Le posture e i gesti del lavoro educativo. Riflessioni sulla capacità di "contaminazione" Intervista ad Andrea Canevaro, a cura di Gloria Gagliardini. In "Appunti sulle politiche sociali", n. 3/2016 (217). Vedi anche, In ricordo di Andrea Canevaro. Puoi sostenere il nostro lavoro con l'abbonamento. Ricordiamo che tutti i numeri della rivista fino al 2021 sono consultabili e scaricabili gratuitamente. Partiamo con una riflessione sul lavoro educativo e le sue "posture". Una prima domanda che vorrei farti riguarda la condizione e la posizione che assume un educatore, nel suo lavoro con la persona con disabilità, e più in generale con le persone che presentano una fragilità. Tu hai scritto, articolandolo in modo approfondito in Appunti 5/2013, "l'educatore dovrebbe sentirsi come un prigioniero", ho pensato spesso quanto sia vera questa affermazione. Un educatore si sente in una prigione se il rapporto con l'altro (l'educando) rimane inchiodato in una dimensione duale, inevitabilmente si cade in una sorta di reciproco vittimismo, ma può anche trasformare questa condizione assieme all'altro, ed è qui che inizia il vero lavoro. Quale postura interiore dovrebbe quindi avere un educatore per fare di questa prigionia la condizione gli permette di osservare, di ricercare, di prendere parte alla condizione dell'altro per poi attivarne risorse? Credo che un buon Educatore debba saper accettare i propri limiti per organizzarsi e non esserne prigioniero. In questo modo, uscendo dalla prigionia, mostrerà, magari implicitamente, una strada anche a chi si ritiene prigioniero per sempre, o non si è neppure accorto di esserlo. Un educatore non è completo. È imperfetto e deve educarsi educando. Fernand Deligny è stato uno scrittore, un artista, un uomo originale, e anche un educatore, anche se in lui vi era un certo rifiuto di questo termine, perché sostanzialmente non accettava quella forzatura nelle relazioni con chi cresce, bambini e bambine, per cui un educatore dovrebbe modellare i comportamenti degli altri, dovrebbe plasmarli e costruire la loro identità, le loro conoscenze, il loro futuro. Deligny diceva che aveva altre cose da fare. Doveva scrivere, oppure doveva contemplare la natura, fare il pane, segnare le sorgenti d’acqua, i corsi d’acqua, abitare un territorio disabitato come le Cévennes, le montagne del centro della Francia. Non poteva essere l’educatore che si ripiega, che si dedica interamente alla relazione di chi ha avuto in qualche modo in affidamento … Chi conduce un laboratorio, ad esempio, ha delle esigenze molto semplici ma anche in qualche modo per alcuni soggetti non del tutto facili. Deve poter continuare a lavorare, quindi bisogna che chi entra nel laboratorio impari a non essere di impedimento, di impaccio, non attiri un’attenzione particolare su di sé, distogliendo da quella che è l’attenzione maggiore, l’attività del laboratorio stesso. La relazione di contiguità indica proprio già questo modo d’essere, che non è legato a un apprendimento “faccia a faccia”, al dialogo senza mediazioni. Il laboratorio non vive per capire chi è l’altro, il gruppo di persone; non ha questo interesse, o meglio in qualche modo ce l’ha, ma agisce soprattutto per poter condurre le attività che definiscono le presenze nel laboratorio. La relazione di contiguità è proprio questa, che avviene essendo a fianco ma senza il “faccia a faccia” dell’apprendimento, che è un modo di dire, naturalmente, perché possono esservi anche dei “faccia a faccia”, perché il tavolo di lavoro permette di essere uno di fronte all’altro, gli uni di fronte agli altri; ma l’intenzione principale non è quella di guardarsi per capirsi. È quella di essere assieme per lavorare, e l’inizio, più o meno lungo, è non intralciare il lavoro. Questa relazione è molto interessante, e viene da interrogarsi della scarsa possibilità che ha avuto Deligny di fare conoscere il suo lavoro, se non come qualche cosa di marginale, per certi versi eccentrico. Un educatore è