Data di pubblicazione: 08/04/2024
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Garanzia dei diritti sociali e accompagnamento all’esistenza

In,  Appunti sulle politiche sociali, n. 3/2021 (236) Puoi sostenerci con l’abbonamento

Fausto Giancaterina, Già direttore servizi disabilità e salute mentale Comune di Roma  

Credo che per rivitalizzare il nostro welfare sia prima di tutto necessario riappropriarsi del significato più dinamico di quel mandato istituzionale e professionale che ancor oggi coinvolge tutti gli operatori pubblici: essere accompagnatori competenti dell’esistenza delle persone  nei normali contesti della vita.

E’ molto triste dover constatare che le disuguaglianze e le difficoltà esistenziali delle persone (e soprattutto delle persone che fanno fatica a tenere il passo!) non si arrestano, ma continuano ad aumentare e che la qualità della loro vita e della loro salute (intesa come bene-essere) diventano sempre più scadenti. In particolare è sempre più faticoso accedere ad un’istruzione adeguata (specie se universitaria!), ad una formazione specifica e rispondente alle proprie capacità; trovare un lavoro e un reddito dignitoso; disporre di un accesso non complicato e in tempi ragionevolmente brevi alle cure specialistiche; avere sostegni per una buona inclusione sociale e la possibilità di una dignitosa abitazione.

Perché accompagnare l’esistenza

Questa è la descrizione - in estrema sintesi – dell’attuale crisi del nostro welfare dei servizi territoriali. Un welfare inventato diverso tempo fa con il mandato di accompagnare l’esistenza delle persone e di facilitare loro il riconoscimento e il godimento di quei diritti fondamentali della vita.

Credo che per rivitalizzare il nostro welfare sia prima di tutto necessario riappropriarsi del significato più dinamico di quel mandato istituzionale e professionale che ancor oggi coinvolge tutti gli operatori pubblici: essere accompagnatori competenti dell’esistenza delle persone (ed in particolare, per quanto qui ci interessa, delle persone con disabilità) nei normali contesti della vita, per rigenerare le migliori occasioni di buona qualità della vita stessa, promovendo l’insieme delle relazioni, delle amicizie, degli affetti e dei desideri (spesso non sempre ben espressi e comprensibili), promossi e sostenuti nei luoghi della scuola, del lavoro, dello sport, del tempo libero, del divertimento, della vacanza, nei sentieri dell’abitare autonomo, perché sia possibile sviluppare e sostenere l’identità della persona e il suo riconoscersi anche attraverso gli altri.

Accompagnare l’esistenza è quindi per i professionisti significativamente la concreta riscoperta di un lavoro di mediazione e di sostegno per rendere possibile l’esigibilità di quei diritti basilari del vivere, vale a dire (e lo ripeto quasi ossessivamente): il diritto all’istruzione, alla formazione, al lavoro,  il diritto all’abitare, il diritto alla salute, il diritto all’inclusione per un positivo ruolo sociale.

Allora, se vogliamo ancor più capire il significato del mandato di “accompagnare l’esistenza”, occorre che ogni welfare territoriale si (ri)attrezzi per sostenere realmente il lavoro degli operatori nel ruolo di “mediatori”: per garantire, promuovere, tutelare, attuare, sostenere e facilitare il godimento di quei diritti sociali. Ma quei diritti non vanno solo e semplicemente rivendicati: hanno bisogno di essere co/promossi e co/attuati.

E qui l’attuale realtà dei servizi non ci aiuta affatto in tal senso. I servizi continuano ad essere in grosse difficoltà: organici ridotti in numero e professioni; risorse finanziarie in calo da diversi anni; esternalizzazioni fuori controllo; operatori che si sono stabilizzati nelle loro competenze professionali su processi di aiuto unicamente per singole prestazioni monodimensionali a discapito di un doveroso approccio multidimensionale (bio-psico-sociale), accettando, senza fiatare, l’improduttivo spezzettamento dei servizi stessi, e una persistente mancanza di un qualsiasi programma a favore di sistemi integrati soprattutto di quell’indispensabile integrazione tra sistema sanitario e sistema sociale.

