Accompagnare l’esistenza. Proposte per ripensare i servizi In, "Appunti sulle politiche sociali", n. 3/2022 (240) - Puoi sostenere la rivista con l’abbonamento. Fausto Giancaterina Già direttore servizi disabilità e salute mentale Comune di Roma. Accompagnare l'esistenza è rispetto delle persone, è alimentare e sperimentare tutta la ricchezza di un lavoro unitario e condiviso, superare la fatica del comunicare e dare sostegno all’impegno di tutti. E' creare connessioni per promuovere buona/vita non solo per le singole persone, ma anche per la comunità (intervista a cura di Fabio Ragaini). Vorrei con te riprendere alcuni temi presenti nel nostro ultimo libro Ripensare i servizi. Personalizzare gli interventi. Con un filo conduttore: il COME. Non perché abbiamo le soluzioni. Ma perché mi sembra necessario esplorare percorsi che siano capaci di rispondere a nuove esigenze, nuove richieste. A partire da qui vorrei che approfondissi un tema cui fai spesso riferimento nei tuoi scritti. La necessità che i servizi “accompagnino all’esistenza”. Cosa significa questo e cosa determina? E' triste per me dover parlare degli attuali servizi pubblici territoriali. Li vedo lontani e complicatamente inadatti agli scopi per i quali sono stati pensati ed originariamente attuati. Io ho vissuto quel tempo creativo e innovativo (gli anni settanta) in cui si lavorava per l'abolizione dei manicomi e dei grandi istituti segreganti e si inventavano servizi, pensati e collocati nei luoghi di vita di tutte le persone, soprattutto di quelle persone che fino ad allora ne erano state escluse. Ho avuto il piacere e la soddisfazione di lavorare insieme a tanti operatori organizzandoci in équipe pluridisciplinari, che, lungi dal parcellizzare gli interventi, cercavano di garantire interventi estensivi, ma sempre unitari. Oggi, purtroppo, vedo servizi settorializzati in grossi blocchi: sanitari, sociosanitari e sociali che seguono norme, visioni, organizzazioni e modalità operative ad andatura di linee parallele, con poca possibilità di contaminazione reciproca e con permanenti difficoltà di comunicazioni tra loro. Vedo, quindi, molto arduo (ma non impossibile!) pensare ad una prospettiva che si impegni a rigenerarli. La loro struttura organizzativa, oltre a dimostrarsi sempre più pericolosamente inefficiente è sempre più sorda ad ogni richiamo di cambiamento, che li ricollochi finalmente in sintonia con il loro mandato costituzionale di essere organizzazioni di aiuto per superare situazioni di diseguaglianze, di disagio e per rimuovere gli ostacoli che "impediscono il pieno sviluppo della persona umana". Dunque: i servizi territoriali - tutti: sanitari, sociosanitari, sociali! - doverosamente dovrebbero (ri)costituire un sistema organizzativo unitario, multi/disciplinare, sì, ma sempre utilmente impegnato a produrre risposte unitarie e personalizzate, ponendo attenzione al fatto che le persone vivono nei luoghi normali dove la vita stessa si distende nelle scuole, nel lavoro, nello sport, nel tempo libero, nell’abitare, attraverso relazioni, conflitti, amicizie, affetti, desideri, delusioni... Questo approccio, per me ha trovato una sintesi operativa in "accompagnare l'esistenza". E' stato l'avventurarmi, con molti altri, in sentieri dove avremmo incontrato diversi protagonisti e compagni di viaggio che non sempre sarebbero stati facilitatori di connessioni e di obiettivi condivisi e che seguivano, a volte, logiche divergenti e solistiche. Ma nonostante le difficoltà abbiamo assaporato la forza di un modo diverso per cambiare la logica operativa dei nostri servizi. Cosa che, ovviamente non è riscontrabile nella generalità dei servizi territoriali i quali, purtroppo, sono sempre più percepiti unicamente come supermercati di prestazioni monodisciplinari. Accompagnare l'esistenza è rispetto delle persone, è alimentare e sperimentare tutta la ricchezza di un lavoro unitario e condiviso, superare la fatica del comunicare