Data di pubblicazione: 16/04/2025
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Esiste la guerra giusta? La Chiesa di fronte a una domanda ancora cruciale

Christian MELLON - Aggiornamenti sociali, Fascicolo di febbraio 2023Scarica pdf

Basandosi su un’interpretazione letterale del comandamento biblico Non uccidere e soprattutto di alcuni testi evangelici, come l’invito a porgere l’altra guancia o ad amare i nemici (Matteo 5,38-48), i pensatori cristiani hanno sostenuto in varie epoche che un discepolo di Gesù non può attentare alla vita di una persona, neanche di un nemico, in nessun caso, anche se fosse solo per difendersi. Questa posizione è stata maggioritaria fino al III secolo, per poi divenire minoritaria fino al suo ritorno in auge nel XX secolo. A partire dalla riflessione sull’esperienza della Seconda guerra mondiale e delle guerre di liberazione, i sostenitori di questa tesi si sono resi conto che è inutile condannare la violenza senza offrire alternative credibili alle sfide poste dagli atti di aggressione o dalle situazioni di ingiustizia strutturale. Scostandosi da una lettura fondamentalista del Discorso della montagna e richiamandosi alle lotte di Gandhi, Martin Luther King e altri, questi cristiani preferiscono allora parlare di nonviolenza invece che di pacifismo.

L’apertura alla resistenza nonviolenta

Nella costituzione pastorale Gaudium et spes del 1965, il concilio Vaticano II, prendendo atto di questo cambiamento di prospettiva, ha incoraggiato «coloro che, rinunciando alla violenza nella rivendicazione dei loro diritti, ricorrono a quei mezzi di difesa che sono, del resto, alla portata anche dei più deboli, purché ciò si possa fare senza pregiudizio dei diritti e dei doveri degli altri o della comunità» (GS, n. 78), utilizzando una formula contorta per evitare la parola nonviolenza. Il termine, tuttavia, appare nel 1971 nel documento sinodale La giustizia nel mondo:
«È assolutamente necessario che i conflitti tra le nazioni non siano risolti attraverso la guerra, ma siano trovate per essi altre soluzioni che siano conformi alla natura umana. Deve essere, inoltre, favorita la strategia della non violenza» (Sinodo dei vescovi 1971, n. 1296).


«Qualcuno potrà dirvi che la scelta della non violenza non è in definitiva altro che una passiva accettazione di situazioni d’ingiustizia. Potrà sostenere che è da vili non usare violenza contro ciò che è ingiusto, o rifiutare di difendere con violenza gli oppressi. Ma nulla potrebbe essere più lontano dalla verità. Non vi è nulla di passivo nella non violenza, quando è una scelta dettata dall’amore. Non ha nulla a che vedere con l’indifferenza». Giovanni Paolo II, Discorso ai giovani, Maseru (Lesotho), 15 settembre 1988

L’istruzione Libertà cristiana e liberazione, pubblicata nel 1986 dalla Congregazione per la Dottrina della fede, conferma questa posizione, anche se utilizza l’espressione meno appropriata di «resistenza passiva» per designare la resistenza nonviolenta. Negli anni ’70 e ’80, molti cristiani in America latina, incoraggiati da diversi vescovi, in particolare dom Helder Camara, vi hanno fatto ricorso per difendere i diritti umani violati dalle dittature militari. Nel febbraio 1986, i vescovi delle Filippine hanno sostenuto e organizzato una protesta nonviolenta a Manila per far cadere il regime del dittatore Marcos. In varie occasioni, Giovanni Paolo II l’ha elogiata, sottolineandone le radici bibliche [sull’argomento cfr Valpiana 2022, N.d.R.]).

Quando si può parlare di una guerra giusta?