anche un eccentrico. Cioè un periferico. Riprendere le fila di Deligny non significa certamente indicare la sua eccentricità quanto cercare di capire il valore di una relazione impostata sul rapporto di contiguità. Che cosa significa? Più volte è sembrato utile ricordare come molti degli apprendimenti nella vita di chi cresce sono stati il frutto di una contiguità di carattere, per esempio, familiare. Chi cresce ha avuto la possibilità di vivere accanto a chi si occupava della vita domestica, preparava da mangiare, aggiustava degli oggetti, faceva tante attività che possono essere considerate di laboratorio domestico. Qualche volta, poi, accadeva anche che ci fosse un vero e proprio laboratorio attiguo e accessibile allo spazio familiare, e si trattava allora di quelle famiglie in cui il lavoro artigianale o il lavoro contadino non era diviso dalla vita familiare. Era un continuo, e i bambini e le bambine crescevano in questa situazione in cui dovevano essere presenti senza essere centro di attenzione e, anzi, imparando a trattenere la propria voglia di esibizionismo, la propria voglia di essere il centro del mondo perché sapevano bene, capivano subito che il lavoro doveva svolgersi. Ne deduciamo, per chi è nel ruolo di educatore, la capacità di affiancamento attivo. Affiancamento non implica “ti insegno”, quanto piuttosto “io faccio”, che può contenere “e tu mi puoi dare una mano, o lasciarmi fare”. Ed è una comunicazione prevalentemente gestuale, con eventuali parole che si appoggiano e prendono senso grazie ai gesti. Andando avanti nella riflessione, tu dici che la relazione con l'altro può evolvere solo a determinate condizioni: individuando contesti competenti e sviluppando nella logica e nella pratica dei sostegni di prossimità. Mi sembra che questo sia un punto chiave per il lavoro educativo e mai abbastanza chiaro nella pratica... La situazione attuale, nella parte del mondo in cui ci è dato vivere, sembra caratterizzata da una duplice crisi: di fiducia e di progetto. Sembra che la fiducia sia riservata alle persone che conosciamo. E manchi nei confronti delle organizzazioni che generano prossimità. Per capirsi: se avessi bisogno di una trasfusione di sangue, avrei il sangue da una struttura che riceve sangue dai donatori. Non saprei mai chi mi ha donato il suo sangue. Dovrei fidarmi del centro sanitario, cioè di un’organizzazione che genera prossimità, e mi permette di collegarmi al donatore sconosciuto. E forse a più di uno. Bisogna far crescere la fiducia nelle organizzazioni che generano prossimità e curano le intermediazioni. E abbiamo bisogno di progetto, superando la stagnazione delle lamentele. Gli educatori possono e dovrebbero impegnarsi anche per/nelle organizzazioni che curano questo aspetto. Questo significa capacità progettuale. Un educatore può conoscere problemi che esigono questo tipo di organizzazione – capace di generare, attraverso intermediazioni, prossimità. Ebbene: invece di lamentarne l’assenza o lamentarsi con le organizzazioni inefficaci, si attivi nella progettazione e nella gestione della realizzazione del progetto. Sviluppando servizi multifunzionali e contesti competenti. Ma di questo avrò modo di riparlare. Cerchiamo ora di addentrarci nello specifico del lavoro educativo, la prima domanda riguarda il lavoro con la persona adulta con disabilità complessa. In questo caso, quali competenze mette in campo l'educatore? Le competenze che vorrei ci fossero riguardano soprattutto le contaminazioni. L’ibridazione. In particolare facendo attenzione a: Concentriamo le nostre energie in questa prospettiva, senza disperderle in tentativi di risuscitare il passato. Cerchiamo di vivere attivamente il cambiamento, e non di subirlo. Abbiamo bisogno di rivedere profondamente il modello di riferimento ed è questo l’impegno che possiamo pensare e studiare se vogliamo prospettive future dell’integrazione che diventa inclusione. Primo punto: il paradigma inclusivo. Va oltre l’integrazione. In