e dare sostegno all’impegno di tutti. E' creare connessioni per promuovere buona/vita non solo per le singole persone, ma anche per la comunità. E per i servizi territoriali sarebbe l'occasione di ritrovare una sana percezione del proprio operare nel contesto sociale e forse anche la possibilità di riassaporare emozioni e sintonie tra tutti i professionisti e il piacere di fare una cosa vera, autentica e unica. L’accompagnamento esistenziale diventa, dunque, condizione per un rimodellamento delle risposte caratterizzate dalla diversificazione dei sostegni. Certamente! Un primo possibile risultato potrebbe essere quello di riposizionare il rapporto professionista-persona/fragile non più nella dimensione asimmetrica tra chi (ritenuto paziente o utente) è debole e bisognoso di aiuto e chi è forte e presta aiuto. Tutti sappiamo come tale visione abbia condizionato nel tempo la costruzione del nostro welfare territoriale, produttore di contenitori (chiamati poi servizi!), rigidamente diversificati secondo categorie di bisogno e livelli di gravità. Questa logica operativa basata sui bisogni e su relazioni asimmetriche tra servizi e professionisti da una parte e persone “bisognose” di aiuto dall’altra, tra chi è “forte e presta aiuto” e chi è “debole e riceve aiuto”, non ci ha portato lontano e non ha promosso molto bene-essere. Se proviamo ad utilizzare un diverso approccio che nasca non più dalla logica dei bisogni, ma da quella dei diritti è possibile che tutti gli operatori pubblici e di terzo settore diventino veri accompagnatori competenti dell’esistenza delle persone. Loro hanno la ricchezza di possedere cultura e saperi professionali che li farebbero valevoli mediatori nel promuovere, tutelare, attuare e sostenere le persone nella concretezza dell'esigibilità dei diritti basilari del vivere, di quei diritti sociali, a volte di difficile godimento, come l'accesso pieno all'istruzione, alla formazione e lavoro, all'abitare libero e personale, all'affettività e ad un ruolo sociale positivo. Accompagnare l'esistenza è quindi un invito a farsi affascinare da un orizzonte fortemente e ampiamente partecipativo, teso a costruire servizi basati su una visione strategica ed organica fondata su solide azioni per l'esigibilità dei diritti sociali di tutte le persone. In questa prospettiva mi sembra illusorio pensare che i cambiamenti necessari possano venire dall’alto. Basta guardarsi indietro di qualche decennio per verificare come le più grandi conquiste nascano da una forte spinta dal basso. Pensiamo alla scuola di tutti e per tutti; alla chiusura dei manicomi, degli orfanotrofi, alla radicale messa in discussione delle strutture totali. Torno un attimo su "Accompagnare l'esistenza", sul suo vero significato di cambiamento sia culturale che operativo, perché potrebbe essere un buon punto di partenza per superare l'attuale diffuso approccio nei servizi territoriali ed essere quel diverso paradigma operativo che, per efficacia, possa contrastare quella pericolosa tendenza che vorrebbe ridimensionare il nostro welfare a welfare residuale, dando ampio spazio a welfare aziendali, assicurazioni private, programmi integrativi monetari di varia natura. Il falso messaggio è che ormai sia del tutto impossibile modificare quanto di complicato, confuso e improduttivo sia presente nei servizi e che sia un inutile dispendio di energie ogni tentativo di cambiamento o di innovazione. Sono diversi gli attori che, a volte inconsapevoli, non fanno che rafforzare nei cittadini una visione negativa del nostro welfare territoriale, spingendo verso quelle forme di soluzioni "fai da te", cui accennavo. Penso, innanzi tutto a quei decisori politici i quali non si sono mai preoccupati di dare alle politiche sociali una visione e un assetto organizzativo unitario, centrato sull'esigibilità dei diritti sociali delle persone. Penso alle complicità di quelle famiglie professionali, sempre più protese a mirabolanti