Ma che dire della resistenza attraverso le armi? La dottrina della guerra giusta, sostenuta già da Aristotele e Cicerone e sviluppata da autori cristiani come Agostino, Tommaso d’Aquino, Francisco de Vitoria, consiste in una serie di criteri per giudicare quando è moralmente lecito ricorrere alle armi (jus ad bellum) e quali limiti devono essere rispettati nel loro impiego (jus in bello). Queste riflessioni hanno contribuito all’elaborazione del diritto internazionale della guerra. Tuttavia, per i moralisti cattolici, la conformità di una decisione al diritto internazionale, pur essendo molto importante, non è dirimente: può verificarsi che una decisione presa da un potere legittimo in conformità al diritto non sia moralmente giusta e, viceversa, che possa essere giudicato legittimo un ricorso alle armi non permesso sul piano giuridico. Per la Chiesa vanno tenute in conto altre condizioni, che devono essere tutte soddisfatte.

Prima di tutto, la giusta causa. L’unica oggi accettata è la legittima difesa: «una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa» (GS, n. 79). La Chiesa riconosce anche che un popolo possa legittimamente ricorrere alle armi per liberarsi dal potere di un tiranno che lo opprime. Questo caso è stato evocato nell’enciclica Popolorum progressio del 1967 da Paolo VI, ma come eccezione alla condanna dell’insurrezione rivoluzionaria: «salvo nel caso di una tirannia evidente e prolungata che attenti gravemente ai diritti fondamentali della persona e nuoccia in modo pericoloso al bene comune del Paese» (PP, n. 31).

I conflitti armati degli anni ’90 hanno condotto le autorità ecclesiastiche a porsi nuove domande sulla nozione di legittima difesa: si tratta solo dell’autodifesa o anche della difesa di un terzo che è stato ingiustamente attaccato? Su questo tema fortemente dibattuto, conosciuto come dovere di ingerenza, poi ribattezzato responsabilità di proteggere dall’ONU [cfr Christiansen 2022, N.d.R.], Giovanni Paolo II ha preso una posizione chiara. Nel 1993, in riferimento al conflitto bosniaco, ha affermato: «Una volta che tutte le possibilità offerte dai negoziati diplomatici, i processi previsti dalle convenzioni e dalle organizzazioni internazionali sono stati attuati, e nonostante ciò le popolazioni stanno soccombendo sotto i colpi di un aggressore ingiusto, gli Stati non hanno più il “diritto all’indifferenza”. Sembra che il loro dovere sia quello di disarmare l’aggressore, se tutti gli altri mezzi si sono dimostrati inefficaci. I principi di sovranità degli Stati e di non ingerenza nei loro affari interni – che sono ancora di grande valore – non possono essere usati come paravento dietro cui è possibile torturare e uccidere» (Giovanni Paolo II 1993, n. 13).

L’espressione «disarmare l’aggressore» pone un limite rigoroso: non appena l’aggressore è disarmato (e quindi non può più nuocere), non è più giustificata la prosecuzione dell’azione militare, per perseguire ulteriori obiettivi, come la caduta di un regime totalitario, l’acquisizione di territori o risorse, l’estensione di un’area di influenza, ecc. Questo criterio della retta intenzione, raramente invocato, è difficile da verificare e da rispettare. La guerra scatenata nel 2003 dall’amministrazione Bush contro l’Iraq ha fornito l’occasione per chiarire un altro limite del principio di autodifesa: esso non può legittimare una guerra preventiva.

Un altro criterio importante è quello dell’ultimo ricorso: nessun uso delle armi è legittimo se esiste un altro mezzo non letale per disarmare l’aggressore. Ma come possiamo essere sicuri che tutte le possibilità di una soluzione pacifica siano state esaurite?

