Persone malate e non autosufficienti. Presa in carico e continuità assistenziale In, "Appunti sulle politiche sociali", n. 5/2014. Puoi sostenere il nostro lavoro con l'abbonamento Pietro Landra, geriatra, Torino Persone malate e non autosufficienti. Presa in carico e continuità assistenziale Come può esercitarsi davvero la “presa in carico”, come riuscire a rispondere in maniera adeguata alle necessità ed ai diritti delle persone malate che necessitano di percorsi di cura? Quale modalità organizzativa per le  unità di valutazione? Su questi e altri aspetti abbiamo posto alcune domande a Pietro Landra già direttore della geriatria territoriale in un’ASL del Piemonte (a cura di Fabio Ragaini) Vorrei confrontarmi con te, su alcuni aspetti riguardanti la continuità delle cure e l’organizzazione dei servizi domiciliari, diurni e residenziali per persone malate e non autosufficienti. Se dovessi elencare i punti  fondamentali di un adeguato sistema di cura quali aspetti evidenzieresti. Permettimi una premessa: La mia regione è il Piemonte, è li che vivo e lavoro in campo geriatrico dagli anni '70. Nel campo dei servizi a favore dei malati cronici non autosufficienti ho assistito e partecipato alla crescita impetuosa di risposte e soluzioni innovative, supportata da un movimento culturale che aveva come presupposto il riconoscimento dei diritti alle cure. Purtroppo, negli ultimi anni, questa crescita si è arrestata e di conseguenza si sono allungati i tempi di attesa, si è esasperato l'aspetto burocratico ed i diritti sono sempre più disattesi. Contestualmente non si è provveduto a rivedere “in toto” il sistema sanitario, a ottimizzare i percorsi ed a eliminare i veri sprechi. Per rispondere alla domanda direi quindi che il punto fondamentale è che la sanità riconosca pienamente lo status di malato anche ai malati cronici. Anche a costo di apparire “demodé” ricordo che una sanità veramente efficace deve non trascurare la prevenzione. Se andiamo a cercare su qualunque sito internet la definizione di prevenzione terziaria troviamo: “Prevenzione delle complicanze delle malattie, delle probabilità di recidiva, della cronicizzazione, della disabilità”. Ecco, il secondo punto, strettamente collegato al primo, è che la prevenzione non si riduca ad un vuoto enunciato ma si cali nella realtà sanitaria del nostro paese: fornire cure domiciliari tempestive,  ricoverare un malato cronico in R.S.A. senza tenerlo anni in lista d'attesa, favorire la nascita di centri diurni per dementi è anche una forma di prevenzione. Si fa un gran parlare di presa in carico da parte dei servizi. Come secondo te si può renderla effettiva? Come sostenevo nella premessa siamo in momento di reflusso e ci stiamo allontanando sempre più da una reale presa in carico. Evidentemente l'atteggiamento corrente è che i percorsi di cura vadano resi più farraginosi, ambigui, burocratizzati per far si che l'utenza (malati cronici non autosufficienti e le loro famiglie) si demotivi e non richieda più servizi. In effetti questo accade, tuttavia il risultato non è un risparmio perché magari si spende di meno per la sanità territoriale ma aumentano vertiginosamente i costi  per cure ospedaliere dovuti ad inappropriatezza e mancata prevenzione, senza contare i danni alla salute degli anziani e l'impoverimento delle famiglie.Una presa in carico efficace dovrebbe invece intercettare precocemente il bisogno, rendendo le unità valutative strumenti di pronto intervento e risorsa di appropriatezza. Le cosiddette “dimissioni protette”. Un punto centrale riguarda la funzione delle Unità di valutazione. Secondo te e a partire dalla tua esperienza, quale modello dovrebbero assumere e come evitare che diventino “Unità amministrative” Rispondendo alla domanda precedente ho già evocato le Unità Valutativa (UV).  In Piemonte abbiamo ancora l'Unità Valutativa Geriatrica. Ho personalmente combattuto perché non confluisse in una U.V. Multidimensionale o Distrettuale, convinto che uno strumento funzioni meglio se “dedicato” e specializzato. La storia mi ha dato torto: anche le U.V.G. hanno avuto una deriva burocratica, sono diventate dispensatrici di punteggi per collocare malati in lista d'attesa, sovente oltretutto provocando clamorose ingiustizie.  