Disabilità. Le storie di vita e lo sguardo dal basso In, Appunti sulle politiche sociali, n. 3/2023 - Puoi sostenere la rivista con l’abbonamento. Gloria Gagliardini, Gruppo Solidarietà Le singole storie ci insegnano a restare vigili, a praticare l’attenzione, a vedere i dettagli, a non generalizzare. A noi interessa capire se nel territorio dove viviamo e dove siamo impegnati si sta evolvendo questo processo di inclusione e in che modo (intervista a cura di Giuseppe Alberti). Vedi anche, Raccontiamo noi l’inclusione. Le interviste integrali e i due libri del Gruppo Solidarietà, Raccontiamo noi l’inclusione. Storie di disabilità (2014) e STORIE DI VITA. Genitori e giovani con disabilità si raccontano (2024). Gloria, da diversi anni lavori per il Gruppo Solidarietà, al progetto "Raccontiamo noi l'inclusione". Puoi sinteticamente illustrarci di cosa si tratta e quante persone ha interessato questo progetto? “Raccontiamo noi l’inclusione” è un progetto che nasce nel 2012 con le prime interviste a persone che conoscevamo; era in stretta continuità con un lavoro di supporto alle famiglie di persone con disabilità che il Gruppo Solidarietà stava strutturando in quegli anni. Non ci ha mai interessato mostrare storie speciali, narrare di persone che hanno ottenuto traguardi, né storie di abilismo; ci interessava piuttosto far emergere la vita reale delle persone, quella che non avrebbe fatto necessariamente scalpore. Proprio da questo desiderio di voler far emergere la quotidianità di tanti che incontriamo, nasce questa idea di raccogliere le storie di vita. Molti conoscono il Gruppo Solidarietà per il lavoro di promozione e tutela dei diritti, allo stesso tempo accanto c’è anche un lavoro di accompagnamento e di tessitura di legami e relazioni. La storia del Gruppo, dal mio punto di vista, è un intreccio di storie che ci sono passate dentro ed è da questo sguardo (di chi sta affianco) che abbiamo cominciato. Ad oggi abbiamo incontrato e intervistato circa una sessantina di nuclei familiari del territorio della Vallesina e della provincia di Ancona. Perché nasce "Raccontiamo noi l'inclusione", che idea c'era dietro? Come poi si è sviluppato? Nel 2009, dopo aver avviato il Gruppo di auto mutuo aiuto per familiari (A.M.A)[1], abbiamo iniziato ad appassionarci delle storie delle persone; su questa scia abbiamo promosso un incontro con una formatrice della Libera Università dell’Autobiografia, che ha guidato un percorso di scrittura autobiografica a cui hanno partecipato circa una decina di famiglie di persone con disabilità. Intuimmo il fascino di conoscere le storie di vita. Sbocciò naturalmente l’idea di raccogliere le storie in forma orale, con supporto del registratore o videocamera, proponendo una metodologia di intervista semi-strutturata. Ci prefissammo di raccogliere alcuni passaggi più significativi delle esperienze di ciascuno (identità, tempo libero, scuola, lavoro, accesso ai servizi ecc..), per poi andare a compararle tra loro. Strutturando le domande per macro-aree (diversificate per genitori e per persone con disabilità) ci siamo resi conto che quello che cercavamo di raccogliere era anche un percorso storico della disabilità fino ai giorni nostri. In quella prima fase intervistammo circa venti persone: genitori di persone con disabilità complesse e persone con disabilità fisica o intellettiva che avevamo conosciuto nella nostra storia associativa, di età molto diverse tra loro, dai 25 ai 70 anni. Ed è così che da quelle storie emerse una lettura attenta alle conquiste dei diritti: dall’inclusione scolastica ai percorsi di lavoro. Nacque nel 2014 il libro “Raccontiamo noi l’inclusione. Storie di disabilità”[2]. Nel titolo c’è il senso di quel che volevamo fare. Anzitutto l’esigenza di creare una narrazione: ma raccontare cosa? Inclusione: quel concetto così difficile da praticare e così complesso da definire! In questo senso allora quel libro è stato anche una fotografia di una realtà che ci stava sotto gli occhi molto più complessa di quel che ci sembrava. La persona stessa con disabilità, i servizi, le politiche, il vicinato di quartiere, le organizzazioni di volontariato..., tutti siamo responsabili di un processo inclusivo di cui siamo parte