Con la legge 55/24 si determina una marcata istituzionalizzazione dell’esercizio della professione degli educatori/educatrici socio-pedagogiche. Dovuta, da un lato, all’albo di settore a cui ci si dovrà iscrivere per praticare legalmente la professione; dall’altro, alla creazione dell’Ordine delle professioni pedagogiche ed educative (composto da pedagogisti ed educatori insieme).
Un passaggio ulteriore questo, dopo la cosiddetta «legge Iori», apprezzato da molti in quanto rappresenterebbe il dovuto riconoscimento pubblico della professione di educatore/educatrice; a cui si accosterebbe un più chiaro inquadramento regolativo (interno) e legislativo (esterno) di questa pratica professionale. Questo a tutela sia delle persone che, in diversi ambiti, accedono ai servizi alla persona offerti dai professionisti dell’educazione socio-pedagogica, sia degli stessi operatori e operatrici di settore.
Si potrebbe contrassegnare questo passaggio come quello che sposta la professione educativa dalla corporazione all’istituzione. Spostamento non irrilevante nel quadro delle complesse dinamiche socio-culturali italiane all’interno delle quali gli educatori/educatrici sono chiamati a offrire le loro competenze di cura sulle persone. Questo perché le pratiche professionali della cura dovrebbero avere sempre anche un carattere di critica civile rispetto alla configurazione del vivere insieme fra molti diversi tra di loro.
La domanda di fondo è se la compiuta istituzionalizzazione della professione educativa lasci ancora spazio effettivo al suo essere istanza critica nei confronti della società nel suo insieme, da un lato, e dei soggetti istituzionali con i quali essa si interfaccia quotidianamente, dall’altro.
Sono molte le ragioni per cui l’attività professionale messa in atto dagli educatori/educatrici socio-pedagogiche è chiamata a essere una spina nel fianco del corpo sociale e istituzionale del paese. Non da ultimo, il fatto che molte persone che sono i destinatari delle pratiche di cura educativa sono anche il prodotto di scarto, come affermato più volte da papa Francesco, del modo in cui si configurano le nostre società attuali dell’Occidente.
La cultura ambiente contemporanea, individualista e sottoposta all’ingiunzione neo-liberale della riuscita di sé come successo quantificabile, induce a credere che la produzione della marginalità, dell’esclusione, del disagio che inquieta il benessere di coloro che possono fare senza interventi educativi di carattere professionale, sia una sorta di necessità inevitabile – rispetto alla quale non si può immaginare nessuna possibile configurazione altra della coesistenza sociale.
Questo dogma tecno-sociale, che struttura e ordina le nostre vite, acconsente alle pratiche di cura educativa come attività segregata rispetto alla società nel suo complesso – segregazione del soggetto che a esse accede, ma anche dei soggetti che le mettono in atto, e che può eventualmente terminare solo quando il primo dimostrerà di essere gradito al corpo sociale che lo aveva, in molti modi, precedentemente collocato nell’enclave separata del suo margine estremo.
Ora, la cura praticata dagli educatori/educatrici socio-pedagogici dovrebbe essere esattamente un atto di resistenza e opposizione all’inviolabilità di questo dogma sociale del contemporaneo occidentale. Ossia, dovrebbe mostrare nei gesti stessi della cura educativa che la condizione umana che richiede il suo attivarsi non è un destino inevitabile, quanto piuttosto l’esito voluto dei principi che regolano la nostra società occidentale – a cui ci atteniamo tutti con doveroso ossequio e credula adorazione.
La compiuta istituzionalizzazione, albo e Ordine, della professione educativa socio-pedagogica finisce per incorporarla inesorabilmente nella macchina tecno-sociale davanti alla quale essa dovrebbe pronunciare il suo j’accuse corporativo. Questo quando le pratiche della cura educativa dovrebbero essere invece il più possibile non integrate nel sistema che produce il materiale umano che ne attiva l’esercizio professionale.
Con la legge 55/24, la minuscola frattura che separava di un nulla i gesti della cura educativa dalle forze sistemiche alle quali essi cercano di opporsi viene fatta strategicamente sparire – con il plauso delle stesse categorie professionali coinvolte. Questo a garanzia sia del dominio incontrastato delle forze tecno-sociali che producono l’umano di scarto, sia della necessità pubblica – che ne consegue – della professione educativa, oramai soggiogata e addomesticata grazie al corsetto, correttivo ma gratificante, dell’albo e dell’Ordine.
L’esito inevitabile di questo processo di istituzionalizzazione è la disattivazione della rilevanza politica della professione educativa stessa; ossia, la sua disabilitazione a essere forza istituente di una configurazione dell’ordine sociale secondo giustizia (e non solo secondo la legge). Compiutamente istituita, la professione educativa socio-pedagogica non sarà più abile a raccoglie e convogliare la forza ammutolita dei margini dell’umano quale alternativa possibile di un ordinamento sociale altro che generi stili relazionali di vita non sacrificati all’imperativo neo-liberale.
In merito, l’analisi di Illich sulla modernità occidentale, intesa come macchina sociale che produce a dismisura bisogni (non necessari all’umano), a cui prepone poi professioni che si fanno carico di essi in maniera sempre più segmentata e compartimentata – le quali, a loro volta, hanno bisogno di persone bisognose che giustifichino l’esistenza della loro categoria professionale (legalmente sancita da albi e ordini) –, descrive in maniera drammaticamente lucida l’approdo della professione educativa socio-pedagogica sancita dalla legge 55/24.
A questo punto, tale professione ha il bisogno vitale che la macchina tecno-sociale e il potere delle sue forze produca inesorabilmente (e continuamente) materiale umano di scarto. L’impalcatura messa in piedi con la legge 55/24 annida troppi interessi e complici contiguità per essere esposta a quello che dovrebbe essere l’imperativo della professione educativa socio-pedagogica: ossia, quello di aspirare, di lavorare e di lottare politicamente per giungere alla propria estinzione (alla propria non necessità). Ogni atto educativo professionale, nel momento in cui costruisce possibilità di appropriazione di sé nelle persone a cui destina la sua cura, dovrebbe decostruire la necessità/bisogno del proprio esistere come categoria professionale.
La 55/24 sancisce per legge l’impossibilità di questa decostruzione civile della professione educativa socio-pedagogica; e, in tal modo, la depoliticizza completamente – a detrimento di una giustizia del vivere che sappia attestare pubblicamente la sua forza eversiva rispetto allo status quo nel quale ci stiamo tutti addormentando.
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