Un Piano (disabilità) senza gambe né denti C‘è una sensazione di déjà-vu che accompagna la lettura della bozza del “Terzo Piano di Azione per la promozione dei diritti e l‘inclusione delle Persone con Disabilità“, approvato qualche giorno fa dall‘Osservatorio Nazionale sulla disabilità. Ci si attendeva, dunque, un Piano d‘Azione che fosse il braccio operativo di questa “rivoluzione”, di questo “cambio di passo”, uno strumento capace di trasformare i diritti sulla carta in servizi esigibili. Ma andiamo con ordine, perché il diavolo, come sempre, si nasconde nei dettagli. O meglio, nelle omissioni. Ma passiamo oltre e arriviamo alla Repubblica dei “Tavoli”. E veniamo al miraggio degli indicatori destinati misurare la carta, non la vita. Un aspetto tecnico, ma dalle conseguenze politiche devastanti, riguarda il sistema di monitoraggio. Il Piano rivela una debolezza strutturale proprio dove dovrebbe essere più rigoroso: nella scelta degli indicatori. Se c‘è un ambito dove il Piano mostra tutta la sua fragilità culturale e la sua debolezza di visione: è quello della transizione alla vita adulta. Per l‘amministrazione italiana, la disabilità sembra essere divisa in due compartimenti stagni: il minore e l‘adulto. Sul fronte lavorativo, il Piano riesce nell‘impresa di ignorare l‘elefante nella stanza: l‘inadempienza della Pubblica Amministrazione nell‘invio obbligatorio del Prospetto Informativo Disabili (PID). Si parla di potenziare la legge 68/99, ma si tace sul fatto che moltissime PA, inclusi comuni con migliaia di addetti, non comunicano nemmeno le scoperture. Pianificare l‘inclusione lavorativa al buio è un esercizio velleitario. Il Piano non si interroga su questo, non si assume l’evidenza che il sistema dei controlli e delle sanzioni è collassato, non ricorda che le sanzioni, usate come leva, hanno la funzione di favorire le assunzioni non di punire le aziende. E dunque non prevede alcuna azione. C‘è poi una questione di metodo che è sostanza. Il Piano non affronta il nodo dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEPS). Affidarsi ad accordi in Conferenza Unificata e a Linee di indirizzo (soft law) in un sistema a legislazione concorrente significa accettare che i diritti dipendano dal codice di avviamento postale . Ultima ma non ultima è la questione del contrasto alla segregazione scomparso. Non se ne trova traccia nemmeno nel Piano, dopo la sua sparizione nella riformona. Ignorando il Commento Generale del Comitato ONU n. 5, il Piano evita di sfidare il consolidato sistema degli enti gestori di strutture residenziali. Non vietando il finanziamento di nuovi istituti potenzialmente segreganti, non fissando regole che contribuiscano a rendere i servizi per l’abitare inclusivi, condanna l‘Italia a rimanere un paese in cui l‘istituzionalizzazione è prassi consolidata, tradendo lo spirito della Convenzione ONU. Non sono previste azioni per identificare e chiudere le strutture esistenti che operino in regime di segregazione. Manca una strategia di “deistituzionalizzazione attiva“ con scadenze temporali certe. Un’omissione grave e un disallineamento dalla Convenzione ONU. Il Piano appare come un documento elegante nella forma, utile da presentare ai convegni, aggiornato nel lessico, ma drammaticamente debole nella sostanza attuativa. È un Piano senza “gambe“ finanziarie, zavorrato dal vincolo di bilancio al pari della riformona della disabilità, e senza “denti“ sanzionatori, incapace di mordere l‘inerzia delle amministrazioni inadempienti. Soprattutto, è un Piano che non ha il coraggio di disturbare lo status quo. Non usa gli strumenti che ha (come il D.Lgs. 222/2023) e ne inventa di nuovi e deboli (i Tavoli). Per le 3,1 milioni di persone con disabilità in Italia, il rischio è che la grande riforma del 2024 rimanga confinata nel limbo delle buone intenzioni legislative. Nota: questo che avete letto è solo un breve editoriale di commento. Prima di scriverlo ho trascorso ore a compulsare il Piano e a comporre una (spero) compiuta analisi che trovate in allegato. Dell'autore vedi anche, Riforma disabilità. Dopo il rinvio e .. non solo, in Appunti sulle politiche sociali, n. 1/2025 (250). Leggi LA RICHIESTA DI SOSTEGNO del Gruppo Solidarietà Altri materiali nella sezione documentazione politiche sociali. La gran parte del lavoro del Gruppo è realizzato da volontari, ma non tutto. Se questo lavoro ti è utile PUOI SOSTENERLO CON UNA DONAZIONE e CON IL 5 x 1000. Clicca qui per ricevere la nostra newsletter.