Ad esempio (e spero di essere immediatamente smentito), nel sito ufficiale dell’Ordine Nazionale degli Assistenti Sociali non sono riuscito a rintracciare una qualche proposta che, partendo dai determinanti sociali di salute, si concretizzasse in una visione operativa di progettazione unitaria e di integrazione sociosanitaria a livello di distretto, per sostenere, in particolare, l’esistenza di persone segnate da fragilità! Molti operatori hanno ritenuto necessario crearsi una nuvola di rifugio e di sicurezza, codificando e applicando consolidate procedure, protocolli operativi, modelli e metodi d’intervento poco rispondenti ad un lavoro che promuova relazioni di inclusione. “Ad un tale scivolamento verso regressioni organizzative con sistemi operativi ad una dimensione, va aggiunto un notevole indebolimento di senso nel lavoro sanitario, sociosanitario e sociale. La strutturazione del welfare territoriale si è quindi attestata vié più su sistemi organizzativi per filiere tecnico/amministrative, incomunicanti e rigorosamente separanti il sanitario dal sociale, ma anche dall’educativo e dal formativo/lavorativo”[1].

Non bastano appelli e denunce

Di fronte ad una tale situazione - a mio modestissimo parere - è importante, ma non sufficiente che le Associazioni, (l’altra metà del mondo del welfare e veri tutori degli interessi dei propri associati utenti dei servizi) si limitino a pubblicare appelli e denunce verso politici e amministratori, rappresentando con chiarezza storie vive e istanze pressanti (che arrivano loro dalle persone con disabilità e dalle loro famiglie), sul loro isolamento, segregazione, discriminazioni nel lavoro, nella scuola e persino nei confronti delle donne con disabilità.

Non è sufficiente che si chieda con forza un’ampia riforma del sistema di welfare basato principalmente su criteri di protezione, per un welfare profondamente modificato in favore di un nuovo modello basato sui diritti civili, sociali, umani. Credo che non basti invocare l’abbandono dell’approccio ai bisogni in favore di progetti personalizzati per sostenere un vivere più autonomo ed indipendente e che il nostro welfare sia finalmente un “welfare di inclusione e prossimità, integrando le competenze nazionali e regionali”.

Ripeto: tutte rivendicazioni, denunce, appelli e proposte importanti (e forse veramente necessari), ma partire solo dalla proclamazione di visioni alte e dalla rivendicazione di sacrosanti diritti rivolgendosi sempre e solo ai tanti decisori politici nazionali e regionali, quando a livello territoriale e nella quotidianità dell’esistenza continuano a mancare servizi, strumenti e professioni di mediazione per la reale esigibilità di quei diritti, non basta e soprattutto non funziona più!

C’è bisogno di un lavoro di co/azioni dal basso per avviare un vero cambio di rotta del nostro welfare territoriale: Associazionismo e Terzo settore devono incontrare, ascoltare i professionisti dei Servizi pubblici, valutare insieme positività e carenze, per poi co/progettare e co/proporre un welfare non più centrato sulle prestazioni e su rapporti duali, ma un welfare di prossimità e generativo partendo dai diritti sociali costituzionalmente garantiti.

Qui si tratta di annientare una situazione che sta alimentando l’assoluta indifferenza e irresponsabilità nei confronti dei servizi territoriali. In permanenza di tale situazione le Associazioni e il Terzo settore non riusciranno mai ad essere il vero motore di un cambiamento culturale che metta sotto gli occhi di Amministratori e Professionisti Pubblici il dovere di essere coerenti e fedeli al mandato istituzionale (art. 2, Costituzione), che impone loro il ruolo di operare con competenza organizzativa per rimuovere ogni ostacolo all’esigibilità dei diritti sociali dei cittadini e attivare una co/costruzione di servizi/risposte, che prevedano una co/progettazione nella programmazione, organizzazione, amministrazione e gestione del welfare territoriale dei servizi, partendo dalla ineludibile necessità dell’integrazione tra servizi sanitari e servizi sociali, tra professionisti pubblici e le organizzazioni del Terzo settore, dando il ruolo di vigilanza ai cittadini stessi riuniti in Associazioni.

Senza voler avere la presunzione di risolvere con la bacchetta magica questa complicata e complessa situazione dei diversi attuali welfare territoriali, mi permetto di suggerire alcuni materiali per vitalizzare e concretizzare quel patto di co/azioni dal basso tra Amministrazioni Pubbliche e Associazionismo e Terzo Settore[2].

