Persone con disabilità. La transizione dall’adolescenza all’età adulta. Come accompagnare alla vita In, Appunti sulle politiche sociali, n. 4/2023 (245) - Puoi sostenere la rivista con l’abbonamento. Carlo Francescutti direttore dei Servizi Sociosanitari presso l’Azienda Sanitaria Friuli occidentale. Senza organizzazioni adeguate il richiamo alla logica dell’accompagnamento alla vita risulta un appello moralistico alla coscienza dell’operatore. É vero tuttavia anche il contrario: senza una certa qualità di relazione tra operatore e persona con disabilità le risorse e gli strumenti messi in campo dalle organizzazioni nulla possono di per sé (intervista a cura di Gloria Gagliardini)[1]. Ci hai già aiutati con una riflessione a partire dalle interviste autobiografiche due anni fa, al seminario “Le storie di vita insegnano”. In quell’occasione ci dicesti che le biografie sono un tema potente perché ci fanno presente che “ogni storia ha bisogno di una risposta seria”. Ci interpellano e ci impegnano, fanno parte di quel “micropotere”, che è il potere del cambiamento che abbiamo come operatori di alcune pratiche e di atteggiamenti, di cui abbiamo la responsabilità. È possibile far entrare nella progettazione dei servizi la pratica della narrazione biografica? O quali altri strumenti si possono mettere in campo per non perdere il significato più profondo degli interventi? L’attenzione alle biografie ritengo sia essenziale innanzitutto come indagine sugli eventi significativi della vita delle persone; un modo di collocare le persone in una traiettoria di vita e quindi situarle nel tempo e nei diversi contesti attraversati insieme agli altri protagonisti della scena: famigliari, operatori dei servizi, altre persone significative. La ricostruzione biografica è importante per superare una visione statica delle persone. La ricostruzione biografica è importante anche per la comprensione della qualità di vita delle persone. Ivan Brown ci ricorda che non si può comprendere cosa sia importante e cosa possa dare benessere alla persona senza capire le sue esperienze precedenti e in particolare quali opportunità quale spazio di scelta abbia avuto nel determinare il proprio percorso di vita. Al riguardo Hans Reinders ha scritto pagine bellissime: «La domanda su quale esperienza migliorerà lo sviluppo delle proprie capacità e quindi contribuirà alla propria Qualità della vita (QoL) dipende da cosa ha significato finora l'esperienza di sé nel mondo. Posto diversamente: la domanda su quale potrebbe essere la prossima esperienza di miglioramento, richiede una prospettiva narrativa. La risposta dipende dalla storia delle esperienze che hanno permesso alla persona finora di sviluppare il suo potenziale e di scoprire sé stessa nel mondo. La storia della vita fornisce il contesto ermeneutico entro cui le capacità relative agli agenti vengono scoperte e realizzate[2]» L’attenzione alla biografia è l’unico antidoto per evitare di considerare le persone come entità astratte, casi, di cui esplorare le sole caratteristiche cliniche o le peculiarità comportamentali. In questo senso l’indagine biografica è parte integrante di qualsiasi processo di valutazione e conoscenza della persona (assessment) senza con questo svalutare le indagini più strutturate o l’utilizzo di strumenti di misura. Senza l’orizzonte biografico è il senso dell’intervento di sostegno che rischia di perdersi come ci ricorda Reidenrs. In questo senso non vedo problema a far diventare l’indagine biografica parte del lavoro all’interno dei servizi. Dobbiamo tuttavia intenderci su cosa sia l’indagine biografica. Ad esempio io non mi sento molto in sintonia con alcuni approcci diffusi e derivati dalla apodittica dichiarazione di Bruner: “life as narrative[3]”. Io non sono molto in sintonia con approcci unilaterali e ideologicamente costruttivisti. La vita è fatta di esperienze reali, di eventi che segnano la vita delle persone oltre le interpretazioni che le persone ne danno. Va anche considerato che ci sono persone che non avranno mai la possibilità di “narrare” la propria vita. In ogni caso la ricostruzione