I criteri della proporzionalità e della speranza di successo

Un ulteriore elemento è dato dalla nozione di proporzionalità: il rimedio non deve essere peggiore del male. Può accadere, come ha affermato Pio XII (1953), che si abbia «l’obbligo di subire l’ingiustizia». Vi ha fatto riferimento anche Giovanni Paolo II nel discorso agli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede a proposito della prima guerra del Golfo (1990-1991). Dopo aver sottolineato che le operazioni militari sarebbero state «particolarmente sanguinose, senza contare le conseguenze ecologiche, politiche, economiche e strategiche», ha ricordato che «il ricorso alla forza per una giusta causa non sarebbe ammissibile che se questo ricorso fosse proporzionale al risultato che si vuole ottenere, e se si pesassero le conseguenze che azioni militari, rese sempre più devastatrici dalla tecnologia moderna, avrebbero per la sopravvivenza delle popolazioni e dello stesso pianeta» (Giovanni Paolo II 1991, n. 8). Questo principio svolge un ruolo essenziale nella condanna di qualsiasi uso di armi di distruzione di massa, anche per la legittima difesa.

Il criterio dell’autorità legittima mira a proibire le guerre private: la decisione di ricorrere alle armi compete solo a coloro che detengono la legittima autorità, in quanto garanti del bene comune. La Gaudium et spes riconosce il diritto della legittima difesa ai Governi, ma il Concilio specifica subito che questo vale finché «non ci sarà un’autorità internazionale competente, munita di forze efficaci» (GS, n. 79). L’ONU può essere identificata, nel suo stato attuale, con questa autorità pubblica con una competenza universale? È proprio l’aggiramento delle Nazioni Unite da parte dell’amministrazione Bush nel 2003, in occasione della seconda guerra del Golfo, che ha condotto Giovanni Paolo II a condannare l’iniziativa statunitense.

Infine, la speranza di successo: la decisione di ricorrere alle armi è moralmente giusta solo se ci sono serie ragioni per ritenere che porterà al disarmo dell’aggressore. I testi contemporanei della Chiesa non menzionano quasi più questo principio di saggezza, ma un documento pubblicato nel 2000 dalla Conferenza episcopale francese vi fa riferimento per confutare l’idea che gli interventi stranieri siano immorali perché mirano a salvare alcuni e non altri (l’argomento del doppio standard: salviamo i kosovari, ma abbandoniamo i tibetani al loro oppressore): «La valutazione etica deve tenere conto del “prevedibile successo” delle operazioni. Questo non è cinismo. Il vecchio adagio secondo cui nessuno è tenuto a fare l’impossibile non è solo Realpolitik, ma anche un principio etico. Disprezzarlo significherebbe promuovere un’idea pericolosa: si dovrebbe sempre fare qualcosa “per principio”, anche nei casi in cui il rapporto tra le forze suggerisce che non c’è alcuna possibilità di sottrarre le vittime ai loro aguzzini con la forza armata» (Justice et Paix France 2000).

La distinzione tra atti e crimini di guerra

Una volta giustificato il principio dell’intervento armato resta da delimitare ciò che è consentito o meno quando si ricorre alle armi (jus in bello). L’intero sviluppo del diritto internazionale della guerra si basa sulla differenza tra atti e crimini di guerra. Questa riflessione incorpora soprattutto il principio di discriminazione, cioè di distinzione, tra combattenti e non combattenti, per evitare che vi siano vittime “non necessarie”. Tale principio è presente nei regolamenti delle forze armate di quasi tutti gli Stati moderni ed è al centro delle riflessioni contemporanee sull’etica della guerra, di matrice religiosa e non.

La sua base è semplice: se si accetta che il rispetto di ogni vita umana è un requisito fondamentale di ogni etica, allora si deve ammettere il minor numero possibile di eccezioni. Pertanto, è possibile colpire in modo intenzionale solo gli autori dell’aggressione, del genocidio, del massacro o pulizia etnica che si vuol far cessare. Tutti gli altri sono innocenti nel senso etimologico del termine: non nuocciono, perché non hanno alcun ruolo nell’aggressione da fermare.