Serve una penetrante svolta culturale

Se vogliamo far rinverdire gli “attrezzi” di lavoro dei servizi territoriali e ritrovare una sintonia per condividere il significato delle parole che usiamo abitualmente per comunicare e agire, dobbiamo essere consapevoli che prima di tutto bisogna provocare una svolta culturale, senza la quale diventa molto difficile che si possa con coerenza operare in relazione al nuovo paradigma di approccio ai diritti come richiesto dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. Sappiamo che, ancor oggi, nei servizi sociosanitari è dominante il paradigma bio/medico, settoriale e quindi parziale.

Credo che bisogna iniziare da qui per proporre un primo vero e proprio approccio antitetico, una transizione verso un paradigma multidimensionale centrato sul bene-essere (bio-psico-sociale) della persona, una proposta di vera cultura alternativa[3], con un passaggio concettuale che sposti l’organizzazione dei servizi in modo significativo.

Il passaggio riguarda (a mo’ di esempio) le seguenti parole/chiave: da Paziente a Persona; da Valutazione individuale a Valutazione multidimensionale e multiprofessionale; da Diagnosi a Funzionamento; da Prestazioni riparative a Progetto di capacitazione personalizzato;  da rapporti Unidirezionali dei professionisti dei Servizi Pubblici  a Relazioni pluridirezionali con la rete informale delle persone e con la comunità sociale in una co-progettazione utile al bene-essere di tutti.

Un secondo approccio antitetico riguarda gli appellativi utilizzati nei documenti, nel linguaggio corrente e nei media per indicare le persone con disabilità. Ancora oggi, ad esempio (nonostante quanto enunciato nella Convenzione ONU), non è del tutto superata la confusione creata dall’utilizzo di termini e di concetti, spesso considerati sinonimi, ma che, in realtà, indicano situazioni, atteggiamenti e impliciti valoriali molto diversi tra loro. Il nocciolo della questione non è semantico, ma è un problema culturale che la società ha nei confronti della disabilità. Come del resto l’utilizzo ambiguo (e ritenuto equivalente) degli aggettivi individuale e personale; ne è l’esempio l’acronimo PEI (progetto educativo individualizzato) utilizzato con particolare determinazione dal contesto scolastico e non PEP (progetto educativo personalizzato), o l’acronimo PTRI (progetto terapeutico/riabilitativo individuale).

Ma la Convenzione ONU ha magistralmente utilizzato il termine “persona con disabilità” e non “individuo con disabilità”! Forse perché - come la nostra Costituzione - ha fatto proprio il riferimento al principio personalista. Sappiamo con molta evidenza che “la persona, nel suo patrimonio identificativo ed irretrattabile, costituisce nella nostra Costituzione il soggetto attorno al quale si incentrano diritti e doveri[4]. Inoltre, “l’intera Carta repubblicana, secondo la comune opinione, costituirebbe un inno alla persona, ai suoi diritti fondamentali, alla sua dignità, una persona salvaguardata – com’è stato felicemente detto – in lunghezza, larghezza e profondità”.[5]  Anche il secondo Programma di Azione biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità, all’Azione 5: “Condivisione e diffusione di principi e strumenti di progettazione personale e loro applicazione”, chiede di superare il concetto di progetto individualizzato previsto dall’articolo 14 della Legge 328/2000.

Ritengo quindi che, in sintonia con la nostra Costituzione e con la stessa Convenzione ONU, si debba finalmente scegliere la dizione personalizzato/i in relazione a piani o progetti, per evidenziare anche l’essere immersi nel dinamismo delle reti relazionali, superando la terminologia che poggia sul concetto di individuo più coerente nel designare l’essere solitario e autoreferenziale.

Le difficoltà riscontrate nei servizi, restii a cambiamenti culturali e operativi, l’agire poco coerente verso i diritti da parte degli amministratori e dei professionisti, spesso determinano una vera stagnazione delle attività e creano nelle Associazioni una frustrazione tale da essere tentati continuamente a mettersi in proprio, presentando esclusivi progetti da realizzare con finanziamenti pubblici.

