Protezione giuridica e amministrazione di sostegno. La necessità di una riflessione A diciotto anni dall’approvazione della legge sull’amministrazione di sostegno appare sempre più necessaria una riflessione sull’applicazione della norma. Con questa intervista abbiamo cercato di analizzare alcuni degli aspetti problematici. Come spesso accade, all’attenzione in fase di approvazione di una norma non ne corrisponde pari in quella di applicazione. In "Appunti sulle politiche sociali", n. 3/2022 (240). Puoi sostenere il nostro lavoro con l’abbonamento. Intervista a Elena Cesaroni, giurista e pedagogista, a cura di Fabio Ragaini. Ti occupi da tanto tempo di protezione giuridica e in particolare di amministrazione di sostegno (AdS). Partirei con il chiederti, un bilancio di una norma che aveva suscitato molte aspettative e che, sembra averne tradite altrettante. Dove, secondo te gli aspetti maggiormente problematici e perché. Ho iniziato ad occuparmi di amministrazione di sostegno nel 2014, quindi dopo 10 anni dall’entrata in vigore della norma. Un tempo breve sotto il profilo della percezione degli effetti macroscopici. Un tempo ancora in grado di lasciare spazio alle aspettative sottese a tale intervento che veniva individuato anche come strumento di riabilitazione ed emancipazione del soggetto fragile. Nella mia esperienza, soprattutto con il dipartimento di salute mentale e soprattutto nei primi anni, questa aspettativa si è spesso realizzata; ho assistito a situazioni che si sono evolute positivamente grazie all’intervento della nomina di un amministratore di sostegno dopo anni di ristagno divenuto oramai strutturale e non necessariamente riconducibile a condotte improprie dei soggetti coinvolti. In questi casi, l’AdS è stato un solido ponte tra beneficiario-servizi-giudice tutelare in grado di equilibrare le dinamiche, definire confini e canali di comunicazione, in grado di essere percepito come tale anche dal beneficiario. Un lavoro certosino, fatto di competenza e costanza che molti volontari (con riferimento al territorio di Pesaro e non solo) hanno portato avanti con un grandissimo spirito di servizio. Analoghi risultati sono stati raggiunti anche grazie alla collaborazione di molti professionisti che, seppur spinti da motivazioni differenti, hanno svolto il loro mandato con grande impegno ed efficacia. I primi anni in cui mi sono occupata di amministrazione di sostegno, la concentrazione era dunque più alta rispetto a situazioni di fragilità conosciute e in carico ai servizi territoriali mentre quella “intra-familiare” faceva un po' da sfondo anche in virtù di numeri - sì in aumento - ma ancora contenuti. Questa stessa fragilità “infra-familiare” è divenuta invece, poco dopo, oggetto principale del nostro lavoro di supporto agli amministratori di sostegno[1]. La “famiglia tradizionale”, colpita da “accidenti comuni” si è trovata a dover procedere con il ricorso alla nomina di amministratore di sostegno per la gestione degli aspetti ordinari della vita del proprio caro non autosufficiente. Ho dei dubbi su quali fossero le aspettative rispetto agli effetti di questa norma. Sotto il profilo dell’aspettativa di divenire uno strumento di riabilitazione ed emancipazione della persona fragile non penso che, in onestà, si possa sostenere che si sia rivelato tale ogni qual volta vi sia stato fatto ricorso; per di più, man a mano che gli anni passano, sempre in misura maggiore ci si allontana da questi obiettivi anche per motivi legati alla complessità della gestione dell’incarico. Sotto il profilo dell’aspettativa di un utilizzo così massiccio dell’istituto credo che vi sia - anche tra i fautori stessi della norma - chi lo abbia auspicato nella convinzione che potesse davvero trattarsi di un efficace strumento a tutela della fragilità ma, forse, non ne aveva previsto gli effetti da un punto di vista pratico. Infine, sotto il profilo della “protezione” della persona fragile riguardante la tutela di aspetti più prettamente finanziari e amministrativi, l’amministrazione di sostegno non può in assoluto esserne posta a garanzia. Alla base di questo, i motivi sono tanti, in primis, l’assenza di adeguati controlli sul loro operato. Ad oggi, dunque, tenuto conto degli sviluppi legati all’applicazione della norma, il