Modello dei servizi, dignità e diritti delle persone Intervista a Luca Fazzi, professore ordinario Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale Università di Trento. - In "Appunti sulle politiche sociali", n. 2/2023 (243) Il problema principale è che i fragili vanno visti prima come persone e dopo come portatori di bisogni specifici. Se manca questo assunto, è evidente che le soluzioni organizzative adottate mireranno a ridurre al massimo i danni e a applicare le procedure indifferentemente dai bisogni dei singoli. Sono gli occhi con cui osserviamo il mondo che ci permettono di dare senso alla realtà (a cura di Fabio Ragaini). Puoi sostenere il nostro lavoro con l'abbonamento. Ricordiamo che tutti i numeri della rivista fino al 2021 sono consultabili e scaricabili gratuitamente. Vorrei riprendere con te il filo dell’intervista[1] che abbiamo realizzato negli ultimi mesi del 2021, approfondendo alcuni temi che hai affrontato nel libro Il maltrattamento dell’anziano in RSA (Maggioli 2021). Un primo aspetto più generale è se, secondo te, la “crisi pandemica” ha messo in moto consapevolezze nuove, urgenze da assumere. In sostanza una attenzione rinnovata alle esigenze delle persone più fragili e nel nostro caso delle persone non autosufficienti È una domanda molto difficile a cui rispondere. Nell’opinione pubblica in generale credo gli effetti della pandemia sulle persone fragili siano stati in larga parte rimossi. Dopo il Covid è arrivata la guerra in Ucraina, e dopo l’inflazione e la crisi economica. Le urgenze quando si accavallano tendono a fare dimenticare quello che era successo prima perché gli esseri umani hanno memoria selettiva e tutto sommato si rimuovono volentieri gli eventi più drammatici e toccanti. Ci sono ancora strutture che dopo il primo gennaio 2023 proseguono con limitazioni alle visite dei famigliari, come se non fosse ancora chiaro quali sono state le conseguenze delle chiusure prolungate sui fragili in termini di depressioni, ansia, scadimento della qualità della vita, deperimento psicologico e fisico. Tutti gli operatori che hanno vissuto in prima persona l’esperienza delle restrizioni raccontano di persone che si sono lasciate letteralmente morire mentre tantissimi famigliari parlano di congiunti irriconoscibili dopo i mesi di isolamento. Ciononostante ancora assistiamo a restrizioni che, più che avere a che fare con la salute dei fragili ormai plurivaccinati, sembrano soprattutto misure con cui i direttori sanitari esercitano un’azione di autotutela contro ricorsi o denunce. Rispetto a questa situazione appaiono occasionali articoli sui giornali e qualche comitato di famigliari cerca di sollevare l’attenzione sul tema, ma la mia impressione è che stiamo assistendo a un processo di revisione dell’emergenza, come se niente fosse accaduto. A fine marzo per esempio il Cpt - il Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene e trattamenti inumani e degradanti del Consiglio di Europa - ha presentato il rapporto della visita condotta un anno fa presso il Pio Albergo Trivulzio e l’Istituto Palazzolo di Milano - un caso unico in Europa - in cui sono definite forme di trattamento disumano e degradante le restrizioni prolungate e a tempo determinato a cui sono stati sottoposto gli anziani durante la pandemia. In altri tempi la notizia avrebbe creato scalpore sui media e le istituzioni si sarebbero sentite in dovere di prendere posizione sull’accaduto. Invece cosa è successo? Niente, nessun rilancio di discussione, nessun messaggio delle istituzioni, nessun discorso da parte del Presidente della Repubblica che pure durante il lockdown aveva preso parola per dire che le vecchie generazioni erano le prime a dovere essere tutelate nell’emergenza. Ma questo cosa vuole dire secondo te che la pandemia non è stata ancora adeguatamente tematizzata, o che parlare di diritti è qualcosa che non fa più parte degli interessi collettivi e delle istituzioni? Ogni fenomeno va interpretato attraverso quello che Herder e Hegel chiamavano Zeitgeist - lo spirito dei tempi. Tutte le epoche hanno delle tendenze culturali dominanti che si esprimono in ogni campo della vita sociale. Nel welfare