Un ultimo passaggio di cambiamento culturale riguarda l’adozione del sistema operativo Budget di Salute. In relazione a tale sistema (attualmente molto in auge e presente in molte sperimentazioni, discussioni e pubblicazioni!) mi sembra doveroso e importante segnalare alcune definizioni non coerenti con la comune definizione di budget di salute.

Che cosa non è – a mio parere - il budget di salute: non è sinonimo di budget di cura, in quanto non si limita al solo aspetto sanitario indirizzato al superamento di una condizione di malattia; non è sinonimo di budget di progetto, poiché non si identifica in un singolo determinante di salute (ad es.: l’abitare, il “Dopo di noi”, l’inclusione scolastica, l’inclusione lavorativa…); non corrisponde meramente alle risorse economiche disponibili;  non va confuso con il voucher, assegno strettamente economico, dato alle famiglie per la gestione in proprio dell’assistenza sanitaria o sociale.

Il Budget di Salute in realtà è un sistema operativo valido a sostenere progetti di vita personalizzati. Progetti definiti con il coinvolgimento dei cittadini/utenti, inseriti nel più ampio processo di riabilitazione/abilitazione e capacitazione e sostenuti dall’insieme delle risorse economiche, professionali e umane, dagli asset strutturali, dal capitale sociale e relazionale della comunità locale, necessari a promuovere contesti relazionali, familiari e sociali idonei a favorire un ben-essere della persona e una sua migliore inclusione sociale. Attraverso il sistema operativo budget di salute la complessità delle risorse disponibili non verrà più utilizzata per finanziare rette in favore di contenitori segreganti, ma per garantire l’esigibilità del diritto alla salute (bene-essere), attraverso l’attivazione di interventi sociosanitari integrati e personalizzati, attenti ai determinanti sociali di salute.

Serve un deciso cambio di governance

Serve un deciso cambio a livello regionale di governance verso un’unitaria gestione di tutti i servizi territoriali, che rompa finalmente la struttura dei servizi a “canne d’organo” (indipendenti e incomunicanti), realizzando una produzione legislativa che attui in primis  l’integrazione sociosanitaria, richiedendo, prima di tutto, una vera adesione delle  professioni sanitarie, derivante dalla “convinta consapevolezza - come giustamente asserisce Fabrizio Starace[6]- della dimensione sociale nella produzione di salute e obiettivo quasi del tutto assente nei curricula formativi dei professionisti sanitari. Il ruolo che i fattori ambientali, sociali, culturali e comportamentali esercitano sullo stato di salute e di malattia degli individui e della comunità viene ancora considerato esterno alla tecnicalità sanitaria, salvo poi osservarne il richiamo tra gli aspetti che più di tutti sono in grado di spiegare la variabilità dei quadri chili clinici, del loro decorso, dei loro esiti”.

Conseguentemente serve rimodulare la diversa natura giuridica delle ASL e dei Comuni e fare una ricognizione delle risorse professionali sociali e sanitarie presenti, un attento riordino quantitativo e qualitativo delle professioni nei servizi, superando carenze e squilibri tecnico/operativi in relazione alla capacità di mediazione verso tutti i cittadini della regione e utilizzando doverosamente le nuove opportunità legislative: 1. Legge di Conversione 17 luglio 2020, n. 77 del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34. All’articolo 89: Norme in materia di fondi sociali e servizi sociali. Comma “2-bis. I servizi previsti all’articolo 22, comma 4, della legge 8 novembre 2000, n. 328, sono da considerarsi servizi pubblici essenziali: servizio sociale professionale; segretariato sociale per informare i cittadini, servizi di pronto intervento per le situazioni di emergenza sociale; assistenza domiciliare; strutture residenziali e semiresidenziali per soggetti con fragilità; centri di accoglienza residenziali o diurni a carattere comunitario; 2. la Legge 178/2020 (Legge di Bilancio per il 2021) all'articolo 1, comma 797 e seguenti, ha introdotto un livello essenziale delle prestazioni di assistenza sociale definito da un operatore ogni 5.000 abitanti e un ulteriore obiettivo di servizio definito da un operatore ogni 4.000 abitanti. 