Questo principio è invocato molto spesso nei testi della Chiesa, specie nella Gaudium et spes. Per il Concilio questo limite è imperativo. Se per difendersi vengono commessi atti che danneggiano deliberatamente non combattenti, non si tratta più di atti di guerra ma di crimini di guerra. Il rifiuto di obbedire diventa allora un dovere morale: «Deve essere sostenuto il coraggio di coloro che non temono di opporsi apertamente a quelli che ordinano tali misfatti» (GS, n. 79). La Chiesa fa proprio così il principio di Norimberga: quando un esecutore riceve l’ordine di compiere atti criminali, non può sottrarsi alla propria responsabilità con il pretesto di aver semplicemente obbedito agli ordini di un superiore. Ciò vale in primo luogo per la strategia definita “anti-città”, che il Concilio condanna con particolare solennità: «Ogni atto di guerra, che mira indiscriminatamente alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e va condannato con fermezza e senza esitazione» (GS, n. 80). Questa valutazione si riferisce anche al passato, alla morte dei civili a Dresda, Amburgo o Tokyo, nonché a Hiroshima e Nagasaki.

Il rispetto di questo principio di discriminazione non è scontato oggigiorno, visto che i conflitti armati spesso contrappongono eserciti regolari a guerriglieri o milizie, e i combattenti non sono facilmente distinguibili dalle popolazioni non combattenti. Inoltre, la potenza militare di un Paese dipende, molto più che in passato, da molteplici fattori che si intrecciano con l’attività civile ordinaria: ricerca, comunicazioni, capacità produttiva, ecc. Queste evoluzioni, che rendono il confine tra combattenti e non combattenti meno chiaro che in passato, non possono essere ignorate dal giudizio morale: tuttavia non è che questo confine non esista più per il fatto di essere diventato più labile.

«Una mentalità completamente nuova»

Quanto fin qui abbiamo visto mostra che il magistero contemporaneo considera ancora attuale l’apparato concettuale sviluppato nel corso dei secoli a proposito della guerra giusta, almeno fino all’avvento di papa Francesco. Ci si può quindi interrogare sul significato della formula conciliare che invita a «considerare l’argomento della guerra con mentalità completamente nuova» (GS, n. 80). In che cosa consiste la novità?

In realtà, ciò che sembra «completamente nuovo» è che la Chiesa, senza abbandonare i suoi vecchi criteri, ora ne propone un’applicazione così rigorosa che i casi in cui il ricorso alle armi li soddisfa tutti diventano estremamente rari. La mentalità nuova consiste quindi nel dare al polo della limitazione la netta preminenza sul polo della legittimazione (che avrebbe dovuto sempre avere): una coscienza cristiana può legittimare un’attività così contraria al Vangelo solo se sussistono le circostanze del tutto eccezionali definite dal jus ad bellum.

Vi è un’altra manifestazione di questa «mentalità completamente nuova»: l’espressione guerra giusta è desueta, quasi scomparsa dal magistero cattolico ufficiale. Per i Padri conciliari non si tratta più di accontentarsi di umanizzare la guerra, ma di puntare a sradicarla. Nella frase in cui riconosce il diritto alla legittima difesa, il Concilio introduce un inciso che può sembrare anodino: «fintantoché esisterà il pericolo della guerra» (GS, n. 79). Queste parole rifiutano l’idea che la guerra sia così insita nella natura umana da poter essere solo regolamentata. Ecco perché l’aggettivo “giusto”, che evoca qualcosa di positivo, non può più essere accostato al sostantivo “guerra”: la guerra è un male, a volte un male minore, ma sempre un male. Quali sono le ragioni di questo cambiamento? Innanzitutto, l’avvento, nell’ultimo secolo, della guerra totale, che coinvolge l’intera società e non solo i militari, e che quindi mina i principi di proporzionalità e discriminazione. Lo sviluppo delle armi di distruzione di massa, in particolare quelle nucleari, ha aumentato notevolmente questa consapevolezza.

