Data di pubblicazione: 28/04/2024
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Servizi sociosanitari. Compartecipazione al costo e applicazione normativa ISEE

In "Appunti sulle politiche sociali",  4/2016 (218)Tutti i numero della rivista fino al 2021 sono consultabili e scaricabili gratuitamente.

Intervista a Massimiliano GioncadaAvvocato del Foro di Piacenza. Consulente legale degli Ordini degli assistenti sociali della Lombardia, della Liguria e del Trentino Alto Adige.

Torniamo a confrontarci  (vedi Appunti sulle politiche sociali, n. 4/2014 precedente all’entrata in vigore della normativa ISEE), con l’avvocato Gioncada sullo stato di applicazione della normativa ISEE ad oltre 18 mesi dall’entrata in vigore. Occasione anche per affrontare la questione dei rapporti tra enti pubblici, soggetti gestori, utenti dei servizi (a cura di Fabio Ragaini) 

 

Ti pongo una prima questione molto pratica. Struttura residenziale nella quale la Regione introduce una quota sociale precedentemente assente in quanto l’onere era a completo carico della sanità. L’ente gestore non riceve dunque più l’intera tariffa ma una quota. La restante viene considerata quota sociale. L’ente gestore chiede la differenza all’utente con il quale però non ha mai stipulato alcun contratto e magari la richiesta è anche retroattiva. L’utente, si trova in una situazione assai difficile. Da un lato è destinatario di una richiesta da un ente che non riceve più la tariffa piena e dunque ha esigenza di copertura delle spese, dall’altro, trova resistenze per l’integrazione della retta da parte del Comune. Utente che, nel caso, ovviamente non ha redditi per pagare per intero la quota sociale. 

La questione merita di essere disaminata ad ampio raggio. Che la Regione abbia potestà normativa in ordine alla composizione della rete dei servizi sul territorio, credo sia indiscutibile: un’offerta non regolamentata, in termini di numero di posti e di standards di funzionamento creerebbe un far-west assistenziale, ed i primi a pagarne le spese sarebbero proprio gli utenti. Il problema, semmai, è capire se la qualificazione (normativa) dei servizi che dà la Regione è legittima o meno. Faccio un esempio molto elementare ed estremo: se una Regione dovesse dichiarare “socio-assistenziali” tutte le prestazioni fornite in un ospedale, è evidente che sorgerebbe più di un dubbio. Ma se la Regione agisce in quella “zona grigia” denominata “integrazione socio-sanitaria” ecco che, da un lato, i propri margini di manovra aumentano, dall’altro c’è il rischio che si concretino inesattezze che, in sede applicativa, diventano veri e propri abusi a danno degli utenti e dei Comuni. Il problema diventa dunque il seguente: vero è che la Regione ha potestà normativa in ordine alla individuazione/creazione di unità di offerta eroganti prestazioni socio-sanitarie, ma altrettanto vero, mi pare, è che essa, per questo tramite, non possa negare l’applicabilità, ricorrendone i presupposti, di tutta la normativa nazionale in materia, secondo la quale, riguardo a determinate categorie di utenti, nel caso in cui, oltre alle prestazioni socio-assistenziali, siano erogate prestazioni sanitarie, l’attività va considerata di rilievo sanitario e, pertanto, di competenza del servizio sanitario nazionale.

Questo non significa in alcun modo che, ad esempio per unità di offerta che seguono la ripartizione 70 (sanità)/30 (sociale), la c.d. quota sociale sparisca, azzerandosi, perché se così fosse verrebbe vanificata la stessa idea di integrazione socio-sanitaria, ma significa che in certi casi, puntualmente previsti, la ripartizione delle quote può essere messa in discussione. Riguardo alle citate “resistenze per l’integrazione della retta da parte del Comune”, esse sono sostanzialmente frutto di quattro fattori, i quali possono essere compresenti o meno: a) oggettive difficoltà di bilancio; b) misconoscenza della normativa; c) ottusità del funzionario/amministratore; d) perplessità di una norma di legge, il d.P.C.M. n. 159/2013, che reca previsioni pressoché inapplicabili e disancorate dalla realtà fattuale.