questo senso il nostro impegno può proporre una prospettiva che non può accontentarsi di integrare in un contesto istituito che contiene insicurezza sociale, percorsi accidentati, dubbi, ma deve connettersi ed interagire con gli agenti di cambiamento. Potremmo mettere in luce la sfida che in questo momento storico è legata all’assenza di capacità progettuale in chi cresce e, con tutta probabilità, nei modelli che ha di fronte. Chi cresce vive l’attualità. Si è accentuato quello che già un paio di decenni fa veniva individuato come il rischio maggiore: la quasi patologica necessità di sentirsi collegati quindi di sentirsi in rete nel momento stesso in cui si vive, nell’attuale; pertanto senza prospettive. La necessità di avere un collegamento con il cellulare, una visibilità in rete, ecc. ecc., fenomeni che si sono accentuati e che si sono anche poi spezzettati in forme diverse tra loro che vengono chiamate, per esempio, bullismo. La necessità/possibilità di sentirsi realizzati senza prospettive toglie senso alla capacità di imparare a sopportare la fatica. Questo è l’elemento capace di provocare malesseri sociali profondi. Il paradigma inclusivo può servire a rimettere in moto una capacità progettuale strutturale e non eccezionale, che non riguarda solo le persone con disabilità, ma tutte e tutti. Diventa quindi anche interessante la possibilità di collegare i bisogni individuali all’utilizzo di risorse tecnologiche che non vengono quindi sperperate a scopi narcisistici, esibizionisti ma riflettono una possibilità che, ripetiamo, diventa progettuale e in cui l’individuo trova la sua dimensione sociale e i coetanei, le coetanee, trovano dei motivi di apprendimento organizzativo e di contenuti scientifici. Secondo punto: non basta il volontarismo. Le sfide non si vincono per la magia di dichiarazioni, pur condivisibili, ma con un impegno scientifico e professionale tutti i giorni e per anni. Vi è certamente la possibilità che ci siano anche le valorizzazioni degli aspetti della volontà ma che non si illuda chi cresce a pensare che sia solo la volontà a fare la realizzazione del progetto: è la conseguenza nell’impegno dell’aspetto organizzativo. Organizzarsi significa molto nella nostra situazione, perché permette di uscire da una concezione della storia, della nostra realtà che è invece molto più legata all’idea della fortuna e della volontà. Mettendo insieme questi due ingredienti - la volontà e la fortuna che prima o poi mi arriva – riteniamo di risolvere i problemi. L’organizzazione è un elemento che consideriamo come minore e abbiamo l’idea che vi sia una combinazione di elementi “magici” (la confezione al posto del contenuto, il gradimento al posto coefficiente di risposta ai problemi accertati) che fa il progetto. E proviamo a fare un elenco di parole che dietro all’organizzazione si può ‘srotolare’ per capire come il termine ‘organizzare’ possa creare un entusiasmo. Organizzare: Abbiamo quindi la possibilità di srotolare la parola ‘organizzazione’ in una serie di elementi che sono certamente frutto anche di libere associazioni ma hanno anche una dinamica logica e contengono una serie di indicazioni. Organizzarsi implica la volontà; ma fa capire che non è solo la volontà che può determinare l’apprendimento, la qualità dell’insegnamento, il successo formativo scolastico e universitario, ma è anche una strutturazione di mediatori umani e materiali, di tempi e di spazi. Sul tempo e lo spazio abbiamo molti elementi su cui dovremmo pensare davvero ad un ragionamento di rinnovamento delle nostre strutture abituali di pensiero. Le nostre scuole, e sovente le nostre università, hanno un’impostazione scenica – lo scenario che uno incontra entrando in una scuola o in un’aula universitaria – che è immediatamente rivolto ad un passato, sovente senza avere saputo conservare il passato nella sua parte migliore. E’ un passato stanco, un po’ sfatto, consumato, in cui non ci sono segni di previsioni vitali di cambiamento; a volte