idea che una palliazione resa obbligatoria possa rappresentare l’alternativa alla richiesta di aiuto medico a morire. Si profila così lo spettro dell’“accanimento palliativo”, con una completa distorsione del concetto stesso di cure palliative e della loro pratica. Una politica più rispettosa delle competenze professionali di alto livello nella gestione del percorso di cura – competenze che pure esistono nel nostro mondo sanitario – godrebbe anche di maggiore considerazione da parte dei cittadini. Dell'autore vedi, La palliazione auspicabile e il VIDEO DELLA PRESENTAZIONE del libro, UNA DIVERSA FIDUCIA. Per un nuovo rapporto nelle relazioni di cura Vedi anche Pontificia Accademia per la Vita. "Piccolo lessico del fine vita" Comitato Nazionale Bioetica (CNB) e dibattito su Trattamenti di Sostegno Vitale (STV) --------------- LA RICHIESTA DI SOSTEGNO del Gruppo Solidarietà Altri materiali nella sezione documentazione politiche sociali. La gran parte del lavoro del Gruppo è realizzato da volontari, ma non tutto. Se questo lavoro ti è utile PUOI SOSTENERLO CON UNA DONAZIONE e CON IL 5 x 1000. Clicca qui per ricevere la nostra newsletter.