La posizione di papa Francesco

Dall’inizio del pontificato di papa Francesco, questa «mentalità completamente nuova» è stata espressa in modo ancor più chiaro. In diverse occasioni, il Papa ha condannato il ricorso alle armi come risposta alla violenza. Nel suo messaggio per la Giornata mondiale della pace del 2017, ad esempio, ha affermato che «rispondere alla violenza con la violenza conduce, nella migliore delle ipotesi, a migrazioni forzate e a immani sofferenze, poiché grandi quantità di risorse sono destinate a scopi militari e sottratte alle esigenze quotidiane dei giovani, delle famiglie in difficoltà, degli anziani, dei malati, della grande maggioranza degli abitanti del mondo. Nel peggiore dei casi, può portare alla morte, fisica e spirituale, di molti, se non addirittura di tutti» (Papa Francesco 2017). Nel Messaggio Urbi et Orbi per la Pasqua 2021, il Pontefice usa l’aggettivo “scandaloso” in riferimento ai conflitti armati che non cessano e agli arsenali militari che vengono potenziati. Nell’enciclica Fratelli tutti, affronta la questione della guerra giusta in questi termini: «oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile “guerra giusta”» (FT, n. 258). È una rottura con quanto detto dai suoi predecessori? Le parole di papa Francesco vanno soppesate con attenzione: ritiene «molto difficile» difendere «i criteri razionali», ma non impossibile. L’impiego di un termine di questo tipo equivarrebbe logicamente a dichiarare che non è mai ammissibile l’uso delle armi (anche nel caso di resistenza a un’aggressione armata o di intervento per fermare un genocidio) e che, quindi, la professione militare è incompatibile con l’etica cristiana. Il Papa non si spinge così lontano, ma compie un ulteriore passo nell’evoluzione descritta in precedenza: più è difficile rispettare i «criteri razionali», più rare, o addirittura eccezionali, sono le situazioni che giustificano l’uso della violenza armata.

Titolo originale: «La “guerre juste” existe-t-elle ? Ce que dit l’Église», in Choisir, 705 (2022) 21-27. Traduzione dal francese e riduzione di Giuseppe Riggio SJ. Neretti e riquadri a cura della Redazione.

Risorse

FT = Papa Francesco, enciclica Fratelli tutti, 2020.

GS = Concilio Vaticano II, costituzione pastorale Gaudium et spes, 1965.

PP = Paolo VI, enciclica Populorum progressio, 1967.

Papa Francesco (2021), Messaggio Urbi et Orbi per la Pasqua, 4 aprile.

(2017), La nonviolenza: stile di una politica per la pace. Messaggio per la Giornata mondiale della pace, 1° gennaio.

Giovanni Paolo II (1993), Discorso ai membri del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 16 gennaio.

(1991), Discorso ai membri del corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 12 gennaio.

(1988), Discorso ai giovani durante il viaggio apostolico in Lesotho, 15 settembre.

Justice et Paix France (2000), Dossier de réflexion sur les interventions militaires extérieures, Parigi, 8 maggio.

Pio XII (1953), Discorso al XVI Congresso dell’Ufficio internazionale di documentazione di medicina militare, 19 ottobre.

Sinodo dei Vescovi (1971), «La giustizia nel mondo», in Enchiridion Vaticanum, vol. 4, Documenti ufficiali della Santa Sede 1971-1973, EDB, Bologna 1978, nn. 1238-1308.

Christiansen D. (2022), «Responsabilità di proteggere: una risposta non solo militare», in Aggiornamenti Sociali, 4, 230-232.

Hansen L. (2018), «La nonviolenza evangelica», in Aggiornamenti Sociali, 12, 857-860.

Valpiana M. (2022), «No alla guerra, no alla resa. La via della nonviolenza attiva», in Aggiornamenti Sociali, 5, 319-324.


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