della loro biografia rimane altrettanto importante. Sulle metodologie di indagine biografica e sul ruolo della narrazione in particolare non mi sento un esperto e non voglio dire sciocchezze. Certo chi si avventuri su questo terreno è opportuno faccia bene attenzione a come fare delle narrazioni uno strumento utile allo scopo e non un passatempo a-finalistico o una pratica di “moda”. L’indagine biografica dovrebbe sempre essere occasione di “ricostruzione”, di scoperta di nuovi nessi e di nuove prospettive, di una diversa consapevolezza di sé ma soprattutto, come ho già sopra notato, di una più chiara prospettiva per il futuro. In un’intervista pubblicata sulla nostra rivista, Appunti sulle politiche sociali[4] sostenevi che al termine “presa in carico” prediligi la parola “accompagnamento alla vita” e che “per essere all’altezza di questa funzione serve il meglio delle conoscenze e allo stesso tempo una straordinaria delicatezza”. Aiutaci a capire come sia possibile un accompagnamento di questo tipo e di quale strutturazione di servizi abbiamo bisogno perché avvenga. Sì, mi riconosco completamente in quelle parole. L’espressione presa in carico rimanda ad un peso, una zavorra da mettersi in spalla o portare con sforzo e fatica. Non può essere questo il riferimento di un’azione di sostegno da parte di un sistema di welfare. Manca di ogni dinamismo, di qualsiasi prospettiva. I carichi si trasportano. Le persone invece ci interrogano rispetto alle loro attese, al loro “desiderio di bene” come scriveva Simon Weil ricordandoci appunto che gli esseri umani sono solo “un’esigenza centrale di bene attorno alla quale si dispone un po’ di materia psichica e carnale.[5]” In questo senso l’idea dell’accompagnamento alla vita rende meglio il compito che siamo chiamati a svolgere come operatori dei servizi se vogliamo rispettare la dignità delle persone e gli obblighi che abbiamo verso di loro: esserci, prima di tutto, essere a fianco non davanti per sostenere senza sostituire, andare, muoversi perché la vita è cambiamento, andare anche dove non vorremmo, lasciarci sorprendere dagli incontri che avvengono lungo il percorso, sentirci parte del viaggio, interessati alle mete che ci attendono, pronti ad imparare qualcosa di nuovo come accade in tutti i viaggi importanti. Sul come fare ci sarebbe un’infinità di cose da dire e discutere. Provo ad elencarne alcune. Sicuramente c’è un modo di essere del professionista, dell’operatore nel porsi in relazione con la persona con disabilità. Resto fortemente convinto delle intuizioni di Eva Kittay, filosofa e madre di una donna con disabilità intellettiva molto grave. Kittay ci ricorda che la parola inglese “care” denota al tempo stesso un lavoro, un atteggiamento e una virtù. Mi soffermo sull’ultimo significato perché è forse il più importante. Al riguardo Kittay precisa “La cura, come virtù, è una disposizione […] attraverso cui si compie uno spostamento dall’interesse per la nostra situazione di vita alla situazione dell’altro, quello bisognoso di cure.[6]” La buona cura è un’esperienza di “decentramento”. Non siamo noi i protagonisti della scena ma la persona con disabilità. La “nostra situazione”, come scrive Kittay, si può intendere come “noi stessi”, ma anche le nostre competenze, le nostre attività, le nostre organizzazioni di servizio. Si tratta di una virtù? Sì, certo, perché non si esaurisce in una questione tecnica e non può essere confusa con un atteggiamento anche se competenza e atteggiamenti appropriati sono essenziali per esprimerla. Si tratta di una disposizione per usare le parole di Kittay, un modo di stare al mondo e di porci in relazione con gli altri. Martin Buber la chiamerebbe una prospettiva “dialogica” che nasce dal percepire l’altro come un “tu” e non come un “esso”. Nella mia esperienza tutti i professionisti appassionati e impegnati profondamente nel proprio lavoro hanno nella loro storia uno o più incontri con persone con disabilità che hanno letteralmente “cambiato la loro vita” e trasformato il loro modo di vedere le cose. C’è un incontro con un “tu” che non può più essere