La relazione educativa in riabilitazione Antonella Boni, fisioterapista, Jesi (An). In, "Appunti sulle politiche sociali", n. 2/2010 (187) - Puoi sostenere la rivista con l’abbonamento. L’azione educativa è sostanzialmente finalizzata ad un cambiamento, nella direzione di un maggior benessere della persona - autonomia, competenze adeguate al proprio ambiente di vita, conoscenze, opportunità di esperienza e sperimentazione di sé - e del contesto sociale. Un processo di trasformazione e di crescita che ci vede fruitori e erogatori del processo in una dinamica di scambio inter e intra personale che molto spesso è al di la della sfera razionale e coinvolge la nostra sfera emotiva. Ogni volta che nei contesti riabilitativi mi trovo a parlare dell’aspetto educativo della professione del terapista, incontro sguardi smarriti, quasi stessi parlando di qualcosa di estraneo al contesto sanitario o di talmente scontato da non avere dignità di essere nominato. La professione del riabilitatore sembra sempre di più la professione del fare, le formazioni sempre più orientate a manipolare un corpo anonimo, e lo sguardo sugli indicatori di efficienza a cui continuamente sono sottoposti i nostri servizi sanitari contribuiscono a svuotare questa professione di tutto ciò che rischierebbe di ‘entrare in relazione’ con il cosiddetto paziente. A questo si contrappone un gran parlare, seminari, convegni, articoli che parlano di umanizzazione dei servizi, di centralità del paziente, in un sistema globale che va sempre più verso l’individualismo, la separazione da tutto ciò che è esterno e che ci minaccia, la paura della malattia del limite e della morte. Sfera personale e sfera professionale Viviamo una forte contraddizione che sostanzialmente ci spinge sempre più verso una separazione tra sfera professionale e personale; ambito che soprattutto nelle professioni sanitarie e sociali non è assolutamente possibile separare. Possiamo certo scegliere se lasciarci attraversare dall’incontro con la storia di disagio, malattia, disabilità dell’altro o relegare il nostro intervento ad una prestazione sterile. E in questo secondo caso con difficoltà passerà anche la tecnica più sofisticata e ben applicata Quando nella definizione di progetto riabilitativo individuale stabilito nelle Linee guida per le attività di riabilitazione (1988) si parla di processo di soluzione dei problemi e di educazione nel corso del quale si porta una persona a raggiungere il miglior livello di vita possibile sul piano fisico, funzionale, sociale ed emozionale, con la minore restrizione possibile delle sue scelte operative, si fa riferimento chiaro ad un elemento senza il quale il percorso riabilitativo non si può sviluppare: il processo di educazione Il significato originale ed etimologico della parola educazione viene dal latino e-ducere che significa letteralmente condurre fuori, quindi liberare, far venire alla luce qualcosa che è nascosto. Si intende il processo attraverso il quale l'individuo riceve e impara delle regole di comportamento, delle modalità che gli permettono l’inclusione sociale. L’azione educativa in genere è sostanzialmente finalizzata ad un cambiamento, nella direzione di un maggior benessere della persona (autonomia, competenze adeguate al proprio ambiente di vita, conoscenze, opportunità di esperienza e sperimentazione di sé, ecc...) e del contesto sociale nelle sue diverse dimensioni. Quindi un processo di trasformazione, di cambiamento, di maturazione, di crescita possiamo dire, che ci coinvolge tutta la vita e che continuamente ci vede fruitori e erogatori del processo in una dinamica di scambio inter e intra personale che molto spesso è al di la della sfera razionale e coinvolge la nostra sfera emotiva e spirituale, l’integrità del nostro essere. L’azione educativa si dà nel momento in cui si entra in relazione con l’altro con modalità impalpabili, sguardi, voce, gesti, in un contesto in cui l’altro non è passivo, ma interagisce e contribuisce allo sviluppo del processo. L’educazione nell’intervento riabilitativo Ma che significa educazione nell’intervento riabilitativo? A quale caratteristica del riabilitatore si fa riferimento nella sua relazione con la persona con disabilità? Quanto pesa questo aspetto nel processo? E quale processo personale è necessario per il riabilitatore affinché l’aspetto educativo passi nella relazione? Molto semplicisticamente potremmo dire che il fisioterapista fa educazione ogni volta che insegna alla persona con disabilità strategie, tecniche, esercizi, regole di comportamento che possano migliorare, economizzare