Sono partito da qui per agganciarmi al tema della integrazione delle rette da parte degli enti locali, in particolare nei servizi residenziali. Mi sembra che al di là di quello che è stato il percorso del nuovo I.S.E.E. con le sentenze del Consiglio di Stato e ora con la modifica da parte del governo, la questione ruoti sempre attorno alle “resistenze” comunali ad applicare una norma che può determinare oneri aggiuntivi a carico dei Comuni. È il caso ad esempio, di previsioni di compartecipazione, nei servizi diurni e domiciliari, anche con I.S.E.E. pari a zero (anche quando erano conteggiate le indennità o altri emolumenti a carattere risarcitorio), oppure cercare di non applicare l’I.S.E.E. ristretto per alcuni servizi, fino alle previsioni, nel caso di servizi residenziali (Vedi, Isee e residenzialità. Voto di povertà)  di intervenire solo dopo che siano stati utilizzati tutti i patrimoni. D’altra parte senza un sistema regolamentato non può che aumentare la conflittualità ed il contenzioso tra cittadini e pubblica amministrazione. Un sistema peraltro in cui sono i soggetti meno in grado di tutelarsi a pagarne le maggiori conseguenze. L’impressione è che non si voglia intervenire per rendere trasparente la modalità di compartecipazione (dove finiscono le mie risorse, integra il pubblico). Un’opacità funzionale a rendere più difficile l’integrazione comunale. Che ne pensi?

In ordine al tema della integrazione delle rette da parte degli enti locali, siamo pressoché all’anarchia, specialmente laddove si consideri che residua ancora l’idea, semplicemente “agiuridica”, che il Regolamento comunale possa dettare qualsivoglia norma in materia, a dispetto delle fonti sovraordinate. Si rileva che talvolta, improvvisandosi (imperiti) interpreti della normativa, si ritiene che per il tramite della locuzione “ferme restando le prerogative dei Comuni” di cui all’art. 2 co. 1 del d.P.C.M. n. 159/2013 si possano introdurre regole compartecipative di ogni tipo.

Nulla di più giuridicamente inesatto. Basti considerare, a tal fine, non solo l’inciso, contenuto invero nel medesimo art. 2 co. 1, in base al quale “La determinazione e l'applicazione dell'indicatore ai fini dell'accesso alle prestazioni sociali agevolate, nonché della definizione del livello di compartecipazione al costo delle medesime, costituisce livello essenziale delle prestazioni, ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione” ma altresì tutta la teoria della gerarchia delle fonti. È ovvio ed evidente che un Regolamento comunale non può derogare a una normativa di rango superiore (v., come principio generale, l’art. 4 delle Preleggi), ma vi è da chiedersi quanto detta spinta centrifuga comunale sia dettata dalla mera ignoranza di chi sostiene un’idea simile e quanto sia dettata dal testo di un d.P.C.M. che, a mio sommesso avviso, “fa acqua da tutte le parti”.

Mi domando: ma a livello ministeriale, nessuno riflette e si rende conto del fatto che il d.P.C.M. n. 159/2013 è stato immediatamente “affondato” dalla giurisprudenza amministrativa di entrambi i gradi e, al contempo, scontenta sia gli utenti sia i Comuni? La cosa che mi lascia basito è il fatto che, sempre a livello centrale, si ritiene che la mancata applicazione della normativa sia imputabile ai soli Comuni. Ma se, e mi limito alla Lombardia, la mia Regione, tutti i Comuni capoluoghi di provincia (e, ovviamente, non solo) non applicano detta normativa, a nessuno, a livello governativo-ministeriale viene il dubbio che, forse, trattasi di una norma…. incommentabile?

Se gestissi un esercizio commerciale, e nell’arco di un anno non entrasse un (uno) cliente, qual è il problema? È il mercato che non mi capisce o sono forse io che sto vendendo qualcosa che al mercato non interessa? Nell’opinione di alcuni, al Ministero, mi risulta che siano convinti che la prima è la risposta giusta…. Tutto questo per dire cosa? È vero, vi sono delle resistenze comunali, a volte anche ingiustificabili e meschine, ma vi è da dire che la norma non aiuta. Davvero non si poteva fare di meglio?

Riguardo a previsioni di compartecipazione, nei servizi diurni e domiciliari, anche con I.S.E.E. pari a zero (anche quando erano conteggiate le indennità o altri emolumenti a carattere risarcitorio), la questione è nota.

Dal punto di vista comunale il presupposto è sempre il solito: “I.S.E.E. uguale a zero non significa zero reddito annuale, quindi, siccome son percepite le indennità, è giusto ed equo, al fine di garantire la sostenibilità del sistema, ch’esse siano destinate al pagamento dei servizi diurni e domiciliari”. Dal lato dei Comuni detta posizione è comprensibile, ma vi è da chiedersi quanto sia giuridicamente ineccepibile, sociologicamente etica ed economicamente accettabile.