in causa. Siamo consapevoli che questa narrazione è frutto comunque un nostro punto di vista, ed è in questo senso che nel titolo c’è il “noi”. La raccolta di storie è poi proseguita saltuariamente negli anni; è nato un quaderno online: “Le interviste integrali[3]” che aggiorniamo di volta in volta disponibile sul sito del Gruppo Solidarietà. Nel 2019 l’esito di un altro gruppo di interviste e il decennale del Gruppo di auto mutuo aiuto, ci ha portato ad un ulteriore approfondimento pubblico attraverso due seminari: “Le storie di vita insegnano: Disabilità e Legami di Comunità” e “Disabilità e Servizi di Comunità”. Questi due approfondimenti, tra l’altro pre-pandemici, ci hanno aiutato a capire quali insegnamenti offrono queste interviste alla comunità e ai servizi territoriali. Sono seguiti, poi, gli anni della pandemia che hanno messo alla prova la tenuta delle reti sociali, dei diritti acquisiti, dei sostegni e dei servizi territoriali[4]. Dalla ripresa delle attività del Gruppo (primavera 2021) le reti sociali si sono rinvigorite anche con persone nuove e ci siamo trovati promotori di altri processi territoriali. Nel 2022 abbiamo pensato di riprendere dunque questo lavoro con un altro ulteriore gruppo di interviste, con il desiderio di creare una narrazione sul presente. Cosa ha significato, per te, poter incontrare le persone e le famiglie nei loro contesti di vita, nelle loro case? Nuovi legami e conferma dell’importanza dei contesti. Nel volume del 2014 scrissi “L’incontro”[5] a voler sottolineare che il significato più profondo che si rivela quando ci si approccia a queste interviste, è davvero la costruzione di un legame con l’altro, da cui parte una fiducia. Altrimenti non sarebbe possibile un’apertura tra due persone che a volte neanche si conoscono fino a poco prima. Nel nostro lavoro non c’è la pretesa di condurre una ricerca scientifica e siamo consapevoli che dal momento in cui decidiamo di incontrare quella persona smettiamo di essere neutrali; ossia il nostro sguardo si poserà su alcuni dettagli: parole, oggetti, azioni, comportamenti, silenzi. Ogni storia che incontriamo racconta qualcosa di più di ciò che trascriviamo, c’è tutto uno “sfondo integratore” da considerare (come avrebbe detto Canevaro!). Questo è tanto più vero quando si intervistano persone con disabilità intellettiva, dove il linguaggio verbale è un po’ compromesso e il pensiero non è così fluido; in questi casi la videoregistrazione è fondamentale per poter restituire anche il non verbale. Ogni incontro con una famiglia e con una persona è una restituzione e un riconoscimento a quella singola vita che si apre attraverso uno spazio di condivisione. Una delle grandi motivazioni iniziali di questo percorso, era “dare parola”, ma, come dicono in un’intervista[6] Marchisio e Curto, “le famiglie hanno già la legittimità e il diritto di parola, non va concesso benevolmente da qualcuno”, piuttosto quello che accade è un “sostenere questo diritto” recuperando uno spazio. Sembra sottile questa visione, eppure cambia radicalmente la prospettiva. Le interviste sono occasioni di luoghi di autenticità e richiedono una postura interiore che si affina nel tempo. Nell’incontrare in particolare tante mamme, mi sono trovata più volte a sentire il limite di questa metodologia che ci eravamo dati con domande semi-strutturate. Con alcune ci siamo trovate a fare interviste lunghe ore ed ore perché la biografia del genitore (fare salti di memoria, andare alla propria infanzia, agli anni prima della nascita dei figli) diventava così rilevante nel capire poi quella del figlio e il legame con questo, che spesso abbiamo lasciato anche la libertà di raccontarsi. Quelli che noi chiamiamo “genitori” non sono solo il ruolo che ricoprono, sono persone con un percorso prima e dopo l’evento della nascita dei figli. Poter riconnettere questi due tempi biografici è poter restituire un’immagine di sé intera. In alcuni casi le interviste sono diventate dei momenti di “intima gentilezza” per usare un’espressione di Eugenio Borgna[7]. Da un altro punto di vista, le interviste sono la conferma di quanto sia importante il contesto geografico, fisico, culturale di ciascuno. Come è diverso abitare in campagna