una funzione, fornendogli un pacchetto di informazioni e conoscenze che potranno permettergli di entrare in un rapporto attivo con il proprio problema. E di questo è pieno l’intervento riabilitativo. Ed è già ottimo e prezioso l’intervento che non si limita ad una imposizione di una tecnica ma che si accerta che il fruitore abbia acquisito una modalità di cambiamento e una autonomia nella gestione del suo problema nel tempo. Ma c’è qualcosa che va oltre questo aspetto, che emerge nell’intervento riabilitativo rivolto soprattutto al paziente complesso, con disabilità multiple e permanenti. E’ necessario a mio avviso prendere in esame due aspetti che si intrecciano a vicenda e che rendono la relazione terapista-paziente una relazione di reciprocità. Il terapista è un tecnico che viene formato alla elaborazione di tecniche, di strategie che permettano alla persona che ha subito un danno di raggiungere il massimo recupero e autonomia permesse dal danno stesso. Ma è prima di tutto un individuo che viene costantemente a contatto con situazioni di malattia, di limite, di disabilità, temporanee o permanenti, di dolore acuto o cronico e che prima della tecnica, consciamente o inconsciamente, trasmette la sua relazione con il limite, il dolore, la disabilità. La dilatazione dei tempi del processo riabilitativo rende la figura del terapista l’unico operatore sanitario che può instaurare relazioni molto lunghe, complesse, che necessariamente coinvolgono sfere intime e inconsce di entrambi. Il terapista durante il percorso riabilitativo che fa insieme al paziente ha la possibilità di misurare, verificare, conoscere la propria elaborazione rispetto a questi aspetti, di osservare in sé il distacco o la vicinanza, il coinvolgimento o l’indifferenza, la negazione o l’esaltazione, del limite. Un’alternanza del sentire che può verificarsi nelle fasi della propria attività professionale e quindi della propria esistenza ma anche in un’unica relazione terapeutica. Ecco come l’evento e il progetto riabilitativo diventano strumenti educativi per il terapista. In secondo luogo va considerato che le prime persone con il quale la persona con disabilità ha contatto in seguito all’evento morboso sono proprio gli operatori sanitari e in particolare il fisioterapista con il quale, oltre a trascorrere un tempo lungo della giornata e del percorso, viene stimolato a far emergere da un lato i limiti indotti dalla menomazione subita per ricostruire le basi del processo di recupero e dall’altro a potenziare risorse a volte mai esplorate fino a quel momento. Con l’infermiere e l’assistente la persona mostra la propria nudità fisica, con il terapista manifesta la propria fragilità sensoriale, cognitiva, motoria, la coscienza del corpo e questo implica un coinvolgimento non solo della sfera corporea, psichica e sensoriale ma anche interiore. Ed è attraverso questa integrità che il soggetto entra in relazione con il mondo esterno. In questo contesto il ruolo - in particolare - del fisioterapista non è unicamente tecnico: non si tratta solo di ripristinare l’uso di una funzione di un arto, di un organo o di una capacità, ma di instaurare un costante rapporto umano con la persona con disabilità in condizioni di vulnerabilità e fragilità. La persona con disabilità va aiutata ad accettare l’eventuale impossibilità di recuperare la condizione originaria di piena funzionalità, motivata ad intraprendere il percorso riabilitativo evitando, da una parte, di dare garanzie affrettate di recupero completo e, dall’altra, di reprimere le speranze di miglioramento laddove ve ne siano le condizioni obiettive. Cioè va accompagnata a cercare dentro di sé le risorse per quello che chiamiamo adattamento alla condizione di disabilità, ma che in modo positivo possiamo definire come ricerca di un nuovo stato di salute intesa non tanto come assenza di malattia o stato di completo benessere fisico psichico e sociale, ma come equilibrio, come viene ben definito nel documento“Bioetica e riabilitazione” del Comitato Nazionale per la Bioetica[1]: “se si guarda all'uomo in senso globale, la salute e la malattia appaiono non come elementi estrinseci all'esperienza quotidiana bensì anche come vissuti soggettivi. La salute diviene così una sorta di equilibrio nel fluire dell’esperienza quotidiana: un equilibrio silenzioso; un equilibrio non statico ma dinamico; L'alterazione di questo equilibrio può causare la malattia, una malattia che non assume più le caratteristiche di un semplice incidente, ma diviene l'occasione per ricercare un nuovo equilibrio attraverso un processo di