Persone con demenza: dar casa al tempo fragile: errori da evitare, strade da percorrere di Letizia Espanoli. In "Appunti sulle politiche sociali, n. 1/2023 (242) . Gli altri numeri della rivista. Per ABBONARSI. Gli errori che spesso le organizzazioni compiono quando si accingono ad aprire un nucleo per persone con demenza è pensare: “se li mettiamo tutti insieme andrà meglio”. È un’ottima idea di partenza. Ma, come sempre, il “come” sarà la strada da compiere. Gli errori commessi allora sono frutto dell’assenza di idee e progetto complessivo capace di dare evidenza delle azioni strategiche tra l’ideazione e la realizzazione. PUOI VEDERE IL VIDEO DELLA PRESENTAZIONE (24 ottobre 2023) del libro, LA GENTILEZZA NELLE RELAZIONI DI CURA, Storie, studi e metodo come antidoto ai maltrattamenti, edizioni Dapero. Letizia Espanoli dialoga con Fabio Ragaini (Gruppo Solidarietà). SCARICA LA LOCANDINA. PUOI RIVEDERE I VIDEO degli ultimi incontri promossi dal Gruppo Solidarietà Le residenze per anziani del nostro paese faticano a diventare “farfalle”. Molte restano ostinatamente bruchi con la loro “indefinita” bruttezza, i loro arredi di comunità, la loro incapacità di creare giornata di vita degne di essere vissute per residenti, professionisti e famigliari e soprattutto per le persone che vivono con demenza per le quali la contenzione fisica e farmacologica spesso restano l’unica strada percorsa. Cosa porta nel cuore chi crede che una persona sia “de-mente” ovvero “fuori dalla propria mente”? Pensa che queste persone non capiscano, non percepiscano emozioni e sensazioni, siano “vuote” e che, persa la ragione e il linguaggio esse siano “ridotte a nulla”. E con questi pensieri nel cuore costruirà la “non relazione”. L’idea drammatica è che nella mente di chi assiste si fa così strada la viscida credenza che mina ogni possibilità di cura, ovvero che per queste persone non si possa fare nulla e che solo un “farmaco” possa “tranquillizzarle”. Quando le persone che operano in prima linea sono possedute da questo virus, la strada verso l’impotenza e il burn out è tracciata. L’autoefficacia, cosi preziosa per la qualità del lavoro, per la capacità di assegnare significati al nostro agire è ogni giorno sempre più debole e fragile. La certezza che la malattia avanzerà e, giorno dopo giorno, ridurrà i residenti a delle larve umane, oppure la necessità che queste persone vengano stimolate cognitivamente attraverso ripetute sessioni di domande (che spesso altro non creano che un sentire interiore di inadeguatezza e tristezza nella persona) o peggio ancora che per loro sia necessario creare una giornata colma di attività come in un villaggio turistico sono solo alcuni dei pensieri che indicano quanta strada sia ancora necessario compiere per comprendere queste persone e per costruire per loro reali spazi di accoglienza chiamati nuclei speciali. Gli errori da evitare Gli errori che spesso le organizzazioni compiono quando si accingono ad aprire un nucleo per persone con demenza è pensare: “se li mettiamo tutti insieme andrà meglio”. È un’ottima idea di partenza. Ma, come sempre, il “come” sarà la strada da compiere. Gli errori commessi allora sono frutto dell’assenza di idee e progetto complessivo capace di dare evidenza delle azioni strategiche tra l’ideazione e la realizzazione. È un concetto importante questo per realizzare progetti capaci di spessore. Non speriamo in un futuro migliore. Noi costruiamo con Speranza un Futuro migliore. Per la mia esperienza i maggiori errori che ho visto commettere, quando le organizzazioni si lanciano nell’avventura sono: - Non chiarezza degli obiettivi assistenziali clinici del nucleo (che cos’è il nucleo nella letteratura internazionale, a quali caratteristiche deve rispondere, quali sono gli obiettivi realistici che possiamo porci). - Non chiarezza dei criteri di accoglienza e dimissione dal nucleo (non basta una diagnosi di