neanche la sostituzione degli oggetti rotti, la manutenzione per mantenere quello che c’è. Un segno di fatalismo negli oggetti, nei muri. Può trasmettere l’idea di progetto per tutti? Sembra invitare al progetto individuale, che può essere anche la fuga, l’utilizzo dimezzi impropri. Un educatore ha molto da imparare dall’apprendistato, il tanto ingiustamente bistrattato apprendistato. Riprendo in parte lo scenario evocato da Deligny, spostandolo in un’immagine un po’ antica: una nonna che dice al nipotino “già che ci sei, mi vai a prendere …”. È forse l’avvio di un apprendistato, che può essere raffigurato come un percorso di avvicinamento da contributi marginali e un po’ casuali a capacità di impegni che possono sostituire, nell’esempio fatto, la nonna. È un’organizzazione evolutiva che contiene una gamma di situazioni di apprendimento mediato. Sottolineo che la nonna non sta occupandosi del nipotino, ma delle faccende domestiche. Il nipotino non si sente sotto esame, ma semplicemente un po’ utile. La nonna non sta realizzando un programma per il nipotino. Farebbe tutto da sola, ma già che c’è il nipotino … E questo permette a quel bambino di crescere attivo. Terzo punto: la capacità di contaminarsi. Che significa sapere essere eccentrico e centrale nello stesso tempo … Bisogna contaminare quattro elementi: assistenza e cura nella e della quotidianità; terapia – personalmente sono molto perplesso di fronte all’impiego di questa parola accostata a varie attività -; educazione e riabilitazione fisica, magari di mantenimento; attività lavorative. Nessuno di questi quattro elementi stia per conto suo. Si mescolino. Si contaminino. Quarto punto: la rottura con l’assistenzialismo. L’assistenzialismo: un’incapacità, anche nostra, di esprimere un bisogno e di aspettare di trovare anche in sé, nella propria persona, la soluzione, l’indicazione del chi può risolverci il problema e lasciandolo invece ad altri. Rileviamo che l’assistenzialismo, paradossalmente, è in sintonia con il consumismo individualistico - anche di terapie specialistiche -. Questa deresponsabilizzazione è in gran parte nostra e anche dell’altro con “bisogni speciali”. Viviamo tutti di assistenzialismo. C’è stato un momento in cui sembrava quasi che dovessimo in qualche modo reagire all’idea che bisognasse tutti attivarsi per avere imprenditorialità individuale. Ben venga se si tratta di capacità progettuale, di superamento di posizioni in cui tutto è dovuto. Da chi? Da un’organizzazione di cui si disprezza poi la strutturazione. Un altro aspetto, che mi pare interessante del lavoro educativo con la persona con disabilità complessa, è la posizione che esso assume quando si trova a lavorare dentro l'istituzione scuola. Nel dibattito sull'inclusione scolastica, si parla degli insegnanti di sostegno, ma ancora poco del lavoro che svolge l'educatore con la persona disabile in classe, ancora definito "assistente per l'autonomia e la comunicazione (all’art 13 comma 3 L. n. 104/92) che, ricordiamolo, è una figura a carico degli enti locali. Egli è un vero supporto organizzativo all’inclusione scolastica, spesso colui che garantisce la continuità con il territorio e con la famiglia. Non ti sembra che su questo aspetto ci sia molto ancora da elaborare? C'è forse un vuoto pedagogico nella scuola che continua a separare l'istruzione dall' educazione, per cui a volte - quando la disabilità è davvero complessa - si rischia di non cogliere il senso dello stare a scuola per quell'alunno, come se non potesse imparare nulla e ricevere nulla in quel contesto deputato all'istruzione dei contenuti disciplinari. La disabilità complessa può avere una “lettura” ipertestuale. Circa la definizione di disabilità complessa … Quando sentiamo indicare un soggetto con l’espressione “handicappato grave” dovremmo in qualche modo diffidare perché all’interno di questa espressione vi sono differenze notevoli che non possono essere unificate tra loro se non a partire da un presupposto: non entrano facilmente nelle conoscenze che abbiamo già. In anni passati, ma non di molto, vi era una quasi certezza: chi veniva indicato come handicappato grave era incontrato da tecnici specialisti molto meno di chi aveva delle disabilità consuete. Riteniamo di poter partire da un’espressione che non sempre è tale da potere essere utilizzata con disinvoltura. Parlando di persone che ancora oggi venivano definite ‘gravemente handicappate’ si può trovare l’invocazione ad avere un atteggiamento amorevole, a fare riferimento ad una pedagogia dell’amore, un’espressione che certamente non è utilizzata da quegli studiosi, da quelle studiose che, forse con quel po’ di ragione che abbiamo riconosciuto loro, vogliono richiamarci alla buona realtà delle buone classi speciali. La pedagogia dell’amore aveva una sua collocazione per quelli che venivano anche chiamati i più fragili, i più derelitti, i più abbandonati, i più bisognosi. Pedagogia dell’amore: dovremmo riprendere questa espressione ma collegarla ad un modo di amare che è intrecciato al conoscere: amare conoscendo e anche a volte amare perché si conosce, quindi non un amore vuoto di una dinamica dei sentimenti ma un amore investito anche nelle conoscenze. E allora ci domandiamo se quando usiamo l’espressione “handicappato grave” stiamo indicando una stasi: conosciamo già, non abbiamo bisogno d’altro, è una realtà già definita oppure una dinamica. Vogliamo conoscere meglio, abbiamo bisogno di sapere meglio, vogliamo vedere che cosa succede in diverse situazioni, in diversi contesti, provochiamo la possibilità di conoscere, non ci accontentiamo di quello che già è dato e neanche ci accontentiamo di ciò che dice lo specialista ma vorremmo confrontare la sua diagnosi con le nostre esperienze e anche di queste far tesoro assieme ai coetanei di un soggetto. Una delle espressioni più care a Don Milani è proprio quella di una formazione alla conoscenza continua che è filo del rasoio di collegamento tra un passato e un futuro; costruire una scuola che permetta di crescere dal passato al futuro significa avere un’idea della conoscenza, del sapere che è attiva, conoscere attivamente. Quando si evoca l’educazione attiva forse non si ha una precisa immagine di una conoscenza attiva. E’ un farsi. E allora c’è da aggiungere che se questo è un modo di pensare alla conoscenza, di concepire e di vivere la conoscenza il soggetto che si presenta con delle differenze è investito da questa dinamica – in maniera che dobbiamo fare in modo non sia violenta – che certamente è di curiosità, di conoscenza attiva: scopriamo come funziona, si potrebbe dire, anche se i termini potrebbero essere presi quasi come offensivi perché sembra che ci proviamo con un atteggiamento quasi da scienziato zoologico, ma di fondo c’è un interesse che può essere anche collegato all’amore, che va collegato all’amore e dobbiamo farlo in termini tali da essere non invasivi ma delicati, attenti anche al contorno familiare e quindi capaci di creare uno stile di conoscenza che sia rispettosa. Sappiamo che oggi è uno dei temi su cui non si trova facilmente un accordo quando si tratta ad esempio della bioetica, della riproduzione e di tante appassionanti ma delicate situazioni che non possono essere affrontate solo da alcuni, vanno partecipate. Allora la formazione inclusiva, che non escluda nessuno può essere una formazione della conoscenza e quindi dell’amore. Chiudiamo un cerchio ma lo chiudiamo non per tornare al punto di partenza ma per aprire una dinamica che non si chiude, e questa è una delle situazioni più interessanti che ci è dato vivere e che ci è stata anche data dal contesto storico in cui abbiamo avuto la sorte di vivere, la possibilità quindi di scoprire che certe espressioni chiudono, chiudono alla conoscenza soprattutto, escludono alla conoscenza e altre aprono; e quando aprono appassionano ma sono complicate, non possiamo quindi semplificarle facilmente e ridurle a poche cose. Crediamo che questo sia