Data di pubblicazione: 30/06/2025
Numero accessi: 18

indietro

Quale legge per il fine vita?

Sandro Spinsanti, in saluteinternazionale.info

A distanza di 7 anni dall’ordinanza della Corte costituzionale che richiedeva una legge nazionale per regolamentare il fine vita volontario, a oggi non esiste ancora una legge che regolamenti la materia su tutto il territorio italiano. Negli ultimi tempi il dibattito sul fine vita è tornato al centro dell’attenzione, anche a seguito dell’approvazione della Regione Toscana della prima legge regionale sulla “morte volontaria medicalmente assistita”. E circola una bozza di proposta di legge, frutto dell’accordo tra i partiti della maggioranza di governo, particolarmente aberrante: a decidere non sarebbe il paziente, ma un comitato nazionale.

Meglio tardi che mai, sentenzia la saggezza popolare. Una saggezza fragile, perché talvolta ciò che arriva, in ritardo, non è affatto auspicabile. È il sospetto che emerge – stando alle notizie di stampa – nei confronti delle norme in preparazione per dare esecutività all’ordinanza della Corte costituzionale che richiedeva una legge nazionale per regolamentare il fine vita volontario. Che sia tardi, non c’è dubbio: l’ordinanza in questione è la n.207 del 2018, a cui hanno fatto seguito due successive sentenze. Che quelle che sono in gestazione siano le risposte auspicabili è molto discutibile. Prendiamo in considerazione i punti salienti.

La pratica del fine vita volontario è stata circoscritta dalla Consulta in un ambito rigidamente delimitato dalla presenza di quattro condizioni:

una patologia irreversibile che sta conducendo alla morte,

la presenza di dolori fisici o psichici intollerabili,

la dipendenza da trattamenti di sostegno vitale dai quali il malato vuol essere liberato

e la capacità di assumere consapevolmente e liberamente la decisione di porre fine alla vita.

Ognuna di queste condizioni presenta aspetti problematici, che richiedono un confronto e una discussione approfondita. Ma è soprattutto la condizione psicologica e morale della persona che richiede questo tipo di intervento medico che suscita turbamento. Abbiamo un malato che proclama: ”Voglio morire: aiutatemi”. Che cosa contiene veramente quella domanda di morte? Chi l’ascolta, chi l’interpreta?

Avevo paura di infilarmi nella mente di una persona che voleva morire”. È l’atteggiamento che Luigi Zoja attribuisce a uno psicanalista nel racconto “Perché vivere?” (Zoja: Dialoghi sul male, Einaudi 2022). Prima di tentare il suicidio, la sua giovane paziente aveva appunto lasciato un biglietto con quella domanda. Per lo specialista della psiche, addentrandosi nei meandri di ciò che giustifica il vivere o il morire il timore è lo stato d’animo appropriato. Il contrario è l’arroganza di chi considera la domanda già annullata in partenza dalle risposte che presume di possedere. Di questa sicurezza si nutre il fondamentalismo, sia religioso che politico. Invece che in punta di piedi, si avvicina a chi invoca la morte con il passo pesante dei propri scarponi ideologici.

Tra le proposte in gestazione da parte della maggioranza di governo per far fronte alla domanda di porre fine alla vita è trapelata quella di costituire “un organismo valido per tutto il territorio nazionale”, i cui componenti saranno scelti attraverso un decreto del presidente del Consiglio, che avrebbe il compito di decidere chi ha il diritto di accedere a questa modalità di morte volontaria e chi invece no. Sorge qualche interrogativo, a cominciare dal nome. Come chiameremo questo organismo? Comitato? Beh, qui incappiamo in qualche resistenza. Non è che i comitati nell’opinione pubblica godano di ottima reputazione. C’è chi sostiene che il cammello sia un cavallo disegnato da un comitato… E soprattutto pesa il macigno dell’inefficienza, espresso dal detto: “Se vuoi che una cosa sia fatta, falla; se vuoi che non sia fatta, affidala a un comitato”. E poi: da quando la bioetica è entrata nella cultura sanitaria del nostro tempo, si è sentita la necessità di creare un comitato apposito: Il Comitato nazionale per la bioetica. Come si rapporterebbe la nuova struttura con l’esistente comitato? Un doppione? Una sua agenzia operativa?