crescita, di consapevolezza e di responsabilità. La persona diviene sana nella misura in cui è capace di vivere in modo consapevole e libero, valorizzando tutte le energie in suo possesso. La persona è, di contro, malata se è incapace o non sufficientemente capace di gestire in modo consapevole e libero la propria vita e di valorizzare le proprie capacità ed energie. Così intesa, la salute non è un dato: è una conquista; non viene acquisita una volta per tutte ma va continuamente ricercata; è un compito, è uno stile di vita, che si arricchisce di quella dimensione etica che congloba le altre dimensioni (organica, psichica, ecologica)” . L’esperienza del limite D’altra parte, l’esperienza del limite che la disabilità inevitabilmente comporta non è un’esperienza estranea all’esistenza umana, anzi si potrebbe affermare il contrario ovvero che il limite è dimensione costitutiva dell’esperienza umana, che comporta si un’alterazione del vissuto ma costringe anche a ripensare alle proprie potenzialità. In tal senso l’esperienza del limite non è esperienza di ciò che manca quanto piuttosto di ciò che si possiede e il limite nella disabilità non va letto elencando ciò che "manca" ma valorizzando ciò che si possiede. Se si assumono come condivise queste conclusioni, ne deriva che il valore esistenziale prioritario da perseguire nella riabilitazione è quello della valorizzazione della persona. Certo resta difficile come contestualizzare questi valori nelle condizioni di gravissima malattie degenerative (pensiamo alla SLA), dove l’evoluzione a volte è talmente veloce da non lasciare il tempo oggettivo di produrre dentro di sé una possibilità di adattamento e dove l’equilibrio è costantemente messo alla prova. O nei casi di forte deterioramento cognitivo, di stato vegetativo, dove il livello coscienziale è fortemente compromesso. Ma è certo che in tutti quei casi in cui si può pensare di sospendere l’intervento riabilitativo perché conclusa la possibilità di recupero di un organo o di una funzione, non bisogna mai smettere di riabilitare la persona, facendosi carico della sua totalità, favorire la continuità degli interventi, alimentare la speranza: prendersi in altre parole “cura”, accompagnando la persona con disabilità la sua famiglia in questo percorso. In questo senso il fisioterapista non è solo un tecnico ma anche un “educatore” nel senso che deve saper coinvolgere la persona con disabilità, offrendo fiducia e serenità, accompagnando questo processo di ricerca di equilibrio, certo avvalendosi di tecniche e strategie, ma innanzitutto entrando in relazione con la persona. Una relazione che - in quanto interpersonale - coinvolge di necessità la dimensione etica. [1] Comitato Nazionale Bioetica. "Bioetica e Riabilitazione", 17 marzo 2006. Tutti i numeri della rivista, fino al 2022, sono disponibili con accesso gratuito. Alcuni recenti articoli - Carlo Giacobini, Riforma disabilità. Dopo il rinvio e .. non solo - Matteo Schianchi, Le contraddizioni dell’inclusione. I servizi socio-educativi per la disabilità tra criticità e prospettive - Massimiliano Gioncada, L’ISEE e la compartecipazione al costo dei servizi sociali e sociosanitari. A che punto siamo? - Francesco Crisafulli, La professione educativa. Il diritto che sia riconosciuta e il bisogno di riconoscer-se-la - Luca Fazzi, Modello dei servizi, dignità e diritti delle persone - Ennio Ripamonti, Immaginare i servizi che si vorrebbero per sé. L’esperienza della residenza anziani di Pinzolo - Arianna e Guido, Raccontiamo l'inclusione. Un prima e un dopo. L’adolescenza di un figlio Asperger e il mondo fuori - Fabio Ragaini, GARANTIRE DIRITTI E QUALITA' DI VITA. Una strada tutta in salita. Una storia - Fausto Giancaterina, Garanzia dei diritti sociali e accompagnamento all’esistenza - Maria Rita di Palma, Raccontiamo noi l'inclusione. Una “ragazza adulta” e una rete di amici… tutta da coltivare! - Salvatore Nocera, L’arco della normativa inclusiva italiana dal 1971 ad oggi - Sergio Tramma, Considerazioni intorno ai "conflitti” interni all’area del lavoro educativo e alla carenza di educatori ed educatrici - Letizia Espanoli, Persone con demenza: dar casa al tempo fragile: errori da evitare, strade da percorrere - Elena Cesaroni, Protezione giuridica e amministrazione di sostegno. La necessità di una riflessione LA RICHIESTA DI SOSTEGNO del Gruppo Solidarietà Altri materiali nella sezione documentazione politiche sociali. La gran parte del lavoro del Gruppo è realizzato da volontari, ma non tutto. Se questo lavoro ti è utile PUOI SOSTENERLO CON UNA DONAZIONE e CON IL 5 x 1000.