qualificato come disabile, ma solo ed esclusivamente come un essere umano nel pieno della sua dignità o della sua sacralità. E allora le cose non possono essere più come prima, scaturisce un desiderio di creare le condizioni perché la vita fragile e vulnerabile dell’altro sia rispettata, riconosciuta, e appunto accompagnata con delicatezza. Ci si accorge allora che nella relazione di cura più del “cosa fare” è maggiormente decisivo il “come fare”. Ma in fondo non è questo il presupposto chiave anche dell’approccio fenomenologico in pedagogia su cui tanto ha scritto Piero Bertolini? Far precedere a qualsiasi intervento il mettere tra parentesi i nostri preconcetti, i nostri pregiudizi, lasciarsi interrogare da quello che sentiamo e vediamo, accogliere l’altro come flusso vitale senza fissarlo anzitempo in categorie e classi siano esse diagnostiche, funzionali, legali? Ma forse oggi la pedagogia di matrice fenomenologica[7] non è di moda. Va inoltre sottolineato che la disposizione personale dell’operatore dovrebbe coniugarsi con organizzazioni di servizio “virtuose” che creino le condizioni per una funzione di accompagnamento. Sicuramente è questione di tempi e risorse e come per gli operatori anche in questo caso si pone la necessità di un “decentramento”. Troppo spesso nel passato, anche recente, sono state le unità d’offerta, i “centri” e le loro esigenze a coprire la scena. Nei servizi i tempi sono dettati spesso dalle necessità di far funzionare la “macchina” organizzativa. Le esigenze personali si piegano di fronte alla sostenibilità dell’istituzione. La “gabbia d’acciaio” organizzativa è tanto più rigida quanto le regole di riconoscimento pubblico, meglio note come sistemi di accreditamento, sono rigide e orientate alla sola realizzazione di funzioni assistenziali o di protezione. In nome della sicurezza e di una discutibile idea di “qualità del servizio” si finisce per scordare che le persone chiedono altro per alimentare la loro speranza di bene. Avremmo bisogno di una diversa “governance” dei servizi, una “governance” “sperimentalista[8]”, come si discute da tempo in Europa, per la quale le uniche regole di qualità sono quelle che orientano l’innovazione. Connesso a questo tema c’è quello altrettanto importante della diversificazione e specializzazione del sistema di offerta. Come si può svolgere una funzione di servizio, tanto più nella versione impegnativa dell’accompagnamento alla vita quando le opportunità generate dal sistema sono poche, incapaci di dare risposte alla diversità dei bisogni e delle attese delle persone. A cosa serve un’enfasi spropositata sulla progettazione personalizzata, come ad esempio fa la Legge delega in materia di disabilità (Legge 22 dicembre 2021, n. 227), e non si dice una parola sul sistema di offerta o e tanto meno su come fare in modo che sia adeguatamente finanziato. Senza organizzazioni adeguate il richiamo alla logica dell’accompagnamento alla vita risulta un appello moralistico alla coscienza dell’operatore. É vero tuttavia anche il contrario: senza una certa qualità di relazione tra operatore e persona con disabilità le risorse e gli strumenti messi in campo dalle organizzazioni nulla possono di per sé. Queste interviste sono state fatte a genitori di adolescenti con disabilità intellettive e/o disturbi dello spettro autistico, fasi della vita in cui si sente la necessità di passare (in sintesi) da interventi di natura riabilitativa a interventi di natura sociale. La riflessione che vogliamo porti è, perché accanto al paradigma dei diritti è così importante anche quello di Qualità di Vita? Cosa vuol dire sul piano della programmazione dei servizi socio sanitari ed educativi progettare e valutare esiti di Qualità di Vita? Approfondire il significato del concetto di Qualità di Vita è tutt’altro che semplice e richiederebbe una lunga riflessione. Il concetto di QdV non è pensato per le sole persone con disabilità. È un concetto universale. Al centro della letteratura scientifica sulla QdV c’è infatti l’obiettivo di comprendere e anche di misurare ciò che e davvero importante e apprezzato da ciascun