l’interesse maggiore del nostro modo di organizzare il nostro impegno, e non ci mortificano le accuse: dobbiamo viverle come una voglia di far meglio e anche una indicazione interessante che è quella di non appiattirsi, di far tesoro del passato, di riprendere ciò che di certamente ben fatto è stato nel passato delle strutture speciali ma di evitare assolutamente di ritenere che ciò che vi era di buono sia unicamente possibile se restauriamo strutture che sono consegnate alla nostra storia passata. In un ultimo nostro lavoro (in occasione della presentazione del libro "Disabilità complessa e servizi", Gruppo Solidarietà, 2016), abbiamo cercato di dare voce agli operatori che lavorano nei servizi delle persone con disabilità, tre cose sono state interessanti: 1. Il desiderio da parte degli operatori di raccontare il lavoro quotidiano e allo stesso tempo la fatica nel raccontarlo, nel dire esattamente cosa fa un educatore. 2. L'emergere di una chiara esigenza da parte loro, di figure professionali che specificatamente lavorino sul territorio per individuare spazi, creare contesti, relazioni, come se questo aspetto non riguardasse invece il fare quotidiano di un educatore, che è invece preso da altro (lavoro sulle autonomie, gestione del gruppo, laboratori). 3. Il grande buco della formazione nella relazione con la persona con disabilità complessa, per chi lavora da molti anni nel centro diurno. Perché, secondo te, gli educatori non hanno nel loro fare quotidiano questo mandato sociale, di prossimità, di contesto? Non ce l'hanno o non riescono ad assumerlo e quindi a portarlo all'attenzione anche politica? Inoltre, raccontare il lavoro educativo ha a che fare anche con il saperlo documentare, con quell'attenzione educativa che fa del lavoro una ricerca sul campo? Altra cosa è la formazione obbligatoria, ad oggi non è chiara la formazione per chi vuole iniziare a fare questo lavoro, ma, sembra non sia abbastanza pretesa neanche dopo. Questa domanda contiene tutta la problematicità legata al riconoscimento. Mi fa pensare al dramma di Gerstein. Kurt Gerstien ne fu travolto; alla fine della guerra, finì in prigione così come capitava a tutti coloro che appartenevano alle SS. In prigione proclamò la sua testimonianza, cercò di spiegare quali erano state le sue intenzioni, che erano quelle di scoprire la verità dell’assassinio di massa delle persone con disabilità. L’operazione però non andò a buon fine e Gerstein, non creduto, ufficialmente si suicidò. Vi sono molti sospetti su questo suicidio giacché Gerstein aveva tentato più volte durante la sua operazione di coinvolgimento di mettersi in contatto con corpi diplomatici di vari paesi, compreso il Vaticano, e da tutti era stato rifiutato pur sapendo che cosa egli volesse anzi forse proprio perché sapevano che cosa avrebbe detto. In sostanza dunque era un testimone scomodo. Non aveva avuto riconoscimento. Dobbiamo intenderci sul riconoscimento. Non può tradursi nel compiere mansioni più nobili, lasciando quelle umili ad altri. Deve tradursi nella possibilità di portare a conoscenza ciò che le mansioni umili permettono di conoscere, senza dover “suicidare” la professione di Educatore. In altre parole, un educatore può cercare giustamente il riconoscimento. Può farlo cercando di abbandonare i compiti svolti finora. Può ritenere che fare qualche attività coniugabile con terapia significhi salire ai piani nobili. Desideri giusti, o fughe? Quello che era mancato a Gerstein era il riconoscimento per quello che faceva. Il riconoscimento dell’educatore deve essere per quello che fa, per farlo sempre meglio. Rispetto a questo tema della formazione, vorrei una tua opinione sul dibattito in corso in Italia. Il Ddl 2656 Iori-Binetti (testo unificato) "Disciplina delle professioni di educatore professionale, educatore professionale sanitario e pedagogista", è oggi in attesa dei pareri delle varie commissioni parlamentari[1]. Cosa pensa Andrea Canevaro, di questa proposta di legge che