La varietà delle fattispecie è ampia: a fronte di I.S.E.E. “nulli” si passa dalla richiesta di compartecipazioni minime (davvero minime) a quella di compartecipazioni esproprianti (ablative in toto) redditi e indennità percepite (col tentativo residuale di allargare il novero dei soggetti tenuti).Le risultanze dei predetti giudizi son state chiare: le indennità “son fuori” dall’I.S.E.E., per tutta una serie di motivi, condivisibili o meno, enunciati dai Collegi giudicanti. Ciò significa che esse non possano in alcun modo concorrere al pagamento delle prestazioni fruite?

Dal punto di vista strettamente normativo non siamo di fronte, in questo caso, ad ipotesi legislative di gratuità (a differenza, ad esempio, della previsione di cui all’art. 28 della l. n. 118/1971 in tema di trasporto scolastico per gli studenti disabili): ciò significa che, in astratto, è pensabile di procedere a richieste compartecipative anche a fronte di I.S.E.E. minimi. Il problema, semmai, è un altro: se un utente ha un I.S.E.E. pari a zero, o minimo, quanto è lecito chiedergli di contribuire? L’individuazione di detta somma, o percentuale, a chi è demandata: agli uffici economici dell’ente (secondo logiche contabili) o ai servizi sociali (secondo logiche di sostegno)?

Ecco che allora, nell’opinione dei Comuni, è sorta subito un’altra perplessità: anche questo indicatore, come quello ex d.lgs. n. 109/1998, non è veramente in grado di oggettivizzare la capacità economica dell’utenza, quindi tanto vale cercare altri accorgimenti. Non credo affatto che tutte le amministrazioni comunali debbano essere catalogate come “rapaci”: le oggettive difficoltà del Paese si sono versate a pioggia pressoché su tutti (a parte la residuale fascia degli ultra-ricchi): utenti (cittadini) e Comuni si dibattono nelle medesime difficoltà economiche. Se a ciò si aggiunge un decreto che in certe parti appare quasi folcloristico, il gioco è fatto. Vi è da chiedersi, sul punto, se una richiesta minima (ma io userei la dizione “adeguata”) condivisa in sede concertativa possa bastare a garantire agli enti l’entrata prevista e mettere al riparo gli utenti da appetiti erariali troppo ampi. Un accordo “istituzionale” territoriale è sempre possibile, ovviamente, ma ciò non significa che il singolo cittadino/la singola associazione non possa autonomamente contestare le regole così condivise, ritenendole comunque illegittime e gravatorie.

Riguardo alla integrale mancata applicazione dell’I.S.E.E., il dato normativo da cui partire, ancora una volta, è l’art. 2 co. 1 del d.P.C.M. n. 159/2013: esso dovrebbe essere utilizzato “ai fini dell'accesso alle prestazioni sociali agevolate, nonché della definizione del livello di compartecipazione al costo delle medesime”. Appare quindi molto discutibile, anche se affatto rara, la posizione di un ente erogatore che decida di prescindere completamente dall’indicatore in parola.  Se una possibilità in tal senso era ipotizzabile in vigenza del d.lgs. n. 109/1998, laddove la legge regionale avesse dettato delle previsioni particolari (v. Corte Cost., 19-12-2012, Sent. n. 296), ora lo spazio normativo regionale e, ancor più, quello regolamentare comunale, si è inesorabilmente ristretto, per non dire pressoché chiuso: poiché ora l’indicatore costituisce livello essenziale delle prestazioni, è evidente che solo lo Stato può legiferare in materia e, a livello locale, regionale o comunale che sia, gli enti erogatori possono introdurre modifiche solo in melius per i cittadini, e non certo in peius (ad esempio, non possono allargare il novero dei soggetti tenuti alla compartecipazione, al di fuori dei nuclei familiari rilevanti delineati del d.P.C.M. n. 159/2013).