individuo, e di quali aspetti della vita o dell'ambiente contribuiscono positivamente alla qualità della vita o la riducono. Implicito in questo approccio è il rispetto del diritto della persona a scegliere il percorso di azione che più gli si addice per acquisire la maggior QdV possibile, e la ricerca attiva di tutti i supporti positivi necessari per aiutare l'individuo a vivere una vita efficace, modellata in modo unico dalle caratteristiche e dalle circostanze individuali. In questo senso la QoL è importante per tutte le persone e tutte le persone hanno quindi diritto a una vita di qualità. Questo principio vale sia per le persone con disabilità che per quelle che non lo sono. La QdV non è quindi una semplice ricerca e valutazione del livello di benessere soggettivo e contingente ma un’attenzione a rappresentare quello che è davvero importante per la persona in tutte le fondamentali dimensioni della vita: dal benessere fisico a quello psicologico e sociale, dalla vita affettiva, al tempo libero al lavoro. Nella letteratura scientifica la riflessione sulla QdV e gli strumenti per misurarla ha acquisito sempre maggior importanza come criterio di orientamento e valutazione degli esiti degli interventi sanitari, sociosanitari e sociali a come sostegno delle persone con disabilità, fondamentalmente per almeno due motivi. Le condizioni di salute che stanno alla base di molte disabilità non guariscono. L’intervento sanitario o riabilitativo non può garantire un reintegro funzionale, nondimeno le persone con disabilità necessitano di sostegni il cui obiettivo è, lo si può comprendere anche intuitivamente, quello di rendere “la loro vita migliore”. Nemmeno il richiamo alla tutela e promozione dei diritti è sufficiente a guidare o valutare l’esito degli interventi di sostegno. I diritti e la promozione di diritti non ci diranno mai cosa è più importante per la persona, ci offrono un orizzonte di riferimento normativo, ovvero uguale per tutte le persone, ma non ci aiutano in alcun modo a capire la direzione e il senso da dare all’azione di sostegno. Non possiamo poi dimenticare che ci sono moltissime cose importanti nella vita, direi addirittura fondamentali, che possono essere raggiunte e dare senso al nostro esistere che non possono essere operazionalizzate come diritti esigibili. Mi soffermo su questo punto perché la “retorica” dei diritti rischia di oscurare delle verità evidenti. Ci sono dimensioni della vita che possono essere cercate, desiderate, ma non rivendicate. Penso alla stima da parte di altre persone, la simpatia, un atteggiamento non giudicante, l’affetto, l’amicizia e l’amore delle altre persone. L’amicizia per il valore simbolico e l’importanza che il pensiero etico e filosofico le ha attribuito nei secoli è sicuramente il bene più importante per tutti, comprese le persone con disabilità, che non si può rivendicare o pretendere e su cui si è sviluppato un pensiero ricco e interessante. Nonostante il desiderio di amicizia sia ben documentato nella letteratura scientifica una parte importante delle persone con disabilità non ha amici, può avere molte persone che gli vogliono bene (famigliari) ma difficilmente amici. La ricerca[9] documenta una particolare disparità tra popolazione generale e persone con disabilità intellettive e dello sviluppo. Questo gruppo di persone con disabilità sperimenta una maggiore solitudine, ha più difficoltà a formare e mantenere amicizie, vede i propri amici meno spesso e ha meno relazioni strette con i propri amici[10]. La ricerca suggerisce anche che le persone con disturbo dello spettro autistico sperimentano la maggior difficoltà rispetto a tutti gli altri gruppi di persone con disabilità nell’avere e mantenere amicizie (Petrina et al., 2014). Lo spazio istituzionale crea nuove opportunità che diventeranno effettive solo grazie al sostegno delle persone. Senza persone disposte a essere di supporto, le opportunità si trasformeranno in frustrazioni. Prima che essere incluse nella società le persone con disabilità chiedono di essere incluse nella vita degli altri. Dall’altro lato c’è un possibile