Come ho ricordato prima l'U.V.G. andrebbe concepita come una “task force” strettamente connessa con tutte le risorse della rete a favore dell'anziano malato, pronta ad intervenire anche in urgenza, nel giro di poche ore. Per raggiungere questo obiettivo ovviamente dovrebbero essere costituite dalle tre figure fondamentali: assistente sociale, infermiere, geriatra; invece, in giro per l'Italia, a comporre la commissione, abbiamo visto di tutto: urologo, logopedista, fisiatra, direttore di distretto, rappresentante del sindacato dei medici di medicina generale, psicologo e via discorrendo, indicati nelle delibere di riferimento perché evidentemente erano in quel momento nelle grazie della direzione e ritenevano la commissione un posto di potere. Ritengo che i componenti dell'U.V. debbano far parte dei servizi geriatrici del distretto (o dell'A.S.L.), meglio se non sganciati totalmente da altre mansioni. Le “dimissioni protette” in R.S.A. sono state attivate in Piemonte già negli anni '90. Sono state confuse con la lungodegenza in casa di cura, sono state ribattezzate in vari modi (deospedalizzazione protetta, cure intermedie, ora “continuità assistenziale a valenza sanitaria”). Dalla mia casistica (13 anni con migliaia di persone provenienti dai reparti ospedalieri o dal pronto soccorso curati per un certo periodo in R.S.A.)  emerge che il percorso può apportare grossi benefici al malato ed alla sua famiglia. La R.S.A., se ben gestita, può essere utile anche nei percorsi riabilitativi. Purtroppo, in Piemonte, le ultime delibere di giunta non assegnano all'U.V.G. (percepita ormai come organo burocratico) alcun compito nella continuità delle cure, preferendo nuovi organismi quali NDCC e NOCC (nuclei distrettuali di continuità delle cure e nuclei ospedalieri di continuità delle cure), complicando ancor più i percorsi, in assenza di una regia unica. Altra questione riguarda il “piano di assistenza individualizzato” a casa o in residenza,  le sue problematiche attuative e la sua verifica. Quale ruolo secondo te dovrebbe assumere l’Unità valutativa? Nella realtà piemontese il P.A.I. è previsto sia nella lungassistenza domiciliare che nelle residenze. Dovrebbe essere stilato pochi giorni dopo la presa in carico e soggetto a periodiche revisioni. Nello spirito delle delibere che lo hanno previsto dovrebbe essere un potente strumento per integrare le varie competenze e professionalità al servizio del malato cronico non autosufficiente. Dovrebbe servire a non dare nulla per scontato e rilevare criticità nella gestione di questi pazienti. Ad esempio, un P.A.I. ben condotto può segnalare la opportunità di sospendere una contenzione meccanica o farmacologica non più necessaria. Purtroppo, in realtà, presi dalla quotidianità, con minuti di assistenza sempre più esigui rispetto ad una popolazione sempre più compromessa, il P.A.I. viene spesso compilato più per essere in regola dinanzi alla commissione di vigilanza che per effettivo interesse alla situazione. Quindi sovente, alla sua predisposizione, mancano figure importanti, il fisioterapista, il medico, l'educatore, ecc..  La legislazione attribuisce alle unità valutative le funzione di verifica. Purtroppo anch'esse sono composte spesso da personale che non è a volte motivato, sommerso da pratiche “in attesa” e quindi non nelle migliori condizioni per verificare la bontà di un piano assistenziale. Il fatto poi che tra unità valutative e servizi eroganti ci siano contenziosi sul livello assistenziale da attribuire ad un dato soggetto, con le relative ricadute di spesa, complica ulteriormente le cose. Senz'altro se le unità valutative fossero meno burocratizzate anche la verifica dei P.A.I. sarebbe più efficace. Tu hai diretto, credo, il primo Centro diurno per persone con demenza del Piemonte. Secondo te quali dovrebbero essere le caratteristiche fondanti di questo tipo di servizio? Effettivamente nel 1994 (sono ormai 20 anni) a Torino, nel quartiere “Aurora”, abbiamo aperto il primo centro diurno per soggetti con demenza d'Italia. A dispetto di tagli e ridimensionamenti esso è ancora attivo, mi è sopravvissuto (sono in pensione da due anni!) e continua ad assistere circa 20 pazienti al giorno, con enorme soddisfazione dei pazienti e delle loro famiglie. L'esperienza maturata in questi anni ci permette di affermare che il centro diurno per dementi (o Alzheimer) è una risorsa molto importante nella rete dei servizi a favore dei malati cronici. Essendo necessaria la presenza di una famiglia molto motivata e disponibile ad assistere il paziente nelle ore lasciate scoperte dal centro ha la caratteristica di servizio “di nicchia”, non diffuso quindi come le residenze o le cure domiciliari. Tuttavia la presenza di un centro diurno arricchisce un dato territorio, specie se il centro diventa il luogo di riunione di gruppi di auto-mutuo aiuto e di esperienze innovative come i “caffè Alzheimer”. Infine due questioni attinenti la domiciliarità e la residenzialità.  