o in centro storico, come è diverso abitare in città o in un paesino piccolo di montagna, avere collegamenti di trasporti pubblici o non averli, avere una famiglia che sa destreggiarsi e ha informazioni di base su ruoli e funzioni dei servizi o non averne consapevolezza alcuna, avere una rete amicale o parentale di supporto o essere completamente soli con i propri carichi di cura. Tutto questo bagaglio di informazioni è parte della storia. Le singole storie ci insegnano a restare vigili, a praticare l’attenzione, a vedere i dettagli, a non generalizzare. A noi interessa capire se nel territorio dove viviamo e dove siamo impegnati si sta evolvendo questo processo di inclusione e in che modo. Quando le persone capiscono che il nostro intento è disinteressato da altri fini se non quelli che di conoscere e di capire meglio, nasce subito un rapporto di confidenza: chi offre un caffè con biscotti, chi ci guida per fare il giro della casa, chi ci porta a vedere la sua camera con i quadri e foto appese alla parete, chi addirittura tira fuori documenti, diplomi, certificati. Spesso abbiamo pensato, tornado via da uno di questi incontri, quanto sarebbe utile che gli operatori dei servizi entrassero di più nelle case della gente che prendono in carico, ci passassero qualche ora con una tazza di caffè in mano! Come valuti l'inclusione sociale nel territorio, dei soggetti e delle famiglie che incontri? Come valuti l'attenzione e l'apertura del contesto sociale in cui ci troviamo? Anzitutto quando parliamo di inclusione sociale dobbiamo comprendere che è una parola delicata, che non riguarda solo la possibilità che viene data dagli altri di stare in mezzo a tutti: per esempio di andare in parrocchia, in piscina, a scuola. Questa è un’idea vecchia di inclusione e dobbiamo dircelo apertamente. Vediamo come nelle nostre pratiche comuni siamo ancorati ad un’asimmetria tra chi include e chi viene incluso[8], facciamo ancora tanta fatica a pensare per sistemi trasversali a tutte le differenze. Sappiamo che le parole sono importanti e sappiamo di essere dentro ad un percorso culturale: siamo passati dall’inserimento degli handicappati, a l’integrazione dei disabili e oggi all’inclusione delle persone con disabilità[9]. Concetti enormi che hanno a che fare con processi storici e culturali, che hanno portato alla promulgazione di leggi importanti che segnano e sanciscono nuovi passaggi. Per molte famiglie questi concetti hanno costruito la loro percezione identitaria e sociale, il loro esser-ci nel mondo. Alcuni pedagogisti e sociolinguisti ormai superano il termine inclusione, parlando di “convivenza delle differenze”[10], ma per praticare questa convivenza a monte ci devono essere politiche che la garantiscano. Dalle interviste ciò che emerge con maggiore forza è la percezione di tante famiglie di essere sole con i propri carichi di cura, e più i figli diventano adulti più questa percezione si fa vuoto incolmabile. Come abbiamo visto anche nel periodo pandemico i servizi territoriali diventano gli unici luoghi di relazioni sociali per molti; questo dato riguarda anche le persone con disabilità più giovani. Il tempo libero della famiglia coincide spesso con il tempo “coperto” dai servizi, in assenza di questi si rimane soli. Questo ci fa capire che l’inclusione richiede ben più di poter andare a fare la spesa o uscire per una passeggiata; richiede la possibilità agita di partecipare su base di uguaglianza con gli altri, un coinvolgimento sincero, spazi reali di vita in cui assumere ruoli attivi per la propria comunità locale; non a caso tra gli otto domini di Qualità di Vita[11] si differenziano “relazioni interpersonali” e “inclusione sociale”. Oggi nel nostro territorio i servizi territoriali non possono esimersi da questo mandato di essere mediatori tra le persone con disabilità e i contesti informali per educare alla convivenza e restituire il diritto di cittadinanza. Qual è invece la tua valutazione rispetto alle pratiche che le Istituzioni hanno sviluppato e stanno sviluppando? Che attenzione rilevi rispetto al confronto ed al dialogo, anche con le organizzazioni del territorio? Credo sia interessante leggere ciò che emerge dai racconti cercando di individuare alcuni