effetto paradossale da considerare. L’enfasi di questi anni sui progetti personalizzati, interventi personalizzati, budget personalizzati, ha talvolta alimentato una logica sterile di diritti esigibili a livello individuale e aperto la strada “all’era del singolo” come scrive Francesca Rigotti: “Essere individui non basta più. Ognuno è singolo e dunque originale e speciale, alla ricerca della felicità su misura, personalizzata e non personale[11]”. Nei fatti la maggior parte delle cose di senso nella vita implicano il rapporto con altri, la disponibilità di altri, la co-partecipazione in attività condivise. In altri termini sono progetti collettivi, che alimentano una dimensione collettiva rimandano inevitabilmente ad una comunione di intenti ed a una comunità. Oscurando il fatto fondamentale che molte opportunità di crescita, sviluppo e qualità di vita hanno natura collettiva, o peggio cancellando la realtà relazionale e di interdipendenze in cui ciascuno di noi è inserito non possiamo che accrescere le solitudini delle persone con disabilità. La presenza di persone con disabilità nella scuola senza la promozione attiva di rapporti tra pari alimenta solitudini drammatiche che molti ragazzi con disabilità descrivono con una forza emotiva che commuove. Per tutto questo, e altro ancora, l’indagine approfondita ed estesa della qualità della vita resta la bussola per orientarci nella relazione d’aiuto e tenere sempre a mente quali siano gli obiettivi e gli esiti davvero importanti da raggiungere. Consideriamo il tema dell’abitare, consideriamo la dichiarazione più “incredibile” della Convenzione ONU che all’articolo 19 descrive il diritto a: “Vivere dove e con chi si vuole”. Ma di cosa stiamo parlando? Certo che si può desiderare di vivere in certi luoghi o con certe persone ma non è un diritto per nessuno. Al massimo la mia idea di abitare potrà essere la base per cercare di convincere qualcuno a condividerla con me e magari a trovare i modi per scegliere assieme un posto dove vivere che sia un buon compromesso tra le persone e con la realtà della casa che possiamo permetterci…Un welfare dei diritti senza una prospettiva relazionale e una visione di comunità, senza un welfare comunitario nel senso che promuove una visione di persona nel suo contesto di relazioni, è totalmente sterile. L’indagine della qualità della vita non è una banale raccolta di dichiarazioni di soddisfazione e/o insoddisfazione in una qualche lista domini, o dimensioni che dir si voglia, di vita. Anche in questo caso bisogna utilizzare approcci e strumenti adeguati alla complessità del compito. Non nascondo poi che ritengo assolutamente raccomandabile il modello di Ivan Brown, introdotto in Italia da Marco Bertelli. Bertelli ha anche curato la traduzione e l’adattamento degli strumenti di misura[12] sviluppati da Brown e dai suoi collaboratori. La ragione fondamentale di questa preferenza l’ho abbozzata nella risposta alla prima domanda. La valutazione di qualità di vita non deve restituire uno stato, una condizione statica. Le persone con disabilità potrebbero essere attualmente soddisfatte di condizioni che considererebbero deludenti una volta che si riconoscessero come individui con abilità diverse da quelle di cui sono attualmente a conoscenza. Quello che manca nelle teorie della QoL dominanti in letteratura e nelle pratiche professionali anche nel nostro paese, è l'anticipazione di un futuro diverso. Brown concepisce la QdV come attività piuttosto che come stato. La QoL è riflessa da ciò che le persone possono fare o diventare. Questa prospettiva può essere riformulata dicendo che la QoL in un approccio dinamico è relativa all'agente ed è tipicamente proprietà delle persone in quanto soggetti agenti. In questo senso, relativo all'agente, nell’approccio di Brown si delinea una prospettiva individualizzata della QoL ben rappresentata dall’esplorazione sistematica dell’importanza e del valore che la persona attribuisce alle diverse dimensioni della sua vita. [1] L’intervista a Carlo Francescutti comparirà nel nuovo libro del Gruppo Solidarietà che sarà pubblicato nei