Come  si può, con quali strumenti e organizzazione,  effettivamente garantire la permanenza domicilio di malati molto gravi. La risposta residenziale è molto diversificata nelle regioni. Se dovessi identificare alcuni aspetti caratterizzanti un adeguato modello, quali indicheresti? Sovente domiciliarità e residenzialità sono state messe impropriamente in contrapposizione. Innanzitutto chiariamo che la domiciliarità della persona costituisce il suo spazio significativo che comprende la CASA, con i suoi ricordi, affetti, cose care, e l’INTORNO, ciò che la circonda, il paesaggio, gli amici, il quartiere, la borgata, le montagne, il mare; non va quindi confusa con l'assistenza e le cure domiciliari che,  possono essere uno strumento per garantirne il rispetto. Venendo alle domande è stato dimostrato che anche malati molto gravi possono essere curati a casa e che questa scelta non solo ha una grande portata etica ma sovente anche economica.  Perché sia praticabile occorre che: 1) la scelta domiciliare sia condivisa dal paziente 2) sia presente una adeguata e motivata rete familiare o amicale 3) la casa non presenti rilevanti barriere 4) vengano assicurate al malato non solo le cure strettamente mediche ma anche, in analogia con l'ospedale e la R.S.A., anche l'assistenza tutelare; per esempio: non possiamo pretendere di curare efficacemente a casa un demente in fase avanzata offrendo solo un passaggio di un infermiere per pochi minuti: occorre anche la presenza di un assistente familiare per contenere il disorientamento, la confusione mentale e l'aggressività del paziente 5) la fornitura di ausili (sollevatori, carrozzine, bascule, ecc.) e dispositivi sanitari (cateteri, raccordi, medicazioni, ecc.) sia tempestiva 6) sia presente una attenta regia da parte del territorio, che si può avvalere di U.V.G., U.V.M., ecc. a seconda della regione presa in esame. 7) come già detto in premessa sia riconosciuto il diritto del malato alle cure, non ci siano liste d'attesa 8) l'intervento sia appropriato e commisurato agli effettivi bisogni Vi sono situazioni in cui la scelta domiciliare non è percorribile o addirittura non è desiderata dall'interessato, in quel caso la residenza è  una scelta altrettanto praticabile. Effettivamente in Italia non esiste un unico modello di struttura e forse in quasi tutti i modelli si possono individuare aspetti adeguati o meno. E' auspicabile che: 1) il malato sia ospitato presso una struttura non lontana dal luogo ove ha trascorso la propria vita 2) la residenza sia aperta al territorio 3) siano previsti ricoveri transitori e domini la prospettiva riabilitativa o quantomeno di prevenzione terziaria, cioè delle complicanze delle malattie 4) gli operatori siano adeguatamente formati e dotati di una cultura geriatrica 5) le residenze favoriscano percorsi di continuità assistenziale in dimissione dagli ospedali 6) 7) 8) valgono gli stessi punti già evidenziati nella presa in carico domiciliare.  Tutti i numeri della rivista, fino al 2022, sono disponibili con accesso gratuito. Alcuni recenti articoli  - Francesco Crisafulli, La professione educativa. Il diritto che sia riconosciuta e il bisogno di riconoscer-se-la - Massimiliano Gioncada, L’ISEE e la compartecipazione al costo dei servizi sociali e sociosanitari. A che punto siamo? - Luca Fazzi, Modello dei servizi, dignità e diritti delle persone - Ennio Ripamonti, Immaginare i servizi che si vorrebbero per sé. L’esperienza della residenza anziani di Pinzolo - Arianna e Guido, Raccontiamo l'inclusione. Un prima e un dopo. L’adolescenza di un figlio Asperger e il mondo fuori  - Fabio Ragaini, GARANTIRE DIRITTI E QUALITA' DI VITA. Una strada tutta in salita. Una storia  - Fausto Giancaterina, Garanzia dei diritti sociali e accompagnamento all’esistenza - Maria Rita di Palma, Raccontiamo noi l'inclusione. Una “ragazza adulta” e una rete di amici… tutta da coltivare!  - Salvatore Nocera, L’arco della normativa inclusiva italiana dal 1971 ad oggi  - Sergio Tramma, Considerazioni intorno ai "conflitti” interni all’area del lavoro educativo e alla carenza di educatori ed educatrici - Letizia Espanoli, Persone con demenza: dar casa al tempo fragile: errori da evitare, strade da percorrere - Elena Cesaroni, Protezione giuridica e amministrazione di sostegno. La necessità di una riflessione LA RICHIESTA DI SOSTEGNO del Gruppo Solidarietà  Altri materiali nella sezione documentazione politiche sociali.  La gran parte del lavoro del Gruppo è realizzato da volontari, ma non tutto. Se questo lavoro ti è utile  PUOI SOSTENERLO CON UNA DONAZIONE e CON IL 5 x 1000. Clicca qui per ricevere la nostra newsletter.