punti su cui potremmo ragionare. Il primo aspetto che vorrei sottolineare è di natura emotiva: tutti i genitori esprimono ad un certo punto dell’intervista la rabbia, declinata poi in tante altre sfumature, spesso legata alla domanda: «Senti che tuo figlio sta facendo un percorso di crescita? Vi sentite presi in carico dalle istituzioni?» La rabbia è potente; spesso le famiglie lamentano disservizi, solitudini, affaticamento. Cosa ci dice tutto questo? Credo che dobbiamo imparare a vedere dentro e attraverso queste emozioni anche scomode, perché è chiaro che ci rimandano ad un vissuto di ingiustizia e di riflesso ad un senso di impotenza che dobbiamo gestire. Il tema della co-progettazione con le famiglie, è un tema che sentiamo e leggiamo da tantissimi anni, ma davvero si pratica? A sentire le famiglie stesse direi di no; sicuramente non è una prassi che si mette a sistema. Anche il tema dei percorsi lavorativi fa riflettere su dove stiamo andando. Su 18 persone con disabilità in età lavorativa, due soltanto sono lavoratori a contratto, il restante fa percorsi di tirocini di inclusione sociale da moltissimi anni, vissuti più che altro come luoghi per passare del tempo e non luoghi in cui assumere un ruolo sociale adulto in ambito lavorativo. In tutti questi anni di interviste possiamo dire di esserci occupati del tema del diventare adulti per le persone con disabilità e preponderante è l’assenza di una vera progettualità personalizzata. Mi è capitato spesso di vedere persone smarrite di fronte alla domanda: «Come immagini tuo figlio diventare grande?» la riposta dei genitori è spesso mista a preoccupazione e angoscia. Se posta alla persona con disabilità: «Che progetti hai del tuo futuro, cosa sogni?», c’è stupore per questa domanda insolita, poi silenzio, incertezza nel trovare le parole. Per molte famiglie il distacco dal proprio figlio che non si fa progettualità concreta è fonte di grande paura. In queste interviste ci sono voci di genitori anziani con figli adulti con disabilità complesse che hanno negli anni provato a fare esperienza di residenzialità brevi “weekend di sollievo”, ormai da anni sospese. Poi abbiamo invece un altro gruppo di famiglie con figli più giovani e con maggiori autonomie, tra questi ci sono persone che stanno facendo esperienza di co-housing con i progetti della legge 112 “Dopo di Noi”. Di fatto chi sta ora facendo un percorso di autonomia abitativa è davvero una minoranza di persone. La percezione che si ha è che tradurre bisogni e desideri in risposte di senso è ancora una meta lontana. L’interlocuzione, in termini sostanziali, che abbiamo con le istituzioni, in questi ultimi anni è, dal nostro punto di vista, debole, sperimentiamo soprattutto un approccio adempimentale. In questo ultimo anno, stai sviluppando una nuova fase del progetto. Puoi illustrarci questa nuova fase, le attese che avevi maturato e cosa emerge ora, in fase di realizzazione? Dal 2021 abbiamo promosso un progetto locale assieme alla biblioteca comunale. Ci siamo quindi trovati ad assumere il coordinamento di volontari: tante persone, tra cui persone con disabilità che nel ruolo di volontari per la biblioteca partecipano accompagnati dai loro educatori, osservando da vicino il vissuto di persone giovani con disabilità del territorio, il significato dei sostegni territoriali, il ruolo della comunità locale. Nel 2022 è nata quindi la volontà di impegnarci in una nuova fase che abbiamo intitolato: "Disabilità: conoscere per operare. L'inclusione sociale dei giovani adulti del territorio”. In realtà “Disabilità conoscere per operare” era un titolo di un volume edito dal Gruppo Solidarietà nel 1990, ma non abbiamo trovato altre parole per dire quello che desideravamo con questo nuovo progetto: conoscere per poi trovarci più pronti ad operare. Con questo nuovo progetto vogliamo dedicare l’attenzione ad una fascia di età di persone con disabilità: i giovani-adulti. Ci interessa esplorare la narrazione di queste fasce di età per due motivi: perché sono giovani (e con loro anche le famiglie) che hanno vissuto a pieno l’inclusione scolastica e che si trovano quindi a iniziare ad affrontare la condizione dell’adultità nel territorio e perché vorremmo esplorare