bilancio, a mio parere, non può ritenersi positivo e non esiste termine più appropriato di “tradimento” rispetto al pensiero su cui la norma stessa si poggia. Il tradimento di un sistema che imprigiona tutti dentro le maglie serrate della burocrazia e del formalismo; di un sistema che solo formalmente si allontana dall’interdizione per poi riprodurne gli effetti sostanziali nei limiti imposti dalla rigidità di apparati che sanno distinguere il bianco dal nero senza riconoscere la sconfinata gamma di grigi che colorano il genere umano; di un sistema che aggiunge fatica alla fatica della quotidianità di una famiglia alle prese con la fragilità di un proprio caro. Ci tengo a precisare che tali considerazioni non vogliono in assoluto mettere in dubbio l’importanza dei risultati ottenuti nei singoli casi e nemmeno l’importanza di questo strumento per la semplificazione di processi all’interno di situazioni particolarmente complesse. Mi riferisco agli effetti troppo spesso aberranti legati alla sua applicazione e agli scenari che, di questo passo, sembrano inevitabili. Forse esiste un “peccato originale” che è la mancata abrogazione della disciplina civilistica su interdizione e inabilitazione. Se, come dicevo, da un punto di vista sostanziale ha poco significato, lo ha invece sotto profilo simbolico. Interdizione e inabilitazione sono due istituti che decretano la “morte civile” della persona umana e sono, a tutt’oggi, ancora tollerati nel nostro ordinamento e affiancati ad un istituto, quello dell’amministrazione di sostegno, che sancisce il riconoscimento della dignità umana e sociale di ogni individuo a partire dalla valorizzazione della sua capacità di agire, anche la più residuale. Uno dei principali problemi dell’attuazione della legge riguarda un aspetto centrale della norma: “tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente”. Ad esempio nei mesi scorsi UNASAM ha denunciato: “sono troppi i casi in cui non esiste alcun rapporto fiduciario tra il beneficiario e l’amministratore di sostegno che agisce in piena autonomia sulla gestione delle risorse finanziarie e non si occupa del progetto di vita del beneficiario, delle sue aspirazioni e dei suoi reali bisogni”. La relazione tra amministratore di sostegno e beneficiario costituisce un aspetto imprescindibile. L’assenza di relazione rappresenta essa stessa una modalità di relazione con le sue conseguenze. Dare spazio alla relazione attraverso il riconoscimento reciproco è, senza dubbio, il modo più efficacie di accogliere i bisogni e le aspirazioni della persona fragile. Un’operazione, anche questa, tutt’altro che semplice e scontata. Non di rado, nel complicato “mondo del sociale”, si assiste alla tendenza di alcuni professionisti all’interpretazione della volontà dell’altro con la conseguente persuasione di poter definire il miglior progetto di vita possibile per lui. Del resto, quando l’altro fa fatica ad esprimersi, ad elaborare con determinazione la propria volontà, non esiste la risposta giusta alla domanda sulla strada più corretta da percorrere nel suo interesse. Ecco che, a volte, la “relazione può diventare rischiosa”, soprattutto quando i confini non sono chiari e nemmeno i ruoli dei soggetti che gravitano attorno alla persona fragile. Ho assistito a situazioni in cui i servizi stessi richiedevano all’amministratore di sostegno di mantenere una maggiore distanza dal beneficiario riportando a sé stessi la “competenza” di intervenire su aspetti diversi da quelli prettamente amministrativi/finanziari. Certamente ogni relazione, per non divenire “pericolosa”, deve partire dall’interiorizzazione del concetto di “giusta distanza”. Tuttavia, la separazione netta dei ruoli non può che allontanare dall’obiettivo di un lavoro attento di comprensione dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario; comprensione che tanto sarà più vicina all’obiettivo di un intervento rispettoso sulla persona quanto sarà più profondo lo scambio tra tutti i soggetti: beneficiario, amministratore di sostegno, familiari, servizi. Uno scambio che è esso stesso relazione e che, al di là di comportamenti oppositivi e di chiusura di alcuni soggetti, costituisce anch’esso un impegno importante di chi vi è coinvolto. Capita dunque che tali soggetti operino una