demenza per essere accolti nel nucleo). - Ambiente non idoneo per spazi e scelta degli arredi con conseguenza assenza di spazi terapeutici (non basta identificare uno spazio, mettere una porta a codice. Serve una cultura dell’ambiente capace di benessere per queste persone, servono alcuni elementi fondamentali che possono dare benessere, servono spazi che non “ammassino” gli individui, serve bellezza terapeutica). - Non è presente la raccolta biografica e autobiografica come strumento di lavoro con il residente con conseguente non conoscenza delle sue abitudini (se non imparo ad accogliere la persona e fare della sua storia un faro per la creazione della sua giornata di vita, se non analizzo le sue routine e mi impegno a mantenerle l’esplosione del disturbo del comportamento sarà sempre dietro l’angolo). - Il periodo del Covid ha interrotto la progettualità dei Progetto di Assistenza Individualizzata creando senso di “abbandono” degli operatori che non hanno indicazioni rispetto a quali soluzioni trovare ai “disturbi del comportamento” (il progetto di assistenza individualizzata è visto spesso come un adempimento e non come uno spazio di pensiero collettivo nel quale si analizzano i problemi, si creano ipotesi e si definiscono linee di intervento interdisciplinari). - Il personale non ha ricevuto una formazione specifica e adeguata alla comprensione dei significati da dare ai disturbi del comportamento (è la chiave di volta, è la strada unica da percorrere. Iniziare a porsi domande nuove, assegnare significati diversi, comprendere quale ruolo ambiente, dolore, resistenza all’assistenza possano avere nell’insorgenza dei disturbi del comportamento). Se uso “la terapia non farmacologica” con lo stesso processo logico con cui utilizzo la “contenzione farmacologica” e quindi come “spegnimento” di un disturbo del comportamento potrei non essere sulla strada giusta per comprendere cosa quel comportamento mi sta comunicando: “E se fosse dolore fisico, e se fosse disagio nel pranzare con così tante persone?”. - Il personale non ha ricevuto formazione adeguata alla scrittura delle consegne in modo strategico per la comprensione della persona accolta (se riassumo tutto in “non ha dormito tutta la notte”, “durante il bagno aggressivo”, “wandering tutto il pomeriggio”, “agitata”, “aggressiva” verso gli operatori durante il bagno” non arriverò mai alla comprensione del linguaggio che si cela dietro al disturbo del comportamento. Solo una formazione che “riscriva le regole delle consegne”, cosa osservare e come descriverlo ci offrirà una strada). - Il disturbo del comportamento non è misurato per comprendere la sua evoluzione. eppure la letteratura scientifica è ricca di stimoli per imparare a “oggettivizzare”. Non ci sono T0 (misurazione iniziali da comparare con le successive per rendere evidenti i risultati ottenuti) capaci di dare evidenza che le scelte terapeutiche che facciamo siano efficaci. L’efficacia è un numero, non un “secondo me va meglio”. - Non esiste una modalità di accoglienza del nuovo residente in grado di creare da subito un modello di osservazione adeguato (non si trova una procedura di accoglienza in grado di definire cosa osserviamo di quella persona nei primi giorni, come i singoli professionisti valutano lo stato dell’essere, come vengono valutate le competenze e le risorse emotive della persona accolta, come gli operatori dovranno interagire e aiutare questa persona a trovare un posto nella sua nuova comunità?). - Gli animatori sono occupati nell’accoglienza delle famiglie e, a oggi, non vi è un animatore dedicato al nucleo (in questi anni di Covid, gli animatori ed educatori sono stati coinvolti nelle video chiamate, sono stati ponti tra l’esterno e l’interno. Ma la loro presenza per creare serenità, contatto, vita all’interno del nucleo è fondamentale). - Gli infermieri non sono assegnati al nucleo. È importante una cultura