attraverso i vissuti, quali sostegni formali i servizi del territorio mettono in campo e come funzionano. La domanda che ci siamo posti è: “Che percorsi fanno i giovani adulti con disabilità intellettiva nel nostro territorio e in che modo li supportano a vivere su base di uguaglianza con gli altri?” La condizione della disabilità intellettiva e, più in generale il campo dei disturbi del neurosviluppo, ci interroga molto perché è lì che si gioca davvero la convivenza delle differenze in tutti gli ambiti della vita, ed è lì che i servizi oggi hanno una grande responsabilità al cambiamento. Abbiamo dunque intervistato altre 20 persone, metà genitori e metà persone con disabilità intellettiva. Al momento siamo nella fase di rielaborazione delle interviste; in previsione abbiamo un volume dedicato ed una restituzione alla comunità. Avevamo il desiderio di conoscere uno spaccato di vita e una condizione sociale, e questo obiettivo l’abbiamo raggiunto. I temi forti sono la scuola (che rimane il luogo privilegiato delle relazioni tra pari per poi vivere lo smarrimento di cosa fare dopo), la fatica di avere amicizie, la fragilità dei percorsi lavorativi e la condizione di ragazzi con disturbo dello spettro autistico che stanno per diventare maggiorenni o lo sono appena diventati, il ruolo dei servizi, la figura dell’educatore territoriale. Riscontri differenze interessanti, tra questo gruppo di persone e famiglie, più esterne rispetto a quelle che il Gruppo conosce e quelle "storiche" che hai intervistato in precedenza? Ci puoi indicare qualche fattore che pensi possa innescare queste differenze? Dieci anni fa l’intervista è stata l’occasione per rivedere le persone che conoscevamo da tempo da un punto di vista altro, se vogliamo, meno scontato. Questa volta partivamo alla ricerca di persone a noi sconosciute. Ho intervistato prevalentemente persone che non conoscevo per nulla e ciò che subito ho osservato è la potenza di questo strumento; perché quello che si raggiunge quando all’altro si dà la possibilità di dire la sua verità, apre spazi impensabili, apre il cuore, abbassa le difese, ci si spoglia di verità preconfezionate e si capisce o si tenta di vedere la vita da quello specifico punto di vista! Intercettare nuclei familiari nuovi è stato difficile. Alla fine è stato possibile trovare un campione di persone, grazie al passaparola di genitori con cui siamo collegati e qualche operatore sul territorio che ci conosceva. Anche questa prima difficoltà è stata per noi (che siamo un’associazione) comunque significativa per tanti motivi, e ci ha fatto comprendere come si muovono le reti sociali tra giovani genitori del territorio. Tra il 2012 e il 2019 abbiamo intervistato genitori tra i 50 e i 76 anni, il gruppo dei genitori che è seguito dopo (fino ad oggi) ha un target di età tra i 48 e i 55 con figli che vanno dalla fine della scuola superiore alla trentina di anni. Età molto diverse significa anche periodo storico diverso in cui si vive la condizione giovanile di un figlio con disabilità. Passiamo da famiglie e persone con disabilità che hanno vissuto la costruzione dei primi servizi territoriali alla conquista di arrivare a frequentare l’università a genitori che hanno figli più giovani e che hanno certamente dato per scontato il diritto allo studio in una scuola di tutti e che pretendono spazi inclusivi al di fuori. Quello che emerge, comunque, è che per molti la scuola rimane un luogo inclusivo per un tempo definito, dopo il quale iniziano ad acutizzarsi le differenze con risvolti negativi sul piano anche delle relazioni. Quasi tutti hanno l’esperienza di una presa in carico fin dall’infanzia e di servizi territoriali a sostegno di una domiciliarità con la figura di educatori per alcune ore a settimana. I genitori oggi quarantenni o cinquantenni non accettano più dai servizi risposte che andavano bene anni fa solo perché si ha un certo tipo di diagnosi (pensiamo ai centri diurni ad esempio) e questa è ormai la domanda di senso che si pongono anche familiari di ragazzini con autismo prossimi all’uscita della scuola. Un elemento che noto in queste ultime interviste a genitori più giovani è che spesso sono loro ad assumere il ruolo di “regia” nei