specializzazioni e a fornire unicamente prestazioni monodimensionali su singoli bisogni, fortemente restie ad accogliere nuove modalità di co/progettazione nella programmazione, organizzazione, amministrazione e gestione dei servizi. Penso a quei dirigenti pubblici degli Enti locali che non riescono ad abbandonare quella cultura giuridico-formalista che fa loro produrre provvedimenti e sistemi amministrativi spesso molto complicati da eseguire, condizionati da sistemi di controllo unicamente sulle procedure di accesso e per nulla interessati ai risultati che quelle leggi e norme dovrebbero conseguire. Ma penso anche alle Associazioni (stakeholder dei propri associati), molto attive con i rappresentanti politici nell'esigere (anche giustamente!) provvedimenti, leggi e norme, ma che spesso non riescono ad occuparsi di come le norme siano attuate, e non vedono (o non vogliono?) quel collo di bottiglia (i servizi territoriali, appunto!) che, nel migliore dei casi, rallentano, ma il più volte frenano o sterilizzano la realizzazione degli obiettivi di quelle leggi faticosamente ottenute. Una trilogia che non riesce più a raccontare sintonicamente come si possa raggiungere un buon livello operativo dei servizi. Che fare allora? come riattivare quella tensione che dal basso ha prodotto una partecipazione corale tale da fare conquiste impensabili nella vita sociale: santità/salute, scuola, lavoro, chiusura di istituzioni totalizzanti? Leggi e norme insieme ad una governance politica attenta ai cittadini ed al lavoro di intermediazione dei professionisti pubblici dei servizi sono indispensabili, ma non bastano! Non basta più rivolgersi ai decisori pubblici per avere concrete norme favorevoli per l’esigibilità dei diritti sociali: senza la mediazione dei Servizi Territoriali e continuando a ignorarli o ad agire in parallelo con loro, tutto sarà semplicemente paralizzante e irrealizzabile. Iniziamo finalmente a metterci in sintonia con gli operatori dei servizi territoriali per conoscerne le strutture organizzative, le difficoltà, le carenze o i progetti di cambiamento che non riescono a realizzare. E gli operatori a loro volta si mettano in atteggiamento collaborativo alla pari con le Associazioni, escano dalle rassicuranti stanze dei servizi e riconquistino quel giusto riconoscimento da parte dei cittadini, ridando senso condiviso al loro lavoro, e (ri)scoprendo un antico sistema di lavoro che si fonda sulla condivisione di strategie e azioni comuni. Voglio però tornare, per un momento, alla tua esperienza di direttore dei servizi disabilità e salute mentale del Comune di Roma. Lo faccio perché, visto da lontano, mi sembra che abbia risposto in maniera nuova alla emersione di alcune esigenze. Mi riferisco alla realizzazione a metà degli anni novanta di due interventi. Il servizio di assistenza personale autogestita e la realizzazione di piccole comunità disseminate nella città. Ti chiedo da quale retroterra nascono queste esperienze e oggi guardandole da “distante” quali riflessioni ti sollecitano. Con piacere! Nella mia attività di operatore del servizio pubblico ho cercato sempre di alimentare il mio lavoro con quella cultura socio/politica e quella prassi professionale, che negli anni '70, ha dato forza e visione a me, come a tantissime persone - sia professionali che dell'associazionismo - per rompere emarginazioni e segregazioni e far nascere tanti servizi territoriali a sostegno e miglioramento reale dell’esistenza di persone segnate da diverse difficoltà esistenziali. Il mio lavoro si è indirizzato soprattutto alle persone con disabilità, inizialmente nel privato convenzionato e poi (da metà degli anni '70) nell'Amministrazione del Comune di Roma. In quell'epoca, per le persone con disabilità, le risposte disponibili erano quasi esclusivamente affidate a strutture sorte a seguito della legge 118/71: Centri di riabilitazione a forte impronta sanitaria, sostenuti dal Ministero della