condivisa rispetto all’intervento infermieristico nel nucleo in merito al dolore, ai lassativi, alla nutrizione, alla contenzione fisica o farmacologica al bisogno. - I fisioterapisti non sono assegnati al nucleo. Eppure essi sono gli esperti del movimento che è vita anche per le persone con demenza. Ecco perché il fisioterapista nel nucleo deve diventare l’esperto della stabilità, della prevenzione delle cadute e di come non arrivare alla contenzione che non è protezione, è contenzione fisica e quindi antitetica alla cura. - È incerta la modalità che porta alla contenzione farmacologica. Se la terapia non è prescritta per il benessere delle persone, ma per la tranquillità dell’organizzazione c’è qualcosa che non funziona. Se è prevista per il giorno del bagno senza aver valutato prima lo squallore del bagno e la sua necessaria trasformazione ambiente, la formazione degli operatori rispetto al bagno felice è reale contenzione farmacologica non terapia. - La contenzione fisica ha bisogno di un progetto culturale per potersi ridurre per il benessere dei residenti. Anche qui il frame potrebbe essere da stanare e rigenerare. La contenzione vista come protezione è un grande atto di mediocrità. Cambio la parola, ristrutturo la coscienza e rendo più dolce l’atto del legare. Ma come può sentirsi questa persona? È così difficile pensare che aumenterà la sua agitazione psicomotoria? È difficile pensare che aumenterà episodi di re-attività, urlo, angoscia? - Il bagno speciale risulta inadeguato per questo tipo di persone. Quanta meravigliosa letteratura c’è sul bagno speciale e quanta assenza di pensiero nelle residenze per anziani. Solo un profondo conoscitore di come una persona percepisca la realtà esterna, solo un professionista che desideri creare occasioni di vita nella residenzialità può riuscire a pensare a un ambiente che sappia evocare serenità e benessere. Avere consapevolezza dell’unicità della persona, ci permetterà di vivere la vita nella sua pienezza. Insidie e opportunità In questa logica, anche l’ambiente ci racconta le sue insidie o le sue opportunità. Condivido con te alcuni appunti di una visita che feci all’interno di una residenza per anziani del nord Italia alcuni anni fa (la richiesta del direttore era un corsetto di formazione per gli oss sulle demenze): “Ammassati tutti in salone per poterli avere tutti sott’occhio. Chi vaga, chi parla da solo, chi vocalizza. L’operatore dietro al bancone (ma ti pare che debba esistere un bancone per gli operatori). Nel suo piano di lavoro, in questa fascia oraria, c’è scritto “sorveglianza”. La tv è accesa nell’angolo, non la guarda nessuno. L’audio in sottofondo parla dell’ennesimo femminicidio. Radio DJ, con un volume più alto, mescola un altro suono. Alcune persone che sono contenute, vicino alla radio, stanno vocalizzando con maggiore forza: “Aiuto, aiuto, qualcuno mi aiuti”. Gli arredi sono tutti “misti”, sembrano appartenere a epoche diverse, non ci sono oggetti, i quadri sono senza senso. Sembra un luogo senza anima. Ci sono sedie diverse. Estintori, cartelli della sicurezza sono ovunque, posti in modo confuso. Gli odori che vengono incontro sono misti, acri. Nei corridoi le mura cantano storie di squallore. Entro in una camera. È spoglia. Nessuna personalizzazione (mi dicono che per la sicurezza non si può). Sopra ogni letto, la scheda assistenziale (chissà poi perché tutti devono sapere). Sugli armadi, i segni di etichette messe e tolte da anni. Lo scotch è ovunque. Alcuni bagni dei residenti sono pieni di carrozzine, sembrano quasi dei depositi. Il bagno speciale non è per nulla speciale: puzza di urina, non ha un elemento di arredo di bellezza (non mi meraviglierei se scoprissi che gli operatori qui hanno gesti poco carini verso i residenti). Sono le 17.50 e tutti sono già a tavola, gli operatori con i guanti e il grembiule in piedi ad aspettare. Piatti bianchi, senza tovaglie (perché altrimenti le tirano giù) e ciascuno con la bavaglia (perché qui è possibile che la biografia nemmeno sappiamo cos’è). Mi chiedo, se mangia alle 18.00 e farà colazione alle 8.30 non avrà fame stanotte? Mi guardo attorno, sembrano meno di quanti dovrebbero essere. Metà residenti sono già a letto perché stanno più tranquilli, mi risponde l’infermiere. (Chissà quanto deve essere doloroso per le loro schiene stare così tanto a letto). Qui, se non si cambia la cultura e l’ambiente, un corsetto non servirà proprio a nulla. È tempo di imparare. È tempo di co-progettare e miscelare competenze” Ecco perché nel libro “Dar casa al tempo fragile” (edizioni Dapero, 2022) ho voluto raccontare le tantissime sfumature che una direzione di valore deve considerare per dar vita all’esperienza del nucleo. Ne sintetizzi di seguito tre lasciando alla lettura del libro l’analisi della moltitudine di accortezze che possono diventare accuratezza in azione e quindi reale Cura. Rendi luminosi i miei spazi. La luce è importante per il mio benessere. Un elemento da non sottovalutare per realizzare uno spazio di vita per le persone con demenza è la luminosità. L'esposizione alla luce è uno stimolo per i ritmi circadiani, la soppressione della produzione di melatonina pineale, l'elevazione del nucleo del corpo temperatore, e il miglioramento della vigilanza. Un aumento dell'illuminazione oltre i livelli normali migliora i modelli di sonno e riduce i sintomi comportamentali e psicologici della demenza. I residenti con demenza sono in genere esposti a livelli di illuminazione notevolmente inferiori a quelli raccomandati (cioè < 2.000 lux) e quindi trascorrono la maggior parte delle loro giornate in condizioni di luce fioc9, che ha un impatto negativo sia sul piano emotivo che sul benessere in generale. L'esposizione a livelli di illuminazione più elevati (ad esempio, attraverso l'uso di una scatola luminosa brillante che va da 2.500 a 10.000 lux), è associata a una migliore qualità del ritmo circadiano e all'umore, a un maggiore consolidamento del sonno notturno, a un aumento della veglia diurna, della vigilanza e dei punteggi MMSE e a una diminuzione dell'agitazione e del comportamento dirompente0. Allo stesso modo, l'esposizione alla luce intensa per tutto il giorno ha dimostrato di aumentare la durata totale del sonno, diminuire l'irrequietezza e fornire benefici nell'umore, nella cognizione e nel declino. Crea una cucina terapeutica: il cibo è per molto di più di un sapore. Le caratteristiche fisiche della sala da pranzo SCU possono contribuire a far sì che i residenti formino relazioni sociali significative (Amella, 2006; Moore, 1999). Ecco perché l’ambiente della cucina terapeutica attrezzata è un elemento fondamentale per la creazione di una giornata di vita ricca di vita. Il cibo e l'atto di cucinare hanno un significato potente per gli anziani. Il cibo definisce la cultura, la storia familiare e le tradizioni. Per molti, cucinare significa valore fondamentale, immagine di sé e identità di ruolo. Anche il cibo è connesso con sentimenti di amore, piacere e divertimento, vacanze, celebrazioni, famiglia e spiritualità. La cucina può essere considerata come qualcosa da condividere, poiché le ricette di famiglia spesso hanno una storia interconnessa alla storia di vita. Le interazioni sociali e le esperienze normalizzate migliorano la qualità della vita fornendo agli individui opportunità per raggiungere la felicità, un senso di scopo e uno stato di benessere. Esperienze di terapia ricreativa legata alla cucina terapeutica hanno dimostrato di alleviare lo stress, migliorare la funzione fisica, ridurre la depressione e cambiare il comportamento negli anziani adulti con demenza che vivono in contesti residenziali. Non ridurre il bagno ad un luogo squallido per momenti colmi di paura e di angoscia. Il bagno, come l’igiene personale, rappresentano i momenti di