Riguardo al preteso utilizzo dell’I.S.E.E. ordinario in luogo di quello c.d. ristretto, anche in questo caso si rilevano situazioni a macchia di leopardo. Nello stesso territorio regionale lombardo, ad esempio, per servizi diurni per persone disabili qualificati dalla Regione come socioassistenziali (utilizzandosi gli acronimi CSE e SFA) alcuni enti erogatori prevedono, rifacendosi alle definizioni regionali recate in alcune D.G.R., l’utilizzo dell’I.S.E.E. ordinario, mentre altri, alla luce del nuovo art. 1 co. 1 lett. f) punto 2 del d.P.C.M. n. 159/2013, consentono l’utilizzo dell’I.S.E.E. sociosanitario, cioè ristretto. Sul punto è interessante registrare due fatti significativi: effettivamente l’INPS, nelle proprie recenti FAQ (quesito V_27 del 26/01/2016), ha chiarito che l’I.S.E.E. corretto dovrebbe essere quello socio-sanitario (analoga posizione ha preso il Ministero nei confronti di Regione Lombardia, ma “per ovvie ragioni” detta missiva non è stata resa pubblica…). Su altro versante, si è in attesa del pronunciamento della IIIa Sezione del T.A.R. per la Lombardia, Milano, proprio su una controversia avente questo oggetto (udienza tenutasi il 11 maggio u.s.), per cui, a breve, avremo anche l’opinione della giurisprudenza amministrativa. A mio sommesso avviso il testo del decreto, almeno su questi punti, è sufficientemente chiaro e preciso, ma, come si vede, permangono, per ora, opinioni difformi.

Il caso dei servizi residenziali è emblematico. Personalmente son convinto che l’errore più macroscopico che è stato fatto in sede di stesura del d.P.C.M. n. 159/2013 è stato proprio quello di far rientrare anche questi servizi sotto l’egida dell’I.S.E.E., mentre proprio la natura e tipologia della prestazione resa, oltreché la finalità con la quale le indennità sono erogate al cittadino, rendono evidente il fatto che si doveva procedere a una diversa regolamentazione.

E ciò a prescindere dal fatto che la normativa non agevola quando il valore dell’I.S.E.E. sia dettato da un modesto ISR e da un significativo ISP (c.d. “I.S.E.E. illiquidi”).

La previsione di un (eventuale) intervento comunale al raggiungimento di una determinata soglia (minima) patrimoniale (previsione tipica: “L’intervento del Comune ha luogo solo nel caso in cui il richiedente non sia titolare di depositi bancari e/o postali e assicurativi, ovvero di risparmi in qualunque forma posseduti, che dovranno essere prioritariamente destinati all’assunzione in proprio dell’onere del ricovero. Solo a esaurimento di tali importi o al raggiungimento della cifra non superiore a € 5.000,00, il Comune si riserva di valutare l’ammissibilità della domanda”), a mio avviso, non ha alcun riscontro normativo e, quindi, è illegittima.

In nessuna parte del d.P.C.M. n. 159/2013, infatti, è previsto un meccanismo simile, poiché è normativamente stabilito che l’I.S.E.E. colà recato, così come costruito dal legislatore nazionale, sia il solo meccanismo da utilizzarsi, senza che si possa procedere al depauperamento del cittadino sino a una soglia unilateralmente e autoritativamente individuata dall’ente erogatore, che, se così facesse, agirebbe in totale carenza di potestà legislativa sul punto.

Analogamente dicasi per una regolamentazione che prevedesse la necessaria alienazione del patrimonio immobiliare con ricavato da destinarsi per il pagamento della retta, violativa dell’art. 832 c.c. e dell’art. 42 della Costituzione e una regolamentazione che prevedesse una somma uguale per tutti da utilizzarsi per le c.d. “spese minime” (violativa dell’art. 14 della l. n. 328/2000). Ma il vizio più grosso, a mio avviso, torno a ripetere, è insito nella normativa, che prevede l’applicazione di un indicatore che, per sua stessa costituzione, non si attaglia a questa tipologia di prestazioni.

L’ultimo intervento normativo, operato con l’art. 2-sexies, del d.l. 29 marzo 2016, n. 42, convertito, con modificazioni, dalla l. 26 maggio 2016, n. 89, è emblematico.

In seguito alle pronunce del febbraio 2016 del Consiglio di Stato, ci si è trovati di fronte a un d.P.C.M. n. 159/2013 che aveva perso uno dei suoi pilastri portanti (l’inclusione delle provvidenze esenti IRPEF nell’I.S.E.E.) pur mantenendo viceversa applicabili le franchigie. Ecco allora che si è cercato, in qualche modo, di ricorrere ai ripari, al solito, scontentando tutti. In questa terra di nessuno, dove la tecnica normativa concreta regole di dubbia equità e la pubblica amministrazione non applica rigorosamente la legge, si inseriranno le inevitabili pronunce giurisprudenziali, le quali suppliranno a un testo di legge impreciso e per molti versi inadeguato. Ma in un Paese normalmente funzionante, il compito di disciplinare in via generale il rapporto tra i cittadini e la pubblica amministrazione non può essere demandato alla Magistratura, perché quando ciò avviene, siamo di fronte alla perdita del ruolo della classe politica, che genera un’attività normativa raffazzonata e, nell’applicazione, fittizia.


 

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