c’è stata una stagione di riforme a fine anni settanta in cui i diritti erano centrali. I legislatori erano certamente lungimiranti e avveduti, ma fondamentalmente davano voce a dei tratti culturali e sociali di quel periodo: le sollecitazioni del Concilio Vaticano II per i cattolici, i movimenti di emancipazione per i laici. Quell’epoca è terminata venti anni, forse anche di più, ed è stata sostituita da una ideologia che ammanta la grande parte delle sfere della vita sociale e che afferma il primato dell’individuo sulle responsabilità collettive. Se si analizza l’evoluzione del welfare dalla fine degli anni ‘90 in avanti, questo trend è evidente. Le misure di protezione sociale tradizionali, come pensioni e sanità, sempre più sono ancorate a meccanismi estranei al patto sociale del welfare tradizionale in cui ciascun cittadino contribuiva attraverso la tassazione a finanziare misure a protezione di chi si trovava in stato di bisogno. Oggi tutto spinge a un rapporto individuale tra contributi e prestazioni: pago la pensione integrativa di cui io riceverò i benefici e non altri, compro la polizza di sanità integrativa che servirà ai miei bisogni individuali non a quelli di chi si troverà in stato di necessità. Questi cambiamenti sono stati sottili ma continui e lo smantellamento del welfare pubblico è un segno esplicito di questa tendenza storica. Nessuno si stupisce più se per prenotare una visita specialistica nella sanità pubblica i tempi di attesa sono di mesi, mentre dallo stesso specialista e nella medesima struttura in regime privatistico si può accedere al servizio in pochi giorni. È in questo quadro di assuefazione a un cambiamento di lungo respiro che diventa più opaca anche l’attenzione ai diritti dei fragili e si spiega, almeno in parte, il disinteresse rispetto a un fenomeno drammatico come l’istituzionalizzazione di centinaia di migliaia di persone nella ultima fase della loro vita in strutture che faticano a cogliere la natura complessa dei bisogni umani e rischiano con questo atteggiamento di generare abusi e maltrattamenti diffusi. Tornando al tema, più specifico, della cosiddetta assistenza residenziale, in particolare per anziani, come, dal tuo punto di osservazione, questi servizi sono usciti dalla pandemia. Una questione che riguarda evidentemente non solo gli enti gestori ma anche le Istituzioni pubbliche che finanziano e regolano il sistema dei servizi. La lunga, non ancora terminata, stagione della forte riduzione delle visite, in moltissime strutture, ha messo in evidenza la grande e grave difficoltà di molte strutture di concepire la relazione come parte della cura. Le strutture residenziali con il loro personale hanno attraversato un periodo difficilissimo e molte ferite sono ancora aperte. Nessuno si aspettava quello che è successo e molti operatori di fronte alla richiesta di raccontare cosa è accaduto durante la pandemia chiedono espressamente di non parlarne, perché è stato per tanti di loro un trauma individuale e collettivo ancora da affrontare. Del resto, cosa altro ci si poteva aspettare quando si sono dovuti chiudere gli anziani nelle stanze, non si poteva avvicinarsi anche se urlavano chiedendo aiuto, o la presenza dei loro famigliari. Una responsabile di piano con trenta anni di esperienza professionale alle spalle mi raccontava che nella sua vita professionale pensava di avere visto di tutto, ma una cosa così terribile non avrebbe mai potuto immaginarla. Come ne stanno uscendo le strutture non è facile dire. Ci sono come sempre reazioni diverse, qualcuno cerca di riorganizzarsi, altri sono presi dalla ricerca del personale che non si trova, altri ancora desiderano solo disperatamente un ritorno a una pseudonormalità. Quello che sicuramente si può dire è che i fattori di rischio di maltrattamento si sono moltiplicati senza che di ciò vi sia, credo, una chiara consapevolezza o come minimo una consapevolezza diffusa. Cosa intendi per moltiplicazione dei fattori di rischio? Non è stata la fase delle chiusure quella più drammatica? La fase delle restrizioni ha messo in luce soprattutto la difficoltà di distinguere tra rischio clinico e soddisfazione dei bisogni minimi