Sanità. Purtroppo tali strutture, per crescente complessità organizzativa e per necessità di sostenibilità economica, stavano trasformandosi in grosse istituzioni per soli disabili, orientandosi verso pericolose nuove forme neo/istituzionalizzanti. Come raccogliere tale disagio e soprattutto come gestire il mio ruolo di pubblico operatore, con vincoli e lacci tipici delle Pubbliche Amministrazioni? Serviva un deciso cambiamento per tentare di mettere in crisi i modelli organizzativi dominanti e forse attivare un po' di fantasia per inventare nuove soluzioni. Ho così iniziato ad ascoltare famiglie e le loro Associazioni, cercando di tradurre le loro proposte in programmi e progetti da proporre al mio decisore politico facendo leva sulla più ampia creatività, attenta unicamente a costruire progetti inclusivi per una positiva vita sociale. Ecco allora che (a partire dagli inizi degli anni '80) partono i primi segnali di cambiamento: via le "colonie estive" per solo disabili e avvio di soggiorni estivi nei mesi di vacanze, in normali alberghi di mare o montagna a piccolissimi gruppi come per tutti i cittadini; garantire la massima mobilità attraverso la possibilità di un servizio taxi; nuove opportunità di integrazione nelle scuole, con i Laboratori Teatrali Integrati: fare utilizzare agli alunni delle scuola media con e senza disabilità uno strumento originale, quale la pratica teatrale condotta ed agìta con mezzi e professionalità altamente qualificati E poi arriviamo alle prime esperienze del SAD (Servizio di Assistenza Domiciliare - 1983) centrato prevalentemente sull'aiuto domiciliare delle persone. Ma da subito ci siamo resi conto che la natura complessa degli interventi avesse bisogno di ben altri investimenti (sia professionali, che tecnico-amministrativi ed economici). Serviva in fretta un diverso progetto che potesse contare su collaborazioni stabili e competenti, partendo dall'abolizione delle classiche gare d'appalto e adottando il sistema dell'accreditamento e coinvolgendo maggiormente e responsabilmente tutti i protagonisti interessati al problema: l'Amministrazione comunale, le ASL, gli Organismi di terzo settore, le persone con disabilità e le loro famiglie. Si struttura così il nuovo servizio: il Saish (Servizio per l’Autonomia e l’Integrazione Sociale della persona disabile)[1]. Obiettivo: dare maggiore evidenza alla centralità della persona disabile, un servizio basato su un prodotto intangibile, la cui qualità fosse possibile valutare solo al momento della fruizione, poiché basato su relazioni di aiuto, spostando la valutazione da ex-ante (sistema utilizzato generalmente nelle gare d’appalto) a ex-post, in cui si valutano gli esiti a intervento avvenuto. Si arriva finalmente all’elaborazione di un progetto personalizzato d’intervento e viene ripensata anche la modalità attuativa del servizio stesso che potrà essere realizzato in forma diretta, indiretta o mista. Nella forma diretta attraverso la libera scelta di un Ente Gestore già accreditato, che con suoi operatori attuerà il progetto personalizzato, articolato in interventi individuali e/o di gruppo. Nella forma indiretta attraverso l’assunzione dell’assistente personale da parte dell’interessato o della sua famiglia, osservando un regolare contratto di lavoro e con la possibilità, a seguito di definizione della quota economica spettante, di poter riscuotere tale quota regolarmente a fine mese presso una banca convenzionata con l'Amministrazione, garantendo in tal modo il regolare pagamento dell'assistente personale. Complessivamente tra assistenza diretta e indiretta a fine 2009 (anno del mio pensionamento) a Roma erano fruitori del servizio oltre 3.500 persone con disabilità. E arriviamo agli anni '90. Dopo attento ascolto e consultazioni viene lanciato Il progetto residenzialità del Comune di Roma[2], soluzioni esistenziali che felicemente hanno anticipato tutta la complessa problematica del Durante Dopo di