maggiore angoscia per le persone che vivono con la demenza. I ricercatori hanno visto che sono diversi i fattori che contribuiscono a creare questa difficoltà: a) dolore da condizioni muscoloscheletriche, come l'artrite delle dita dei piedi, delle ginocchia e del collo b) affaticamento e debolezza causati da fragilità e altre condizioni mediche c) paura e incomprensioni a causa della perdita di memoria, declino cognitivo, precedente esperienza negativa o una combinazione di questi d) ansia e apprensione a causa di fattori come la paura di cadere, essere trasportati in una zona rumorosa, essere nudi di fronte a estranei ed essere sollevati in aria e) fastidio causato dall'aria fredda, piena di spifferi o dai forti spruzzi della doccia. Sempre i ricercatori hanno visto come la formazione dell’operatore e dell’infermiere sia strategica e che non sia corretto far fare il bagno contro desideri dell’anziano, a meno che non ci sia un motivo di salute acuto e convincente per farlo. A loro parere fare il bagno in queste condizioni costituisce un abuso. I ricercatori si augurano che il loro studio incoraggi gli infermieri a pensare in modo creativo su come personalizzare l'assistenza e informare e supportare coloro che forniscono assistenza diretta. Allestire nel bagno speciale una postazione audio sarà fondamentale per usare la musica che può diminuire l'agitazione e migliorare l'umore, ed aumentare la soddisfazione professionale. L’ambiente del bagno risponderà alle seguenti domande in modo organizzato e funzionale: a) è organizzato solo per essere comodo per gli operatori oppure offre bellezza, sicurezza, confort anche al residente? b) è simile a un bagno di casa? La finestra ha una tenda (intimità)? c) la vasca e /o la doccia si presentano sicure oppure avrò paura (niente è più spaventoso per una persona con demenza capace di movimento di una barella doccia – è così difficile comprenderlo?) d) capelli da lavare separatamente o insieme? e) capelli da risciacquare con la testa reclinata in avanti o indietro? f) ci sono strategie particolari per tagliare le unghie dei piedi? Sono le domande che in fase di accoglienza devono essere fatte ai famigliari, sono le domande che devono orientare il processo di osservazione gli operatori e la creazione di una scheda assistenziale in grado di evidenziale queste unicità. L’uniformazione della Cura è antitetica alla personalizzazione. Aprire un nucleo Alzheimer che non è qualcosa che si fa con una delibera. È un viaggio culturale tra entusiasmo e tenacia, tra flessibilità e metodo. Non è qualcosa che accade in una notte, perché le idee impiegano tempo a radicare e la trasformazione e l’innovazione talvolta è desiderata più a parole che non nella sua intima e sradicante essenza. È qualcosa del quale dovrai impegnarti ad avere cura costante. Il nucleo perennemente composto da piccoli germogli di cui avere cura. Un essere vivo, in costante evoluzione, con i suoi momenti di sconforto e con le sue innumerevoli acrobazie, con i suoi desideri e con i suoi venti che talvolta ti spingono innanzi e altre volte ti costringono ad aumentare l’intensità del cammino perché sfavorevoli. Una sola cosa non dovrai mai pensare, una sola cosa non dovrai mai fare: credere di essere arrivato. Vedi anche: Ennio Ripamonti, Immaginare i servizi che si vorrebbero per sé. L’esperienza della residenza per anziani di Pinzolo, In “Appunti sulle politiche sociali”, n. 4/2022 Antonio Censi, Curare le ferite sociali degli anziani non autosufficienti, in, Appunti sulle politiche sociali, n. 1/2022 (238) Luca Fazzi, Il maltrattamento nelle strutture residenziali per anziani, in Appunti sulle politiche sociali", n. 4/2021 (237) --------- La gran parte del lavoro per realizzare questo sito è fatto da volontari, ma non tutto. Se lo apprezzi e ti è anche utile PUOI SOSTENERLO IN MOLTO MODI. Clicca qui per ricevere le news del Gruppo Solidarietà.