delle persone fragili. I direttori si sono prodigati a seguire protocolli e circolari emanate dal Ministero della salute come se la tutela degli anziani fosse l’effetto automatico dell’applicazione delle norme. In realtà facendo questo si sono completamente dimenticati che il principale bisogno della gran parte delle persone fragili ha una natura relazionale, affettiva e sociale come accade peraltro per tutti quanti noi. I direttori che hanno capito questa esigenza si sono prodigati per permettere i contatti con i famigliari e appena è stato possibile hanno riaperto le visite magari nelle forme surreali delle stanze degli abbracci ma comunque si sono mossi in questa direzione. Gli altri semplicemente si sono convinti di avere fatto il loro dovere, seguendo le disposizioni delle autorità ministeriali e delle Regioni. Con l’allentamento delle restrizioni, lo scenario in molte strutture si è trasformato però in quello di una città appena bombardata con il personale in fuga, operatori con sindromi post traumatiche e con carichi di stress elevatissimi. Dopo la fase in cui i posti letto rimanevano vuoti è ripreso il flusso degli ingressi che è arrivato spesso come un fiume in piena. Ci sono enti in cui nell’arco di un mese sono entrate venti o trenta nuove persone, tutte o quasi con patologie gravi e di nuovo il personale e l’organizzazione sono state sottoposte a una fortissima pressione che aumenta a dismisura il pericolo del maltrattamento. C’è da tenere anche in considerazione che dopo quanto avvenuto durante la pandemia, l’attrattività del lavoro di assistenza già bassa per via dei salari contenuti è ulteriormente scesa e molti direttori sono costretti a reclutare personale non formato e poco motivato che a sua volta incrementa il rischio di abusi: fisici psicologici di trascuratezza eccetera. Una questione centrale mi sembra essere il modello dei servizi. E quale centralità assume la dignità, i diritti delle persone. Predominante e vorrei dire in espansione sembra essere quello che Antonio Censi chiama “modello bioeconomicistico”[2]. Un modello che sembra essere trasversale al composito mondo degli enti gestori (profit e non). Dal mio punto di osservazione, le differenze tra enti profit, non profit e pubblici o parapubblici sono veramente poche. Quello che fa la differenza sono gli stili di governo e gestione adottati dai direttori e la qualità degli staff. Il modello incentrato sui compiti invece che sulla personalizzazione e sui progetti è come dici tu nettamente il più diffuso. I motivi sono variegati. L’ipotesi che siano modelli che garantiscono maggiore efficienza e produttività, come spesso si sente dire, mi lascia molto perplesso sinceramente. Per esempio: se l’organizzazione per compiti prevede di trattare l’alzata e l’igiene mattutina in sequenza con una tempistica molto stretta, è evidente che gli operatori, se non alla prima stanza, a una successiva incontreranno una persona con Alzheimer o con disturbi comportamentali che creerà notevole stress. Gestire situazioni del genere quotidianamente aumenta il rischio di burnout del personale e quindi è un costo che nel medio periodo si riversa sull’organizzazione. Lo stesso accade ogni qual volta ci sono altre forzature legate alla ricerca dell’efficienza a ogni costo con risultati che veramente rischiano di essere paradossali. Per esempio: se nel piano di lavoro è previsto il compito di lavare l’anziano, l’operatore tenderà a eseguire la mansione senza chiedersi che senso ha portare dopo la persona fragile in palestra per fare esercizio con le mani quando due ore prima non gli è stato permesso di provare a lavarsi in autonomia. Contraddizioni di questo genere sono continue nello svolgimento delle attività assistenziali durante una giornata nelle strutture in cui il lavoro è organizzato per compiti, ma lo stesso si parla di efficienza e produttività dove di questi concetti se si scava a fondo spesso non c’è una lontana traccia. Ma secondo te modelli diversi di organizzazione sono realisticamente possibili in un periodo di austerity e di pressione sul risparmio della spesa? I modelli di lavoro che si trovano nella realtà sono diversi in presenza di