cambierà sicuramente lo scenario delle professioni educative, così denominate di “educatore professionale socio-sanitario” e di “educatore professionale socio-pedagogico? In particolare, qual è il tuo pensiero circa la formazione universitaria per l'educatore che questa legge, così formulata, comunque non definisce? È un importante passo avanti. Rompe l’immobilismo che tra l’altro teneva fortemente separate due figure di operatori, destinando una al sistema sanitario e l’altra nell’indefinito. Col risultato che la prima sembrava garantita ma raramente trovava lavoro, anche per il blocco delle assunzioni. La seconda, apparentemente senza garanzie, entrava nelle statistiche che dicono come quel titolo universitario porti a una alta percentuale di occupati, sia pure in forme non soddisfacenti. Ma questo è anche il problema dei servizi legati agli appalti e alle gare d’appalto. Questi problemi sono fortemente intrecciati. Alcune Regioni hanno cercato di risolverli inserendo indicazioni in proposito nelle disposizioni per ottenere l’accreditamento. Ottenibile unicamente se è presente un Educatore Sociale con titolo, cioè la laurea che era nel corso di laurea di Scienze dell’Educazione. Cosa ci si attende, ci si dovrebbe attendere, dal mondo universitario quando si impegna con chi ha “bisogni speciali”? Ci si attende una interpretazione per quel mondo delle leggi in vigore ma fatta con un’apertura alla lettura dei bisogni che forse, al momento in cui sono nate, quelle stesse leggi non potevano neppur conoscere. Ci si attende non un’esecuzione diligente, sovente autoreferenziale. Ma ci si attende contributi alla progettualità. E quindi accettazione di rischio. Ci si attende una maggiore attenzione al profilo professionale. Che non può confondersi col sostegno scolastico. Deve proporsi per contribuire alla realizzazione del progetto di vita. Il doppio binario formativo contribuisce al malinteso del doppio sistema, uno sanitario e uno socio educativo. Dovremmo realizzare un sistema unico. Anche tra i medici c’è chi mal sopporta la sanitarizzazione. E da più parti si invoca l’educazione alla salute. Che non coincide con la somministrazione di farmaci. Il doppio binario formativo apparentemente accontenta un’idea di università ferma a raggruppamenti disciplinari sovente antagonisti e da cui vengono derivati profili professionali legati alle logiche dei raggruppamenti. Partendo invece dall’analisi dei bisogni, dovremmo profilare professioni e ipotizzare percorsi formativi, iniziali e permanenti, liberati da quelle logiche dei raggruppamenti di cui sopra. Un'ultima domanda riguarda un pedagogista recentemente scomparso, Alian Goussot, una voce critica e puntuale sul sistema inclusivo scolastico e sociale, con una produzione di testi e articoli recenti che avevano, in questi ultimi anni, riportato all'attenzione di tutti le radici della pedagogia, soprattutto di una pedagogia speciale come "scienza delle mediazioni e delle differenze", una pedagogia dell'incontro, sociale, nonviolenta. Quale contributo lascia, secondo te, Alain? Alain è stato un formidabile passeur. Cioè una guida appassionata che permetteva collegamenti audaci e impensati. Vorrei citare un passo di un suo scritto che mi aveva inviato in forma amicale: Parli giustamente del ‘fatalismo sapiente’ di molti insegnanti cioè di quell’atteggiamento che parte comunque dall’implicita ‘ineducabilità’ della persona con disabilità. Ma coglierei anche l’aspetto vero di quell’atteggiamento: vero non dal punto di vista del presupposto epistemologico neanche da quello pratico-pedagogico. Vero nel senso che mi sembra che diversi colleghi (non solo a Scienze della formazione anche a Psicologia) dicono in breve: come fa uno che non parla, non sa scrivere, non vede ecc … a seguire un percorso di studi universitari? La domanda è legittima ma quello che è molto meno è il non detto e la conclusione: ‘forse è meglio che non ci siano studenti disabili perché non sarebbero comunque