Vogliamo immaginare che i politici impegnati a risolvere la quadra del fine vita siano a conoscenza dell’esistenza di due tipi di comitati in ambito sanitario: quelli destinati a vagliare la ricerca medica e la sperimentazione e quelli rivolti a sovrintendere alla pratica clinica. I primi sono stati istituiti per legge e sono distribuiti per tutto il territorio nazionale; gli altri sono in pratica facoltativi e solo poche regioni li hanno istituiti. Sia agli uni come agli altri ci si riferisce chiamandoli abitualmente “comitati etici”. La dizione inglese “Ethics committee” ha subito in italiano una piccola torsione: l’etica da sostantivo è diventato aggettivo. Il comitato ne ha guadagnato, perché si è così attribuito la gestione monopolistica dell’etica. Basterebbe chiamarlo “per l’etica”: dovrebbe giustificare la sua qualifica e la sua competenza. Ma se si qualifica come “etico”, per definizione, l’etica la gestisce in proprio. Definisce i comportamenti etici e quelli che non lo sono: “avvinghia e manda”, come il Caronte dantesco. Lo sanno bene i ricercatori che, sottoponendo i loro progetti al comitato apposito, se li vedono approvati o respinti sulla base del criterio dell’etica, che qualifica il comitato.

Tralasciando la questione linguistica – comitato etico o per l’etica – che pur insignificante non è, il grave problema è la reale disponibilità di questi organismi per la gestione del fine vita. La Consulta, volendo coinvolgere i comitati nelle decisioni che riguardano la presenza delle quattro ben descritte condizioni che esonererebbero l’aiuto al suicidio dalla qualifica di reato, ha indicato come obbligatorio il passaggio attraverso “il comitato etico localmente pertinente”. Ciò vuol dire, in concreto, che non essendo per lo più disponibili i comitati per la pratica clinica, il riferimento va ai comitati per la ricerca. Non resta che domandarsi, con sgomento, che competenza abbiano per affrontare le complesse questioni che stanno dietro alla domanda: “Fatemi morire”. È come se un esperto di alimentazione, competente nell’individuare i cibi tossici, fosse chiamato a fare ricette di “haute cuisine” (sì, la metafora può essere irritante, ma rende l’idea del salto di qualità!).

Non è tutto. Perché questo ventilato organismo che dovrebbe sentenziare quali domande sono accettabili e quali no, comporterebbe due clamorose svalutazioni. La prima è quella della persona che chiede di chiudere i conti con la vita, perché le è diventata intollerabile. Far dipendere l’accettazione da una struttura autoritaria – organismo, comitato, commissione, o come la vogliamo chiamare – giustifica un paternalismo opposto a tutte le proposte di autodeterminazione che vengono dalla bioetica. E come se a ogni persona si continuasse a chiedere di fare “il bravo bambino”, in attesa dell’approvazione dai “grandi”. Perché questi sanno qual è il suo bene e sono impegnati a proteggerlo da ogni decisione sbagliata. In questo scenario i cittadini determinati a difendere la propria adultità continuerebbero a preferire il percorso che li porta in Svizzera.