Noi. Impostato sulla tipologia di casa famiglia (max 6 persone) in normali case di civile abitazione e la massima attenzione al rispetto della scelta autonoma e della dignità di ogni persona si voleva far vivere in un ambiente sereno, confortevole e di positive relazioni, ma nel contempo ricco di stimoli per una effettiva crescita personale: esperienze e attività interne ed esterne alla casa famiglia, dinamiche positive nel gruppo, sostegno alle potenzialità personali in rapporto all'età, alle capacità cognitive, comunicative, affettive e motorie e non e nel contempo si offrono possibilità di partecipazione e inclusione sociale, mantenendo sempre i rapporti con il nucleo di origine. Altro obiettivo: stimolare l'attivazione di tutte le risorse territoriali per creare occasioni di inclusione nelle normali attività lavorative o di tempo libero a delle persone e integrando gli interventi di assistenza sanitaria e psicologica, le terapie riabilitative e le attività educative e ricreative quali momenti specifici e strumenti per il conseguimento del benessere globale della persona disabile. Per aggiungere un buon livello di qualità della vita bisognava attivare una vera partnership: condividere un linguaggio comune e sperimentare insieme un sistema di valutazione, un buon sistema di manutenzione attraverso il metodo di una ricerca partecipata con gli operatori su come valutare il proprio lavoro, un'occasione anche formativa, non per dare nuovi strumenti operativi, ma uno strumento di riflessività e, ove necessario, di cambiamento. E veniamo all'ultima tua sollecitazione di riflessione. Il Progetto Residenzialità, partito nel 1996, purtroppo è rimasto sostanzialmente immutato nonostante l'arrivo della Convenzione ONU e soprattutto della Legge 112/2016. Una nostra sollecitazione di unificazione di tutta la normativa regionale sul tema non ha avuto riscontro alcuno né dalla Regione Lazio e né dal Comune di Roma[3]. Due sistemi paralleli, e a volte divergenti, affrontano uno stesso problema: il Durante/Dopo di Noi! e il Progetto Residenzialità - rimasto sostanzialmente immutato - attualmente sembra che faccia molta fatica a rispettare quotidianamente una buona qualità del benessere delle persone, un'inclusione attiva nel territorio e, nel contempo, una corretta sostenibilità del sistema gestionale. La staticità del progetto e il progressivo aumento degli aspetti negativi, ritengo siano principalmente da attribuire al fatto che, dopo il 2009 (anno di mia uscita dall'Amministrazione!), il cambio della dirigenza ha portato ad un progressivo smantellamento dell'équipe pubblica di controllo e di indirizzo (da me istituita) per vigilare, ma soprattutto per sostenere insieme agli operatori gestori le eventuali criticità del sistema dovute anche al naturale mutare delle esigenze esistenziali e sociali dei cittadini delle Case famiglie. Ed ecco perché gli organismi gestori non avendo praticamente più sistematici supporti con interlocutori pubblici, alla fine hanno orientato ogni richiesta unicamente all'aumento delle risorse, senza alcuna preoccupazione del crescendo immobilismo e abbassamento della qualità esistenziale. Credo, quindi, che sia importante sottolineare come in generale la mancanza di una robusta e preparata guida pubblica, attenta e sollecita nell'agire con gli organismi gestori per una sana manutenzione del sistema strutturale e gestionale, determini che ogni progetto, ogni servizio diventi pericolosamente terreno di speculazione economica (tendenza a ridurre personale, aggregazione di molte strutture da gestire, ecc.) e di scivolamento verso un sistema assistenziale passivizzante. Il diritto all’autonomia e all’inclusione sociale diventano utopie accademiche, mentre avanza di fatto la prospettiva di “mini-istituto camuffato da Casa Famiglia”. Riprendiamo la riflessione sulle forme di neo/istituzionalizzazione. Qui entra il tema della aziendalizzazione, delle efficienze gestionali, della