vera e propria “selezione” dei propri compiti ancorandosi a quanto sancito dal decreto di nomina o dalla disciplina generale; atteggiamento, a mio avviso, contrario ad ogni crisma legislativo ed etico. Se anche il decreto di nomina menzionasse tra i compiti dell’amministratore di sostegno solo la gestione della parte patrimoniale, questo non esulerebbe il dovere dello stesso di partire dalla volontà del beneficiario, sia che esso la possa esprimere coscientemente, sia che questa debba essere frutto di un’attenta opera di interpretazione e ricostruzione. Inoltre, la gestione di natura economico/amministrativa raramente non è accompagnata da conseguenze su aspetti “non materiali” della vita del beneficiario, anche importanti, come la scelta del luogo di residenza, la possibilità di perpetuare piccole e grandi abitudini, etc. Il rispetto della legge impone, altresì, che il decreto sia “l’abito su misura” cucito addosso al beneficiario e, come tale, necessita di una fluidità ed una capacità di essere rimodellato sulle forme dei cambiamenti della vita di chi lo indossa. Altra questione. Da un lato, negli anni, la crescita esponenziale delle nomine, in particolare di persone ricoverate in residenze, dall’altro il ricorso sempre più massiccio, in particolate ad avvocati, da parte dei giudici. Persone che spesso hanno un numero consistente di beneficiari. Spesso più di 10 fino a raggiungere numeri ancora più alti. Difficile che in queste situazioni l’AdS non si risolva in una mera “gestione amministrativa”. L’equazione numero elevato di nomine-mera gestione amministrativa non è assoluta ma altamente probabile se non scontata a certi livelli. Ho incontrato amministratori di sostegno (professionisti o volontari) particolarmente capaci e motivati che hanno saputo gestire con successo il proprio ruolo nel corretto equilibrio tra presenza/giusta distanza/ integrazione funzionale fra soggetti coinvolti nonostante un numero di incarichi piuttosto elevato. Ovviamente, succede più spesso il contrario, ovvero che l’amministratore di sostegno, soprattutto se professionista, lasci a margine dei suoi impegni quelli connessi al ruolo. A volte succede per scarsa professionalità, altre volte perché il tempo a disposizione dei professionisti è troppo poco a fronte delle tante incombenze richieste. Sottolineo, inoltre, che tra i professionisti non si assiste alla “corsa a ricoprire il ruolo di amministratore di sostegno” ma che questi ultimi, spesso, sono nominati loro malgrado. Pensiamo all’avvocato nominato amministratore di sostegno di una persona in una situazione di disagio complesso, anche economico: la gestione della nomina comporta un lavoro intenso a fronte di introiti che, nel rispetto il principio dell’equo indennizzo, potrebbero essere nulli. Pertanto, non esistono solo “cattivi avvocati” ma, spesso, anche avvocati che, nell’organizzazione razionale della propria professione, fissano delle priorità che tengono conto di interessi diversi e talvolta contrastanti. C’è poi il tema dei cosiddetti rimborsi degli AdS autorizzati dai Giudici tutelari. C’è chi lamenta che per alcuni avvocati stia diventando una sorta di professione. Da premettere che, ai sensi della legge il ruolo di amministratore di sostegno non è equiparabile ad una professione (art. 379 c.c: L'ufficio tutelare è gratuito. Il giudice tutelare tuttavia, considerando l'entità del patrimonio e le difficoltà dell'amministrazione, può assegnare al tutore un'equa indennità). Non si parla infatti di compenso ma di “equa indennità”. L’equa indennità non è nemmeno equiparabile ad un mero rimborso delle spese sostenute. Molti professionisti si vedono riconosciute indennità il cui importo è frutto di una valutazione del giudice tutelare, a volte fondata su criteri oggettivi, altre volte no. La valutazione sull’equità dell’indennizzo va certamente commisurata anche alla capacità patrimoniale del beneficiario. Qualora il professionista si trovi ad assumere l’amministrazione di sostegno di diverse persone e che il giudice valuti positivamente il riconoscimento di un’equa indennità per alcune o per diverse delle posizioni ricoperte, è plausibile che l’importo riconosciuto raggiunga cifre considerevoli. E’ inoltre plausibile che tali cifre possano costituire una cospicua