Un’ultima operazione che le Associazioni e il Terzo settore devono promuovere: l’integrazione gestionale a livello di distretto sociosanitario. E’ a questo livello che si gioca la credibilità del sistema servizi ed è proprio a questo livello che non si riesce ancora a superare le contraddizioni più forti, mentre le persone in difficoltà vengono sospinte in un angolo e prevale l'individualismo dei più forti, pronti ad accaparrarsi mezzi e opportunità. Si tratta di un lavoro certosino ma necessario, che deve portare a stabilizzare come prassi condivisa l’integrazione a tutti i livelli gestionali, attraverso: la costituzione dell’ufficio sociosanitario integrato; l’adozione di un bilancio unico sociosanitario (budget di distretto, con risorse da ASL e  da Comune); l’integrazione professionale con la costituzione di unità valutative integrate (UVI) per la gestione unitaria della documentazione, la valutazione dell’impatto economico delle decisioni, la definizione delle responsabilità nel lavoro integrato, il Punto Unico di Accesso alle prestazioni sociosanitarie (luogo dell’accoglienza sociosanitaria); l’attuazione della presa in carico integrata - diritto/dovere riservato in esclusiva al Servizio pubblico -; la definizione di tutta la strumentazione per una valutazione multidimensionale della situazione della persona, con il coinvolgimento della persona stessa, della sua famiglia e di coloro che se ne prendono cura.

Si tratta di assumere una valutazione che  affronti la storia evolutiva della sua presa in carico, esaminando quanto le soluzioni (fino ad allora adottate) abbiano contribuito a determinare la situazione in esame e come poterne modificare l’assetto per giungere ad una situazione di positivo cambiamento. È importante ricordare che c’è sempre una commistione tra valutazione e progetto e che, pertanto, non esiste un progetto, ma normalmente un ciclo di progetti: progetto, risultati, ri/progetto; tutto questo soprattutto se si riscontra la persistenza di elementi/barriera nei confronti del bene-essere della persona.

Un ultimo “attrezzo” potrebbe essere sicuramente quello di esigere che ogni persona abbia il diritto ad un proprio progetto di vita personalizzato, che preveda il rispetto del diritto di scelta, la garanzia della piena partecipazione di tutti gli stakeholder  alla definizione del progetto; il sostegno con intelligenza e rispetto ai percorsi di autonomia e di capacitazione; l’aiuto nel prevenire situazioni di disagio e abbandono; la possibilità di avere un Case Manager; l’essere in sintonia con il proprio contesto di vita comunitario; e la verifica periodica degli obiettivi raggiunti, con eventuale ridefinizione periodica in relazione agli eventuali cambiamenti personali di contesto. Il progetto di vita personalizzato trova il suo naturale sostegno – come già sottolineato - nel sistema operativo budget di salute.

In conclusione

Il lavoro di intermediazione, dei servizi e dei suoi professionisti pubblici è prezioso ed indispensabile:  solo loro possono facilitare il godimento di un’inclusione sociale piena e ricca, che porta in dote coesione sociale e bene-essere generalizzato. Ma tutto questo non avviane con un colpo di bacchetta magica: cambiamenti verso una condivisione culturale, l’attuazione di una governance attenta ai cittadini e non ai poteri personali o di parte, progetti di vita personalizzati sostenuti da un sistema operativo che generi partecipazione e co/produzione e co/gestione, valutazione multidimensionale e oggettiva del bene-essere nei progetti personalizzato. Tutto questo non è affatto automatico o miracolistico, ha bisogno di una nuova importante stagione di partecipazione, che sia in grado di costruire una proposta di cambiamento condivisa e di comune interesse, partendo dal basso, dai distretti sociosanitari.

Serve un duro lavoro congiunto (io continuo a chiamarlo “Un patto tra Servizi Pubblici e Associazionismo, per diritti sociali realmente esigibili”) che risintonizzi obiettivi, modalità operative e senso del lavoro di Associazioni e del Terzo Settore, Terzo Settore insieme ad Amministratori e Professionisti pubblici: insieme  analizzare gli attuali processi di funzionamento del sistema organizzativo, per coglierne le fragilità, le carenze e le disorganizzazioni, ma anche le positive realizzazioni, esplorando esperienze di buona vita già realizzate per le persone con disabilità e le loro famiglie. Queste due fondamentali realtà non possono più agire in parallelo e faticare nel comunicare tra loro, facendo finta di non sapere che il riconoscimento e l’esigibilità dei diritti sociali hanno bisogno della mediazione di competenti ed efficaci Servizi Territoriali, ma anche della appassionata co/partecipazione dell’Associazionismo e del Terzo settore.