Non meno svalutante sarebbe la procedura nei confronti dei medici e altro personale curante. Non dimentichiamo che stiamo parlando di suicidio “medicalmente” assistito. Ancor meglio sarebbe chiamarlo “aiuto medico a morire”, evitando la parola suicidio, su cui grava una connotazione linguistica e sociale svalutante. Ebbene, anche i medici sarebbero infantilizzati dalle sentenze del fantomatico organismo chiamato a decidere chi può ricevere l’aiuto e chi no. Il discernimento della domanda di concludere la propria vita è un’opera delicata e difficile. Richiede ascolto e non poca abilità nel districare i fili della cura che si sono evidentemente aggrovigliati. Decodificare quella domanda è forse l’atto più alto della cura e richiede particolare dedizione e competenza.

È il caso di tornare all’etimologia positiva della parola comitato, che deriva dal latino “comitari”, cioè far strada insieme, accompagnare. Un buon curante è un professionista dell’accompagnamento. Ciò richiede impegno e vicinanza, domanda coinvolgimento. Non a caso in ambito anglofono si usano due espressioni per qualificare l’etica: “armchair ethics” e “bedside ethics”. La prima è l’etica accademica, dei professori di filosofia, la seconda quella che prende forma al letto del malato. La prima scende dall’alto: dal sapere, quando non dalle certezze ideologiche; la seconda si costruisce dal basso, nel delicato lavoro di tessitura che mette insieme ordito e trama, ovvero le attese di salute (che potrebbero essere, date le particolari condizioni, gravate da una sazietà esistenziale) e le offerte terapeutiche adeguate.

Come potrebbe il ventilato organismo a valenza nazionale, a distanza siderale da ciò che vive il malato, sostituire la delicata funzione che ci aspettiamo dal clinico, competente non solo in scienza medica ma anche nella comunicazione?

Sono interrogativi che ci permettiamo di rivolgere ai politici che stanno deliberando quale strada seguire per permettere ai cittadini di modellare sui propri valori non solo la vita intera, compreso il morire.  Nascono soprattutto da quei professionisti della cura che sono più coinvolti nella palliazione. Questa è un’opportunità offerta – di diritto – a tutti i cittadini malati: un’opportunità che purtroppo è lungi dall’essere disponibile per tutti coloro che ne hanno bisogno. Anche se la legge n. 38 riconosce fin dal 2010 il diritto di ricevere le cure palliative, la rete di questi servizi è diversamente organizzata sul territorio nazionale, anche per quanto riguarda la fondamentale terapia del dolore. I professionisti della palliazione inorridiscono quando sentono ventilare che la palliazione obbligatoria sarebbe l’alternativa alla richiesta dell’aiuto medico a morire. Si profila lo spettro dell’”accanimento palliativo”, con una completa distorsione del concetto stesso di cure palliative e della loro pratica.

La proposta di un passaggio obbligatorio attraverso le cure palliative suona ancor più stridente se la collochiamo sullo sfondo di una prassi negligente di ricorso alla palliazione da parte di non pochi clinici. Vale da questo punto di vista la testimonianza di operatori di prima linea che, raccogliendo la richiesta di aiuto medico a morire da alcuni malati, hanno dovuto constatare, con immenso stupore, che non avevano mai beneficiato di cure palliative; anzi, queste non erano mai state loro suggerite dai curanti. Sarebbe caricaturale se la palliazione, dimenticata nel normale decorso clinico, apparisse sotto forma di una procedura imposta per via burocratica.

Come se non bastassero le proposte aberranti, circola anche quella di non far ricadere l’eventuale autorizzazione a fornire un aiuto alla morte richiesta entro l’ambito delle prestazioni garantite dal SSN. Quanto dire: si ricorra al privato. Ovvero: abbia questo aiuto chi se lo può pagare. Oltre alla clamorosa ingiustizia, stridente rispetto ai valori che sostengono il nostro servizio sanitario, risalta il vulnus inferto alla pratica stessa, che viene esclusa dall’appartenenza a ciò che ha a che fare con la vita e la salute: il suicidio assistito ricondotto nell’ambito degli interventi di medicina estetica…

A ennesima e definitiva dimostrazione di quanto le norme in gestazione siano elaborate in totale ignoranza della situazione reale alla quale si riferiscono, ancora un dettaglio: è previsto che, se l’organismo che deve decidere l’approvazione della domanda di aiuto medico a morire opta per il rifiuto, perché non considera presenti le condizioni richieste, il malato deve attendere quattro anni per poter avanzare nuovamente la domanda. Stiamo parlando di persone con una patologia irreversibile che le sta conducendo alla morte e che soffrono di dolori intollerabili. Se non si trattasse di totale incompetenza, bisognerebbe evocare un grossolano sadismo burocratico.