capaci di seguire’. Anche se questo nessuno osa ancora affermarlo esplicitamente ma attenti potrebbe arrivare.. La questione non è una questione di buonismo ma di creazione di condizioni che permettono l’accesso di tutti, dico di tutti, agli studi e alla possibilità di acquisire saperi e conoscenze. Quindi si tratta di nuovo di una questione di mediazioni e mediatori (vedi il nostro Vygotskij): anche i docenti universitari dovrebbero avere una sensibilità pedagogica in grado di creare quelle mediazioni e di fornire quei mediatori (ausili, organizzazione degli spazi … accompagnamenti, mezzi informatici), con altri ovviamente, che favoriscono l’accesso degli studenti disabili al curricolo universitario. Poi saranno valutati come gli altri tenendo conto di queste mediazioni e mediatori che ci devono essere se vogliamo garantire l’eguaglianza delle opportunità e i diritti di cittadinanza. [1] L'intervista è stata realizzata i primi giorni di giugno 2016, prima dell’approvazione del DdL alla Camera il 22 giugno. Il testo è ora all’esame del Senato. Appunti sulle politiche sociali Se apprezzi il nostro lavoro ti chiediamo di sostenerlo con l’abbonamento Alcuni articoli pubblicati nella rivista - Fausto Giancaterina, Garanzia dei diritti sociali e accompagnamento all’esistenza - Francesco Crisafulli, La professione educativa. Il diritto che sia riconosciuta e il bisogno di riconoscer-se-la. - Ennio Ripamonti, Immaginare i servizi che si vorrebbero per sé. L’esperienza della residenza anziani di Pinzolo - Elena Cesaroni, Protezione giuridica e amministrazione di sostegno. La necessità di una riflessione - Letizia Espanoli, Persone con demenza: dar casa al tempo fragile: errori da evitare, strade da percorrere - Sergio Tramma, Sui "conflitti” interni all’area del lavoro educativo e alla carenza di educatori/trici - Maurizio Motta, Riforme per la non autosufficienza: ma quali? - Fausto Giancaterina, Non più un welfare territoriale dove ancora sanitario e sociale non si parlano! - Tiziano Vecchiato, Volontariato, solidarietà, democrazia - Antonio Censi, Curare le ferite sociali degli anziani non autosufficienti - Angelo Lascioli, Alunni con disabilità. Il cambio di prospettiva dei nuovi modelli di PEI - Luca Fazzi, Il maltrattamento nelle strutture residenziali per anziani - Carlo Lepri, Diventare grandi. La condizione adulta delle persone con disabilità intellettiva - Gruppo Solidarietà, Ricordo di Andrea Canevaro - Fabio Ragaini, CAMBIARE PROSPETTIVA. A proposito di politiche, modelli, interventi, servizi - Roberto Medeghini, Scuola. Pratiche immunizzanti che favoriscono lo speciale e l’escludibile - Andrea Canevaro, La vista corta. Riflessioni su una delibera della Regione Marche - Fausto Giancaterina, Disabilità. Come superare le difficoltà attuative della legge 112. Una proposta - Gloria Gagliardini (a cura di), Raccontiamo noi l’inclusione. Storie di disabilità - Antonella Galanti, Mario Paolini, Un manicomio dismesso. Frammenti di vita, storie e relazioni di cura - Tiziano Vecchiato, La spesa assistenziale in Italia. Dati, riflessioni, proposte - Luca Fazzi, Ha senso un terzo settore senza un’idea di giustizia? - Andrea Canevaro, Dario Ianes, Giovanni Merlo, Salvatore Nocera, Vittorio Ondedei, Inclusione scolastica degli alunni con disabilità e scuole speciali - Giacomo Panizza, La crisi, i deboli, le istituzioni, la società - Andrea Canevaro, Le parole sono importanti, come le carezze. Lorenzo e Adriano Milani Comparetti - Sergio Tanzarella, Don Lorenzo Milani. Il suo messaggio, la sua eredità - Tiziano Vecchiato, La spesa assistenziale in Italia. Dati, riflessioni, proposte - Giovanni Merlo, Persone con disabilità. Dalla prestazione alla presa in carico - Cecilia M. Marchisio, Natascia Curto, Cittadinanza e reti per praticare il diritto alla vita indipendente Gli altri numeri Tutte le pubblicazioni del Gruppo Solidarietà Puoi sostenere il Gruppo Solidarietà con una donazione e con il 5x1000 codice fiscale 91004430426