prossimi mesi. [2] Reinders H., Disability and Quality of Life in Bickenbach et. al, Disability and the Good Human Life, Cambridge University Press, 2014. [3] Bruner J. (1987), Reflections on the Self, Social Research Vol. 54, No. 1 pp. 11-32. [4] Francescutti C., Disabilità complessa: le politiche i servizi, Appunti sulle politiche sociali, n. 3/2019. [5] Weil S, (2013), Dichiarazione degli obblighi verso l’essere umano, Roma, Castelvecchi. [6] Kittay, E. F. (2011) The Ethics of Care, Dependence, and Disability, Ratio Juris, 1:49-58. [7] Bertolini P., Caronia L. (2015), Ragazzi difficili. Pedagogia interpretativa e linee di intervento, Milano, Franco Angeli. [8] Zeitlin J. (2005), Social Europe and Experimentalist Governance, European Governance Papers n. C-05-04, Eurogov. [9] Fulford C., Cobigo V. (2016) Friendships and Intimate Relationships among People with Intellectual Disabilities: A Thematic Synthesis. Journal of Applied Research in Intellectual Disabilities. [10] Fulford, Cobigo, 2016; Petrina N., Carter M., Stephenson J. (2014) The nature of friendship in children with autism spectrum disorders: A systematic review. Research in Autism Spectrum Disorders, 8(2); 111-126; Petrina N., Carter M., Stephenson J., Sweller N. (2017). Friendship Satisfaction in Children with Autism Spectrum Disorder and Nominated Friends. Journal of Autism and Developmental Disorders, 47(2), 384-392. [11] Rigotti F. (2021) L’era del singolo, Torino Einaudi. [12] Bertelli M. e altri (2011) La batteria di strumenti per l’indagine della qualità della vita (BASIQ): validazione dell’adattamento italiano del Quality of Life Instrument Package (QoL-IP), Giornale Italiano di Psicopatologia 17(2), 205-212. Il testo compare nel libro del Gruppo Solidarietà, STORIE DI VITA. Genitori e giovani con disabilità si raccontano (2024). Vedi anche, Raccontiamo noi l’inclusione. Le interviste integrali e il precedente libro del Gruppo Solidarietà, Raccontiamo noi l’inclusione. Storie di disabilità (2014). Vedi anche, Gloria Gagliardini, Disabilità. Le storie di vita e lo sguardo dal basso. Tutti i numeri della rivista, fino al 2022, sono disponibili con accesso gratuito. Puoi leggere alcuni recenti articoli - Andrea Pancaldi, Volontariato: crisi di identità non può che essere crisi di rappresentanza - Letizia Espanoli, La Cura per essere gentile ha bisogno di incontrare spazi gentili: la Residenza anziani che vorrei - Fausto Giancaterina, Accompagnare l’esistenza. Proposte per ripensare i servizi - Carlo Giacobini, Riforma disabilità. Dopo il rinvio e .. non solo - Matteo Schianchi, Le contraddizioni dell’inclusione. I servizi socio-educativi per la disabilità tra criticità e prospettive - Massimiliano Gioncada, L’ISEE e la compartecipazione al costo dei servizi sociali e sociosanitari. A che punto siamo? - Francesco Crisafulli, La professione educativa. Il diritto che sia riconosciuta e il bisogno di riconoscer-se-la - Luca Fazzi, Modello dei servizi, dignità e diritti delle persone - Ennio Ripamonti, Immaginare i servizi che si vorrebbero per sé. L’esperienza della residenza anziani di Pinzolo - Arianna e Guido, Raccontiamo l'inclusione. Un prima e un dopo. L’adolescenza di un figlio Asperger e il mondo fuori - Fabio Ragaini, GARANTIRE DIRITTI E QUALITA' DI VITA. Una strada tutta in salita. Una storia - Fausto Giancaterina, Garanzia dei diritti sociali e accompagnamento all’esistenza - Maria Rita di Palma, Raccontiamo noi l'inclusione. Una “ragazza adulta” e una rete di amici… tutta da coltivare! - Salvatore Nocera, L’arco della normativa inclusiva italiana dal 1971 ad oggi - Sergio Tramma, Considerazioni intorno ai "conflitti” interni all’area del lavoro educativo e alla carenza di educatori ed educatrici - Elena Cesaroni, Protezione giuridica e amministrazione di sostegno. La necessità di una riflessione LA RICHIESTA DI SOSTEGNO del Gruppo Solidarietà Altri materiali nella sezione documentazione politiche sociali. La gran parte del lavoro del Gruppo è realizzato da volontari, ma non tutto. Se questo lavoro ti è utile PUOI SOSTENERLO CON UNA DONAZIONE e CON IL 5 x 1000.