stessi standard di risorse e tempi e questo fa riflettere su dove stiano veramente i problemi. Ci sono alcune strutture per esempio che hanno deciso di adottare il metodo del risveglio naturale. Il ragionamento che fanno i direttori è che in questo modo gli anziani durate il giorno sono molto più tranquilli, c’è meno stress e il clima organizzativo e relazionale migliora. Perché allora non farlo sempre se i benefici sono superiori ai costi? Oppure ci sono strutture che seguono la politica della contenzione per tutti durante le ore in cui gli anziani sono fuori dalle stanze e altre che mirano a ridurre il contenimento al minimo necessario. Dove sta la differenza? Nell’idea che i direttori e il personale hanno maturato su cosa è meglio per gli anziani. Ridurre il contenimento naturalmente significa parlare con i famigliari, creare contesti ambientali con minimo rischio, non è solo una questione di numero di personale e risorse economiche in sé, ma di concezione che si ha delle cure e delle persone. Il problema principale è che i fragili vanno visti prima come persone e dopo come portatori di bisogni specifici. Se manca questo assunto, è evidente che le soluzioni organizzative adottate mireranno a ridurre al massimo i danni e a applicare le procedure indifferentemente dai bisogni dei singoli. È la stessa questione che spiega il perché durante la pandemia alcune strutture si sono attrezzate subito con gli Ipad e i dispositivi per permettere agli anziani di comunicare anche visivamente con i famigliari, magari portando i vecchi dispostivi da casa nella prima fase dell’emergenza, e altre semplicemente non si sono poste il problema. Quindi prima ancora dei modelli si tratta di lavorare sulle concezioni che i dirigenti e gli amministratori hanno della non autosufficienza e delle fragilità? Si giusto. La realtà è quello che noi rappresentiamo come tale attraverso le nostre convinzioni, i nostri valori, il modo con cui li socializziamo e li facciamo diventare tratti comuni alle istituzioni in cui lavoriamo. Io posso avere un operatore per ogni anziano, ma se vedo la non autosufficienza come una mera patologia, l’unico utilizzo che farò del personale è quello assistenziale. Se invece davanti a me ci sono persone, allora posso avere anche un operatore ogni dieci fragili, e certo questo è un problema, ma non sarà mai tale da fare dimenticare che i bisogni umani sono molto più complessi e articolati dei meri bisogni assistenziali. Sono gli occhi con cui osserviamo il mondo che ci permettono di dare senso alla realtà. Torniamo però a questo punto al tema del maltrattamento. Ci sono esperienze positive nonostante le difficoltà di cui hai parlato? C’è qualcuno che osserva il fenomeno con occhi diversi? Oppure la tendenza è solo negativa? La tendenza per quello che conosco e vedo non è positiva. Se guardiamo all’andamento dei fattori di rischio nelle strutture direi che almeno in questo momento è decisamente negativa. Ma questo non significa che non ci siano anche esperienze positive e tentativi di reagire costruttivamente all’esperienza della pandemia e di sviluppare modelli di lavoro centrati sulle persone. Il tema del maltrattamento ha iniziato, anche se molto timidamente, a essere oggetto di discussione su alcune riviste dedicate alla non autosufficienza, sono state costruite le prime linee guida per la prevenzione e gestione del fenomeno e, pur con molta fatica, si iniziano a vedere le prime sperimentazioni di programmi di prevenzione degli abusi a livello di singole strutture. Ci sono direttori e amministratori che vedono con favore l’innovazione e sono partiti diversi corsi per il personale sul maltrattamento. Non so dire come evolverà questo trend, se rimarrà limitato oppure diventerà più praticato. Di sicuro oggi sappiamo che il maltrattamento esiste e non deve essere più un tabù parlarne, che esso è endemico in diverse sue forme, soprattutto maltrattamento psicologico e emotivo e incuria, in un numero molto elevato di strutture e che esistono però strategie e metodi per prevenirlo e gestirlo in modo responsabile. Una domanda finale. Ma credi che in un panorama come quello attuale non sia utopistico pensare