parte delle entrate del professionista il che potrebbe (forse) essere “eticamente tollerabile” se, a fronte di tali entrate, si riscontrasse un efficace lavoro dello stesso a tutela del beneficiario. Di fatto, però, ci si trova di fronte all’esercizio di una professione retribuita; ciò in netto contrasto con il dettame legislativo. Sono inoltre sorti legittimi dubbi sulla natura compensativa o corrispettiva dell’indennità rispetto ai quali sono intervenute pronunce e note dell’Agenzia delle Entrate senza che, tuttavia, si sia potuti giungere ad una risoluzione certa. Dentro alla cornice di tali considerazioni si inseriscono quelle sull’opportunità che un simile ruolo possa essere ricoperto in un’ottica professionale o spinti da motivazioni che esulano tale sfera. Anche in questo caso, ritengo che non vi sia una “soluzione vincente” ma soluzioni che funzionano nello specifico caso. A volte, è solo la “compassione” che può muovere verso l’altro. La stessa “compassione”, invece, rischia di trasformarsi in pietismo, cinismo, manipolazione. In questi casi, un approccio professionale potrebbe essere rivelarsi certamente più funzionale. Di fondo, chi assume l’incarico di amministratore di sostegno deve possedere adeguati “strumenti personali” da considerare non solo in termini di competenze tecniche. A ciò si aggiunga che in ogni caso, ogni relazione, è in grado di suscitare risposte diverse sui soggetti che la compongono con ripercussioni sulla qualità dell’operato dell’amministratore di sostegno. Peraltro, anche quando la famiglia è presente, non ci sono conflittualità, e non ci sarebbero motivi per attivare la protezione giuridica, di fatto in molte situazioni che richiedono il consenso o l’obbligo di apertura di conto corrente per la riscossione della pensione, diventa impossibile non ricorrervi. Una situazione che molte famiglie non riescono ad accettare. Ed è veramente difficile dar loro torto anche per gli obblighi burocratici connessi. Questo aspetto è quello che, a mio avviso, rappresenta la deriva più sconcertante dell’applicazione della misura dell’amministratore di sostegno. La disabilità, la malattia che sopraggiunge del familiare adulto è di per sé uno di quegli “accidenti della vita” che impongono un grande sforzo affinché possa essere accettato e affrontato. Sforzo che non si può fare a meno di compiere e che si traduce nelle fatiche e nel dolore quotidiani; quelli da cui non ci si può esimere. In questi anni, sempre più spesso ho conosciuto genitori, figli di persone fragili che si sono rivolte al Servizio di Protezione Giuridica dell’ATS 1 di Pesaro a fronte di un invio da parte di enti pubblici e privati. Si sono rivolte a noi spesso senza nemmeno avere bene inteso il perché di tale invio o chi sia e cosa faccia un amministratore di sostegno. Quando, durante il colloquio, il familiare acquisisce consapevolezza, le preoccupazioni, le paure, le frustrazioni aumentano: “Perché devo rivolgermi al giudice? Perché devo spiegare al giudice come spendo i soldi per mio padre? Perché devo chiedere al giudice se posso far fare il vaccino a mio figlio? Perché non posso continuare a fare quello che ho sempre fatto per il mio caro?” Mille perché a cui è difficile dare una risposta che trovi fondamento certo sotto il profilo giuridico. Condizionare alla nomina di un amministratore di sostegno l’ingresso presso una struttura; l’avvio di percorsi di assistenza; la possibilità di riscuotere contributi; l’esecuzione di esame diagnostico, etc., non trova legittimità nel testo della legge ma, ad avviso di chi scrive, ne rappresenta una lesione come lese, soprattutto, sono le esigenze di protezione e di rispetto della persona umana e della sua dignità. Gli effetti della nomina ad amministratore di sostegno di un familiare non sono da sottovalutare anche se, di primo acchito, vengono prospettati come una “mera formalizzazione” di quanto già si sta facendo per il proprio caro. Non è così, per vari motivi. Ad esempio, la gestione quasi sempre comporta, la separazione della posizione patrimoniale dei coniugi. Gli obblighi di rendicontazione imprigionano il familiare nella paura di sbagliare chiedendosi ogni volta se quella spesa potevano farla, se quello scontrino andava mantenuto, etc. Alcuni familiari, tra l’altro, non