Diversamente, rassegniamoci a correre il pericolo di continuare ad abbaiare alla luna!

 

[1] Per una approfondita analisi su tema si veda: Giancaterina F., Non più un welfare territoriale dove ancora sanitario e sociale non si parlano!  In: Appunti sulle politiche sociali, n. 235-2/2021.  

[2] Parte di questo paragrafo è dovuta ad una rielaborazione di un precedente articolo: Giancaterina F., Dire “Progetto Educativo Personalizzato” è questione di sostanza e non di parole, in: https://www.superando.it/2021/06/11/dire-progetto-educativo-personalizzato-e-questione-di-sostanza-e-non-di-parole/.

[3] Starace F., da: Lectio magistralis su Budget di salute, Opera don Calabria, Roma il 24 marzo 2014.

[4] Da: I diritti fondamentali nella Giurisprudenza della Corte Costituzionale, Varsavia, 30/31 maggio 2006.

[5] Ruggeri A., Stato Dottrina, Il principio personalista e le sue proiezioni, in «federalismi.it», 28 agosto 2013.

[6] Starace F., Il Budget di salute come strumento per l’integrazione sociosanitaria, in PSS n.1-2021, Milano, 2021, pgg.3/5.


 

Appunti sulle politiche sociali

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Alcuni articoli pubblicati nella rivista

- Ennio Ripamonti, Immaginare i servizi che si vorrebbero per sé. L’esperienza della residenza anziani di Pinzolo 

Elena CesaroniProtezione giuridica e amministrazione di sostegno. La necessità di una riflessione

- Letizia Espanoli, Persone con demenza: dar casa al tempo fragile: errori da evitare, strade da percorrere

- Sergio Tramma, Sui "conflitti” interni all’area del lavoro educativo e alla carenza di educatori/trici

- Maurizio Motta, Riforme per la non autosufficienza: ma quali? 

- Fausto Giancaterina, Non più un welfare territoriale dove ancora sanitario e sociale non si parlano! 

- Tiziano Vecchiato, Volontariato, solidarietà, democrazia

- Antonio Censi,  Curare le ferite sociali degli anziani non autosufficienti

- Angelo Lascioli, Alunni con disabilità. Il cambio di prospettiva dei nuovi modelli di PEI

- Luca Fazzi,  Il maltrattamento nelle strutture residenziali per anziani

- Carlo Lepri, Diventare grandi. La condizione adulta delle persone con disabilità intellettiva 

- Gruppo Solidarietà, Ricordo di Andrea Canevaro 

- Fabio Ragaini, CAMBIARE PROSPETTIVA. A proposito di politiche, modelli, interventi, servizi 

- Roberto Medeghini, Scuola. Pratiche immunizzanti che favoriscono lo speciale e l’escludibile

- Andrea Canevaro, La vista corta. Riflessioni su una delibera della Regione Marche

- Fausto Giancaterina, Disabilità. Come superare le difficoltà attuative della legge 112. Una proposta 

- Gloria Gagliardini (a cura di), Raccontiamo noi l’inclusione. Storie di disabilità

- Antonella Galanti, Mario Paolini, Un manicomio dismesso. Frammenti di vita, storie e relazioni di cura

- Tiziano Vecchiato, La spesa assistenziale in Italia. Dati, riflessioni, proposte

- Luca Fazzi, Ha senso un terzo settore senza un’idea di giustizia?

- Andrea Canevaro, Dario Ianes, Giovanni Merlo, Salvatore Nocera, Vittorio Ondedei, Inclusione scolastica degli alunni con disabilità e scuole speciali 

- Giacomo Panizza, La crisi, i deboli, le istituzioni, la società 

- Andrea Canevaro, Le parole sono importanti, come le carezze. Lorenzo e Adriano Milani Comparetti

- Sergio Tanzarella, Don Lorenzo Milani. Il suo messaggio, la sua eredità

- Tiziano Vecchiato, La spesa assistenziale in Italia. Dati, riflessioni, proposte

- Giovanni Merlo, Persone con disabilità. Dalla prestazione alla presa in carico 

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