che un cambiamento verso una maggiore umanizzazione delle cure possa diventare qualcosa di più di un’esperienza limitata a poche realtà guidate da persone illuminate? Non lo so. Venti anni fa sembrava utopistico parlare nelle vecchie case di riposo di qualità della vita delle persone anziane e forse effettivamente, anche se la parola qualità della vita è entrata a fare parte del linguaggio ufficiale, siamo ancora molto lontani da una sua piena realizzazione. Penso però che in molti campi del vivere sociale si presentino oggi fenomeni che contrastano la dignità umana, pensa al mercato del lavoro precarizzato, ai salari di ingresso dei giovani, alla corruzione dilagante, alle diseguaglianze sempre più esasperate. Fino a che c’è qualcuno che reputa sia giusto pensare di costruire un mondo diverso da quello dove i deboli finiscono ai margini e vincono solo i forti, sono convinto qualcosa di buono si possa sempre fare. [1] Il maltrattamento nelle strutture residenziali per anziani, in “Appunti sulle politiche sociali”, n. 4/2021. [2] Vedi, Curare le ferite sociali degli anziani non autosufficienti, in Appunti sulle politiche sociali, n. 1/2022. Appunti sulle politiche sociali Se apprezzi il nostro lavoro ti chiediamo di sostenerlo con l’abbonamento Alcuni articoli pubblicati nella rivista - Fabio Ragaini, GARANTIRE DIRITTI E QUALITA' DI VITA. Una strada tutta in salita. Una storia - Fausto Giancaterina, Garanzia dei diritti sociali e accompagnamento all’esistenza - Francesco Crisafulli, La professione educativa. Il diritto che sia riconosciuta e il bisogno di riconoscer-se-la. - Ennio Ripamonti, Immaginare i servizi che si vorrebbero per sé. L’esperienza della residenza anziani di Pinzolo - Elena Cesaroni, Protezione giuridica e amministrazione di sostegno. La necessità di una riflessione - Letizia Espanoli, Persone con demenza: dar casa al tempo fragile: errori da evitare, strade da percorrere - Sergio Tramma, Sui "conflitti” interni all’area del lavoro educativo e alla carenza di educatori/trici - Maurizio Motta, Riforme per la non autosufficienza: ma quali? - Fausto Giancaterina, Non più un welfare territoriale dove ancora sanitario e sociale non si parlano! - Tiziano Vecchiato, Volontariato, solidarietà, democrazia - Antonio Censi, Curare le ferite sociali degli anziani non autosufficienti - Angelo Lascioli, Alunni con disabilità. Il cambio di prospettiva dei nuovi modelli di PEI - Luca Fazzi, Il maltrattamento nelle strutture residenziali per anziani - Carlo Lepri, Diventare grandi. La condizione adulta delle persone con disabilità intellettiva - Gruppo Solidarietà, Ricordo di Andrea Canevaro - Fabio Ragaini, CAMBIARE PROSPETTIVA. A proposito di politiche, modelli, interventi, servizi - Roberto Medeghini, Scuola. Pratiche immunizzanti che favoriscono lo speciale e l’escludibile - Andrea Canevaro, La vista corta. Riflessioni su una delibera della Regione Marche - Fausto Giancaterina, Disabilità. Come superare le difficoltà attuative della legge 112. Una proposta - Gloria Gagliardini (a cura di), Raccontiamo noi l’inclusione. Storie di disabilità - Antonella Galanti, Mario Paolini, Un manicomio dismesso. Frammenti di vita, storie e relazioni di cura - Tiziano Vecchiato, La spesa assistenziale in Italia. Dati, riflessioni, proposte - Luca Fazzi, Ha senso un terzo settore senza un’idea di giustizia? - Andrea Canevaro, Dario Ianes, Giovanni Merlo, Salvatore Nocera, Vittorio Ondedei, Inclusione scolastica degli alunni con disabilità e scuole speciali - Giacomo Panizza, La crisi, i deboli, le istituzioni, la società - Andrea Canevaro, Le parole sono importanti, come le carezze. Lorenzo e Adriano Milani Comparetti - Sergio Tanzarella, Don Lorenzo Milani. Il suo messaggio, la sua eredità - Tiziano Vecchiato, La spesa assistenziale in Italia. Dati, riflessioni, proposte - Giovanni Merlo, Persone con disabilità. Dalla prestazione alla presa in carico - Cecilia M. Marchisio, Natascia Curto, Cittadinanza e reti per praticare il diritto alla vita indipendente Gli altri numeri Tutte le pubblicazioni del Gruppo Solidarietà Puoi sostenere il Gruppo Solidarietà con una donazione e con il 5x1000 codice fiscale 91004430426