Non è solo la struttura, che ricalca fedelmente quella dei precedenti Programmi biennali – tristemente noti per la loro scarsa applicazione – ma è la sostanza politica e amministrativa a restituirci l‘immagine di un Paese che, pur cambiando il lessico, fatica terribilmente a cambiare la realtà.
Siamo in una fase storica che il Legislatore, e tanti suoi corifei, non ha esitato a definire “epocale”, segnata dalla legge delega 227/2021 e dal decreto legislativo 62/2024 (la nota riformona della disabilità).
Invece, sfogliando il documento, ci troviamo di fronte a quello che potremmo definire un “meta-piano”: un programma che non agisce direttamente sulla realtà, ma programma di scrivere altre regole, istituire altri tavoli, produrre altre linee guida.
E questo al di là delle sparate di taluno che arriva a sostenere che vi sia una differenza di sostanza fra “Piano” e “Programma”, diversità che varrebbe anche in questo caso.
Partiamo dall‘ossimoro dell‘invarianza finanziaria che abbiamo già visto nella riformona della disabilità. La pietra tombale su ogni velleità riformatrice si trova nelle primissime pagine del documento. La formula è quella, liturgica e inappellabile, della Ragioneria di Stato: le azioni dovranno essere conseguite “con le risorse umane, strumentali e finanziarie previste a legislazione vigente”.
Siamo di fronte a un vero e proprio ossimoro programmatico. Come si può pensare di attuare una riforma ieraticamente imperniata sul “Progetto di Vita individuale”, che presuppone la personalizzazione e l‘intensità dei sostegni, a costo zero?
Il Piano, accettando questo dogma, ci condanna a un gioco a somma zero: per dare di più a chi ha bisogno di supporto intensivo, si dovrà necessariamente togliere a qualcun altro, in una guerra tra poveri gestita con la contabilità dei fondi esistenti . Se il Budget di Progetto non è altro che la ricomposizione di risorse frammentate senza un euro aggiuntivo, non stiamo costruendo diritti, stiamo solo riorganizzando la penuria.
L‘analisi linguistica del Piano è impietosa. I verbi dominanti sono “promuovere“, “favorire“, “sostenere“. Latitano verbi performativi come “garantire“ o “sanzionare“ . Ma l‘aspetto più sconcertante è il mancato coordinamento con le norme vigenti più incisive. È il caso del decreto legislativo 222/2023 sulla riqualificazione dei servizi pubblici.
Questa norma ha già introdotto obblighi stringenti per le Pubbliche Amministrazioni, inclusa la nomina di un responsabile per l‘accessibilità e l‘inserimento di obiettivi specifici nel Piano della Performance, legandoli alla retribuzione di risultato dei dirigenti .
Il Piano ignora clamorosamente questa leva potente. Invece di sfruttare la valutazione della performance per imporre l‘adeguamento di servizi, uffici e ospedali (che sono PA a tutti gli effetti), propone ancora “tavoli“ e “progetti“. Si depotenzia una norma esistente, trattando come “buona pratica“ opzionale ciò che è già un obbligo di legge. È un cortocircuito amministrativo: abbiamo l‘arma per obbligare i dirigenti a rendere accessibili i servizi, ma il Piano sceglie di non usarla, preferendo la via lastricata di buone intenzioni della moral suasion.
Si assiste a uno scambio sistematico tra indicatori di realizzazione (output) e indicatori di risultato (outcome). Il Piano misura quasi esclusivamente l‘adempimento burocratico: l‘indicatore di successo è aver “istituito il tavolo“ o “scritto le linee guida“ . Questi dati ci diranno se quel Ministero ha lavorato, ma non se la vita delle persone è migliorata.
Mancano totalmente target numerici misurabili, in palese disallineamento con la Strategia Europea 2021-2023 sulla disabilità. Non troverete scritto “aumentare l‘occupazione del 10%“ o “ridurre i tempi di attesa del 20%“ . Perché? Perché fissare un target reale obbliga a raggiungerlo, e centrarlo servono risorse certe. La clausola di invarianza finanziaria impone indicatori “soft“ . Inoltre, si pianifica al buio: il Piano stesso ammette “significative lacune“ nei dati di base . Senza un “punto zero“ statistico affidabile, qualsiasi monitoraggio diventa un esercizio di stile autoreferenziale.
Manca totalmente la visione della transizione come processo. Al compimento del diciottesimo anno, i giovani con disabilità cadono nel precipizio dei servizi. La scuola finisce, la neuropsichiatria infantile chiude la cartella, e il giovane adulto si trova in una terra di nessuno. Il Piano non prevede quei “servizi ponte“ essenziali: non c‘è traccia di équipe multidisciplinari per la fascia 16-24 anni né di protocolli vincolanti di Transition of Care.
Si ignora che diventare adulti non è solo trovare un lavoro, ma è una trasformazione identitaria. Manca il supporto alla sessualità e all‘affettività intese come diritti esigibili; manca l‘educazione al “rischio“, fondamentale per l‘autonomia, sostituita ancora una volta da una logica di protezione.