risposta alla complessità con la semplificazione (ad esempio: faccio il centro diurno al primo piano della comunità; entro in comunità e sospendo quello che facevo prima; aggiungo un “modulo” per le tue future necessità …) e del ruolo del privato profit e no. Quest’ultimo spesso, per sopravvivere, è diventato un “progettificio” e con grande fatica, non vorrei generalizzare, mantiene, quando l’aveva, un legame con la comunità di appartenenza. Di un ente pubblico che sembra incapace di tenere titolarità mentre affida gestione. Come certamente tu sai, ci sono parole (e soprattutto azioni da queste ispirate) che all'apparenza si presentano neutre o innocue, ma che in realtà nel loro attuarsi rivelano prospettive che mettono in pericolo l'universalismo e la giustizia sociale del nostro welfare. Mi riferisco, in particolare, a queste tre: aziendalizzazione, esternalizzazione, privatizzazione. Il mito dell'efficienza aziendale ha sedotto particolarmente in nostro welfare sanitario. Si è progressivamente imposta (D. lgs 502/’92) una sorta di acculturazione organizzativa tipica delle aziende private, orientata al modello fordista: divisione del lavoro, rigida strutturazione piramidale delle decisioni, deresponsabilizzazione dei singoli e valutazione della dirigenza di vertice delle ASL prevalentemente su competenze e capacità gestionali di bilancio, mentre tutte le professioni vengono sospinte ad acquisire solide competenze specialistiche su singole discipline. Nei servizi è il momento dell'espandersi di un dominante approccio operativo monoprofessionale e specialistico, basato sulla rigida divisione prestazionale di singole discipline, utile, sicuramente, in ambito ospedaliero, ma del tutto inadeguato nell'organizzazione dei servizi sociosanitari. Non stupisce quindi che una tale riorganizzazione faccia pericolosamente ritornare i servizi ad essere “re-istituzionalizzanti”. Quando poi ci addentriamo nel ginepraio delle esternalizzazioni viene da chiedersi: "esternalizzazione che significa? Significa assecondare quella sussidiarietà orizzontale dell'art. 118 della Costituzione o semplicemente cedere organizzazione e gestione di servizi (soprattutto residenziali) a organismi profit o non/profit, non pubbliche?". Purtroppo questa seconda possibilità è quella più inquietante e forse ancora più diffusa: si tratta del classico affidamento totale con bandi di affidamento e valutazioni ex ante di requisiti strutturali e organizzativi, che poi non prevedono alcun controllo successivo. Non stupisce che in questi casi facilmente prevalga la ricerca di profitto con tendenza a ridurre personale, accaparramento di molte strutture da gestire, a scapito, quasi sempre, sia dei diritti delle persone fruitrici che dei lavoratori dipendenti. Ma qui ovviamente mi interessa parlare di sussidiarietà orizzontale in cui gli Enti Pubblici Locali hanno la possibilità di rafforzare la loro azione nel condividere e individuare i percorsi più adeguati in forma congiunta di corresponsabilità con gli Enti del Terzo settore, in termini di co/programmazione, co/progettazione e co/gestione, seguendo sempre la procedura ad evidenza pubblica[4]. Questo approccio è un corretto intreccio tra iniziativa pubblica e risorse comunitarie, tra operatori sanitari, sociali, del Terzo settore, ma anche dei cittadini e dei loro familiari. Un approccio diverso per i servizi territoriali, che potrebbe produrre, finalmente, l’irrinunciabile integrazione dei servizi a sostegno della vita delle persone in maniera evolutiva e inclusiva. Quando, infine parliamo di privatizzazione mi viene da pensare ad un qualcosa di cui vengo privato come della sparizione di un qualche soggetto pubblico che tradisce il suo mandato istituzionale e non tutela più la mia salute e/o quei diritti sociali di cui ho già parlato. Si vogliono svuotare servizi e interventi a gestione pubblica, deresponsabilizzando chiunque stia nei servizi territoriali. Attenzione: è in pericolo il diritto di cura poiché con le privatizzazioni si distrugge l'universalismo, il diritto ad un equo utilizzo dei servizi sanitari e sociali, un loro efficace coordinamento, la partecipazione, e soprattutto si rafforza un sistema di scelte discrezionali dei gestori, interessati a incrementare servizi con prestazioni ritenute più lucrative. Serve, quindi, soprattutto nei servizi sociosanitari territoriali una governance con una forte regia pubblica che, però, sappia sganciarsi, ripeto, da quella cosa chiamata burocrazia difensiva sempre pronta ad imporre procedure uniformi e gerarchiche semplificatorie delle multiformi problematiche dei cittadini e che allontano la partecipazione sociale sia dei cittadini/fruitori che del genuino mondo del Terzo settore e delle associazioni di advocacy. Senza una tale governance pubblica il ruolo del privato profit e non tende a dilatarsi, a riempire vuoti istituzionali, ad attivarsi con diverse proposte realizzative attraverso quello che tu definisci “progettificio”, non disdegnando di arrivare fino ad influenzare le scelte di politiche sociali e soprattutto, l'allocazione delle risorse in settori dove facilmente attivare azioni predatorie. Da ultimo una riflessione sul tema della formazione degli operatori e anche del loro riconoscimento, a partire da quello economico. Un altro tema “enorme”, ma anche questo impossibile da eludere se davvero vogliamo “Ripensare i servizi”. Questo è il momento delle idee forti! Perché, come tutti sappiamo, in tempo di crisi e non solo di crisi economica, climatica e/o sanitaria... ma di crisi che scoperchia tutti i limiti del nostro welfare: un welfare riparatorio, che aspetta solo domande per dare (forse) risposte, con cliché pre/confezionati e, come ho già accennato, un welfare condizionale che, impone notevoli condizionamenti per poter accedere a determinati aiuti e benefici (ad esempio: lavoro, reddito di cittadinanza, casa...). L'impossibilità ad ottenere quei benefici non tiene mai conto di eventuali oggettive disfunzioni strutturali pubbliche o di fattori negativi sociali che di fatto renderebbero difficile il raggiungimento dei benefici, ma è riferita unicamente alle decisioni del richiedente, attribuendo ogni fallimento unicamente o a problemi psicologico/individuali o a una non volontà della persona ad attivarsi per cambiare. In tal modo le istituzioni si mettono al riparo da ogni dovere di affrontare cambiamenti strutturali ed operativi sull'impatto negativo dei determinanti sociali. Oggi con questo scenario è questa la mia proposta: provare a fare manutenzione nei nostri servizi territoriali, per verificare la compatibilità di un binomio: produrre servizi e promuovere diritti! Quando ci siamo avventurati nella difficile impresa di un welfare di prossimità e generativo intendevamo proprio questo: un nuovo paradigma operativo che spingesse tutti gli operatori dei servizi (pubblici e di terzo settore) a non considerare più le persone come recettori passivi di azioni di aiuto professionale, ma a trovare, riattivare e valorizzare le loro personali risorse e quelle della comunità sociale, nella consapevolezza che esistesse un rapporto stretto tra le condizioni e lo stile di vita delle persone e il loro stato di salute e di benessere. Una scelta non più rinviabile di una vera co/programmazione e co/progettazione, che associ la consapevolezza di una co/responsabilità nella tutela del ben-essere delle persone di un territorio e un passo in avanti nel considerare non più assoluta la delega e le responsabilità finora date agli operatori dei servizi formali nel gestire ogni tipo di disagio e/o difficoltà esistenziale dei cittadini. E qui ritorna quella prospettiva operativa che ho chiamato accompagnare l'esistenza, un percorso esistenziale non predefinito da un format di un servizio che ha la presa carico, ma il divenire di un qualcosa che si focalizza strada facendo, affiancato da protezione, da