La strategia auspicabile è che il disegno delle future, possibili norme che garantiscono il perimetro di legalità di un percorso terapeutico che si spinga fino all’estremo confine di garantire un’assistenza medica a chi non può più non solo vivere, ma neppure sopravvivere, si avvalga della competenza dei professionisti della cure palliative. Una politica più rispettosa delle grandi competenze professionali nella gestione del percorso di cura, che pur esistono nel nostro mondo sanitario, godrebbe anche di maggiore considerazione presso i cittadini. Ascoltando questi professionisti, le proposte governative eviterebbero clamorosi passi falsi, a cominciare dal ventilato organismo nazionale destinato a vagliare le domande di assistenza medica nel porre termine a sofferenze intollerabili e dalla collocazione di tali interventi al di fuori dei servizi alla salute che lo Stato è impegnato a offrire ai cittadini.

Un decisivo passo è stato fatto in questa direzione dalla regione Toscana con l’approvazione della legge di iniziativa popolare, proposta dal movimento “Liberi subito”, che definisce le modalità organizzative per accedere all’aiuto medico a porre fine alla vita secondo le indicazioni della Consulta (legge del 14 marzo 2025) (1). L’accoglienza della regolamentazione ha registrato sia toni enfatici e trionfalistici (salutandola come “un forte messaggio di civiltà”), sia apocalittici (“una sconfitta per tutti”). È l’inevitabile polarizzazione sull’autodeterminazione della persona o sulla difesa a oltranza della vita nell’altro. Ma indipendentemente dai conflitti la convivenza sociale ha bisogno di regolamentazioni di questo genere, per non cadere nell’inerzia e nella confusione dei ruoli, che svaluta la funzione dei decisori politici. In particolare, le misure procedurali hanno il compito di assicurare i tempi degli interventi e i ruoli affidati agli operatori sanitari.

Una menzione particolare va fatta, per quanto riguarda la realtà toscana, al ruolo di interlocuzione con il malato del comitato per l’etica clinica. Lo troviamo a dialogare e a decodificare la domanda di morire al letto del malato, piuttosto che mille miglia lontano la lui come la ventilata commissione nazionale. Non a caso la Toscana è la regione che più ha investito in queste strutture, per rendere la bioetica non un luogo di proclami ma uno strumento per dare un volto concreto alla buona cura.

Vedi anche

È di scena la commissione per il suicidio assistito

Fine vita: te la do io la legge

....................

LA RICHIESTA DI SOSTEGNO del Gruppo Solidarietà 

Altri materiali nella sezione documentazione politiche sociali

La gran parte del lavoro del Gruppo è realizzato da volontari, ma non tutto. Se questo lavoro ti è utile  PUOI SOSTENERLO CON UNA DONAZIONE e CON IL 5 x 1000.

5x1000

 

Clicca qui per ricevere la nostra newsletter.


Adempimenti legge 4 agosto 2017, n. 124


Il nostro Bilancio


60030 Moie di Maiolati (AN), via Fornace, 23


(+39) 0731 703327


grusol@grusol.it

Il materiale elaborato dal Gruppo Solidarietà presente nel sito pụ essere ripreso a condizione che si citi la fonte

-


IBAN IT90 V050 1802 6000 0002 0000 359 (Banca Etica)


Iscrizione al RUNTS, decreto n. 212 del 14/09/2022