sono in grado di gestire le incombenze legate all’amministrazione di sostegno: un rendiconto, un’istanza, una relazione. Secondo te, in conclusione, come e con quali strumenti si possono affrontare queste problematiche. Si tratta di problemi che nascono soprattutto per carenze culturali dei servizi e dei giudici, o per lacune legislative? Il fattore culturale è sicuramente incisivo. La tendenza all’aberrazione è tipicamente italiana (non a caso si dice: “fatta la legge, trovato l’inganno”). Non parlerei però di carenze culturali o, quanto meno, le carenze non sono tali da giustificare la deriva a cui si è giunti attraverso l’attuale prassi applicativa della misura. Il nostro è un sistema giuridico fondato sul diritto positivo che ha aperto le porte, con l’istituto dell’amministrazione di sostegno, ad uno strumento più tipico di sistemi consolidati di common law, quindi più flessibili e aperti. Connotazioni queste che, seppur tipiche dello strumento di tutela di cui si parla, non si conciliano con la rigidità degli apparati burocratici. Escluderei, quindi le lacune legislative (per quanto mi riguarda, non condivido il motto diffuso su ogni fronte: occorrono leggi!!!) quanto piuttosto, quello che potrebbe mancare è una prassi su scala medio grande che abbia in comune almeno gli obiettivi e i principi di fondo. Sull’operato dei giudici e dei servizi, lungi da me dal giudicare negativamente l’operato generale degli stessi. A fronte della varietà del genere umano, fatta di più o meno validi professionisti, sono piuttosto persuasa che molti disservizi non siano frutto di dolo, ma di mancanza di risorse. Imprigionati come siamo dentro a strutture concentriche costruite per sostenersi a vicenda attorno al problema senza affrontarlo, ci si dimentica di tutto quello che la legge, la giurisprudenza, le prassi virtuose, la coscienza ci offrono per gestire al meglio la precarietà umana. I tradizionali strumenti negoziali alternativi all’amministrazione di sostegno (delega, procura, etc.) sembrano aver perso ogni valore. Ma anche le possibilità offerte dai più recenti interventi legislativi e alle recenti pronunce in materia di trattamenti sanitari e fine vita stentano a diventare parte dell’ordinario. Ma gli “accidenti” lo sono ed è compito dello Stato rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Premesso ciò, quanto potrebbe essere fatto per alleggerire le problematiche connesse all’attuale prassi applicativa della legge sull’amministrazione di sostegno potrebbe partire dalle seguenti azioni: - Abrogazione dell’inabilitazione ed interdizione a cui la legge sull’amministrazione di sostegno …… fa specifico rinvio; - Potenziamento degli strumenti istruttori e di controllo; - Potenziamento degli strumenti a garanzia della flessibilità dell’istituto; - Delimitazione del campo di applicazione dell’istituto. [1] Mi riferisco al Servizio di Protezione Giuridica dell’Ambito Territoriale Sociale n. 1 di Pesaro. Per approfondire: - Corte Europea dei diritti dell'uomo. Ricorso abusivo amministrazione di sostegno - Corte Cassazione. Amministrazione sostegno: diritto audizione beneficiaria - Il codice etico e di comportamento degli amministratori di sostegno - Amministrazione di sostegno. Urgente una riforma - Le frontiere invisibili dell’amministrazione di sostegno - Strumenti di protezione giuridica. Guida Anffas Puoi consultare o scaricare alcuni articoli pubblicati recentemente sulla rivista - Sergio Tramma, Sui "conflitti” interni all’area del lavoro educativo e alla carenza di educatori/trici - Letizia Espanoli, Persone con demenza: dar casa al tempo fragile: errori da evitare, strade da percorrere - Maurizio Motta, Riforme per la non autosufficienza: ma quali? - Fausto Giancaterina, Non più un welfare territoriale dove ancora sanitario e sociale non si parlano! - Tiziano Vecchiato, Volontariato, solidarietà, democrazia - Antonio Censi, Curare le ferite sociali degli anziani non autosufficienti - Angelo Lascioli, Alunni con disabilità. Il cambio di prospettiva dei nuovi modelli di PEI - Luca Fazzi, Il maltrattamento nelle strutture residenziali per anziani ------------ La gran parte del lavoro per realizzare questo sito è fatto da volontari, ma non tutto. 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