confronti dei professionisti, fanno da mediatori con scuola, servizi, centro riabilitativo, facilitano la comunicazione tra professionisti dei vari settori. I genitori lo fanno perché sentono mancanza di coordinamento tra i vari interventi e oggi la tecnologia (Whatsapp, email, registrazioni video con smartphone) permette collegamenti di gruppo istantanei, ma questo ruolo, ingrato, non è a costo zero in termini di stress! Altra cosa è che, nonostante passino gli anni, pochi comprendono la natura del servizio educativo territoriale: per molte persone con disabilità gli educatori diventano degli amici con cui finalmente uscire di casa senza babbo e mamma. Gli obiettivi di questo servizio spesso rimangono vaghi e oscuri anche per i genitori, poco coordinati nello specifico con le Unità multidisciplinari, con il rischio di un mandato confuso e di un rapporto privatistico tra famiglia e operatori. Qui ci sono due grandi temi da mettere all’attenzione: il primo riguarda il ruolo di questa figura professionale debole e discussa che è l’educatore (oggi a pieno nel dibattito nazionale), il secondo il Progetto personalizzato come diritto esigibile. Pur tra le mille difficoltà, indicaci i semi ed i percorsi che constati e raccogli, che aiutano la tua fiducia e ti danno speranza, per il prossimo futuro.... Io vedo che in questo territorio si è costruito tanto e non solo in termini di servizi. Venti anni fa il Gruppo Solidarietà promuoveva lo sport per tutti e oggi abbiamo una ricca offerta di sport accessibili e inclusivi; questa è una ricchezza enorme. Anche a livello culturale sono nate iniziative importanti. Noto che a distanza di anni fioriscono esperienze che originano poi altri percorsi di cui siamo anche ignari e questo dà fiducia che le cose poi maturano da sé, ed è importante ricordarcelo nei momenti in cui siamo affaticati. Continuare ad essere attenti alla comunità in cui viviamo mi sembra necessario; non solo per capire cosa un territorio costruisce, ma come i processi sviluppano. [1] G. Gagliardini, Gruppo Solidarietà e auto mutuo aiuto: il racconto di un'esperienza, in Appunti sulle politiche sociali, n. 4/2017, p. 1. [2] AA. VV., Raccontiamo noi l’inclusione. Storie di disabilità, Gruppo Solidarietà, Castelplanio, 2014. [3] Le interviste integrali, http://www.grusol.it/apriInformazioniN.asp?id=4194. [4] G. Gagliardini, Famiglie di persone con disabilità nell’emergenza coronavirus, in Appunti sulle politiche sociali, n. 3-4/2020, p. 16. [5] G. Gagliardini, L’incontro, in Raccontiamo noi l’inclusione, Gruppo Solidarietà, Castelplanio, 2014, p. 5. [6] C. Marchisio, N. Curto, Costruire futuro. Riconoscere le persone con disabilità come adulte, in Appunti sulle politiche sociali, n.4/2019, p.1. [7] E. Borgna, La dignità ferita, Feltrinelli, Milano, 2013, p. 146. [8] AA.VV.. Disability studies e inclusione, Erickson, Trento, 2018. [9] C. Lepri, Viaggiatori inattesi, Franco Angeli, Milano, 2011. [10] V. Gheno, Chiamami così, Il Margine, Trento, 2022. [11] R. Schalock, M. A. Verdugo Alonso, Manuale di qualità della vita, Vannini, Brescia, 2012. Tutti i numeri della rivista, fino al 2022, sono disponibili con accesso gratuito. Puoi leggere alcuni recenti articoli - Andrea Pancaldi, Volontariato: crisi di identità non può che essere crisi di rappresentanza - Letizia Espanoli, La Cura per essere gentile ha bisogno di incontrare spazi gentili: la Residenza anziani che vorrei - Fausto Giancaterina, Accompagnare l’esistenza. Proposte per ripensare i servizi - Carlo Giacobini, Riforma disabilità. Dopo il rinvio e .. non solo - Matteo Schianchi, Le contraddizioni dell’inclusione. I servizi socio-educativi per la disabilità tra criticità e prospettive - Massimiliano Gioncada, L’ISEE e la compartecipazione al costo dei servizi sociali e sociosanitari. A che punto siamo? - Francesco Crisafulli, La professione educativa. 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La necessità di una riflessione LA RICHIESTA DI SOSTEGNO del Gruppo Solidarietà Altri materiali nella sezione documentazione politiche sociali. La gran parte del lavoro del Gruppo è realizzato da volontari, ma non tutto. Se questo lavoro ti è utile PUOI SOSTENERLO CON UNA DONAZIONE e CON IL 5 x 1000.