risorse formali pubbliche e da risorse informali del territorio, per consolidare le prime conquiste di capacitazione, e la (ri)conquista di un proprio personale potere contrattuale. Un cambiamento necessario anche per il nostro sistema universitario e scolastico che si fonda sulla trasmissione di singole e separate le discipline, mentre dovrebbe fornire sistemi di interconnessione, di sintesi e di senso unitario del tutto. E forse alla fine per non essere e sentirsi operatori chiamati unicamente a studiare e a specializzarsi nell'analizzare e affrontare la sofferenza, potrebbe essere interessante diventare operatori che ricercano quella che i greci chiamavano eudaimonia: la legittima aspirazione alla felicità! Se cosi dovessero andare le cose allora per i servizi il problema non è quello di fare manutenzione per riattrezzarsi nel possesso di nuove competenze professionali (descrivibili e osservabili) e meglio padroneggiare le relazioni professionali, ma quello di fare attenzione alle competenze invisibili, a quell'insieme di "sapere applicato e praticato, sedimentato, stratificato in anni di pratica e che costituiscono il vero motore delle nostre azioni e del nostro lavoro professionale cioè quell'insieme dei tratti di personalità, delle motivazioni, dell’immagine di sé, degli atteggiamenti e delle visioni personali, delle strategie metacognitive, della consapevolezza e sensibilità verso ogni contesto operativo"[5]. E' questa la strada, forse, per acquisire una solida consapevolezza di lavorare per co/costruire e co/realizzare progetti di robuste reti sociali, di buona vita con minore dipendenza e maggiore autonomia possibile, nella logica dell’inclusione. E alla fine: riconoscimento positivo e giusta retribuzione non tarderanno ad arrivare! [1] Vedi in Handicap grave, autonomia e vita indipendente, Gruppo Solidarietà, 2002. [2] Vedi in, Handicap - Servizi - Qualità della vita, Gruppo Solidarietà, 2001. [4] Sentenza n.131/2020 delle Corte Costituzionale. [5] Bentivogli C., Catani M., Marmo C., Morgagni D., Le competenze invisibili, Franco Angeli, Milano 2013 Puoi sostenerci con l’abbonamento Tutti i numeri della rivista, fino al 2021, sono disponibili con accesso gratuito. Alcuni recenti articoli - Carlo Giacobini, Riforma disabilità. Dopo il rinvio e .. non solo - Matteo Schianchi, Le contraddizioni dell’inclusione. I servizi socio-educativi per la disabilità tra criticità e prospettive - Massimiliano Gioncada, L’ISEE e la compartecipazione al costo dei servizi sociali e sociosanitari. A che punto siamo? - Francesco Crisafulli, La professione educativa. Il diritto che sia riconosciuta e il bisogno di riconoscer-se-la - Luca Fazzi, Modello dei servizi, dignità e diritti delle persone - Ennio Ripamonti, Immaginare i servizi che si vorrebbero per sé. L’esperienza della residenza anziani di Pinzolo - Arianna e Guido, Raccontiamo l'inclusione. Un prima e un dopo. L’adolescenza di un figlio Asperger e il mondo fuori - Fabio Ragaini, GARANTIRE DIRITTI E QUALITA' DI VITA. Una strada tutta in salita. Una storia - Fausto Giancaterina, Garanzia dei diritti sociali e accompagnamento all’esistenza - Maria Rita di Palma, Raccontiamo noi l'inclusione. Una “ragazza adulta” e una rete di amici… tutta da coltivare! - Salvatore Nocera, L’arco della normativa inclusiva italiana dal 1971 ad oggi - Sergio Tramma, Considerazioni intorno ai "conflitti” interni all’area del lavoro educativo e alla carenza di educatori ed educatrici - Letizia Espanoli, Persone con demenza: dar casa al tempo fragile: errori da evitare, strade da percorrere - Elena Cesaroni, Protezione giuridica e amministrazione di sostegno. La necessità di una riflessione LA RICHIESTA DI SOSTEGNO del Gruppo Solidarietà Altri materiali nella sezione documentazione politiche sociali. La gran parte del lavoro del Gruppo è realizzato da volontari, ma non tutto. Se questo lavoro ti è utile PUOI SOSTENERLO CON UNA DONAZIONE e CON IL 5 x 1000.