Data di pubblicazione: 12/07/2025
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Persone con disabilità. Adultità e ruoli sociali: il diritto al lavoro

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Carlo Lepri Psicologo e Formatore, docente a contratto, Università di Genova.

Se la disabilità, come afferma la Convenzione Onu, nasce dall'incontro tra le caratteristiche di una persona e le barriere che questa persona incontra nel suo ambiente di vita, allora è evidente che lavorare sul contesto è essenziale. Naturalmente, nel caso di un contesto aziendale dobbiamo porre attenzione sia alle sue componenti psico sociali e relazionali sia alle componenti operative, legate al processo produttivo. […] Occorre che la persona con disabilità  e l'azienda non vengano lasciati soli in questo processo di avvicinamento reciproco (intervista a cura di Gloria Gagliardini).

Le interviste riportate in questo capitolo ci indicano alcuni temi che vorremmo approfondire con te. Il primo è la dimensione dell’adultità per le persone con disabilità intellettive e relazionali. Come possiamo definirla questa dimensione, da cosa è caratterizzata?

Penso sia utile provare a rispondere a questa domanda partendo da una premessa: l'accesso alla vita adulta delle persone con disabilità intellettiva è un fatto molto recente, che riguarda gli ultimi decenni della nostra storia e della storia di queste persone. Volgendo uno sguardo al passato, anche quello recente, risulta evidente come la possibilità per queste persone di venire considerate adulte sia sempre stata praticamente inesistente. Com'è noto i ruoli che la società ha riservato, e spesso continua a riservare loro, sono essenzialmente due: quello dell'eterno malato e quello dell'eterno bambino. Sappiamo che questi ruoli socialmente prescritti derivano da due rappresentazioni sociali anch'esse figlie di due momenti storici e culturali.  La prima rappresentazione, quella del "malato" si struttura a partire dai primi dell’Ottocento all'interno della cultura positivista e della trasformazione industriale avviata in tutta Europa.  Dentro questo scenario si afferma un'ideale di "normalità" che coincide con la partecipazione attiva delle persone ai processi produttivi. Chi non vuole o non può produrre entra a far parte delle categorie dell'anormale o del deviante e per costoro vengono allestiti luoghi specifici nei quali la cura è anche una forma di controllo sociale. All'interno di questo processo la medicina diventa protagonista definendo l'assegnazione delle persone disabili alle diverse categorie diagnostiche cosicché la persona disabile "diventa" la sua diagnosi. La condizione di eterno malato esonera chi la subisce da ogni assunzione di responsabilità e dunque allontana, di norma solo temporalmente ma nel nostro caso in maniera definitiva, dalle responsabilità e dai compiti dell'essere adulto. La seconda rappresentazione, a tutt'oggi maggioritaria, è quella dell'eterno bambino. Questa immagine nasce tra gli anni '50 e '60 del '900 ed è strettamente collegata al protagonismo delle famiglie alle quali il nascente sistema di welfare affida compiti di assistenza nei confronti dei figli con disabilità. Compiti fino ad allora delegati alle istituzioni speciali. In quel periodo prendono vita le prime associazioni di famiglie le quali avviano attività e servizi caratterizzati, inevitabilmente, da una forte connotazione protettiva. Nascono così i vari "centri" all'interno dei quali vengono attivate, secondo il modello medico, varie forme di "riabilitazione". Per gli adulti questi servizi diventano "laboratori protetti" strutture che teoricamente dovrebbero preparare ad una ipotetica vita adulta ma che in realtà, di fronte ad una organizzazione sociale che non prevede ruoli per queste persone, rimangono dei limbi dove la vita scorre come a The Never Land, il magico luogo inventato da Barry per il personaggio di Peter Pan, l'eterno bambino. Queste due rappresentazioni cominciano ad essere messe in discussione con l’affermarsi di un nuovo paradigma interpretativo che porterà progressivamente all'idea che la disabilità non è una malattia e neppure una condanna ad una eterna fanciullezza quanto piuttosto il risultato del rapporto tra le caratteristiche di una persona che presenta delle menomazioni durature e le barriere che impediscono la sua piena partecipazione alla vita sociale.

Com'è noto questo approccio alla disabilità porterà sul piano politico alla emanazione della Convenzione ONU sui diritti delle persone disabili e sul piano tecnico alla formulazione dell'ICF, strumento universalistico e multifattoriale per la classificazione delle condizioni di salute. Questo nuovo paradigma culturale introduce l'idea che le persone con disabilità, al di là delle loro caratteristiche individuali, siano prima di tutto "persone" con gli stessi diritti e doveri di qualunque altro cittadino. Compreso il diritto di trovare risposte ai bisogni e alle necessità che caratterizzano la loro vita adulta. In questo modo parole come responsabilità, maturità, autonomia, lavoro, autodeterminazione, vita indipendente, affettività, sessualità, autodeterminazione, hanno iniziato a far parte del linguaggio con il quale l’immagine adulta delle persone con disabilità intellettiva ha cominciato a prendere forma. Nel nostro Paese questa immagine si è potuta sviluppare (e continuare a rafforzarsi) grazie a due straordinarie esperienze. Da una parte l'inclusione scolastica. La presenza a scuola di bambini e ragazzi disabili ha consentito di riflettere sulla necessità che ci fosse, per loro come per tutti, un progetto di vita verso il mondo degli adulti al termine del percorso scolastico. Dall'altra le esperienze di inclusione lavorativa attraverso le quali l'immagine dell'adulto, capace di assumere i diritti e i doveri del ruolo lavorativo, si è ulteriormente affermata. Tutto ciò ha consentito di ampliare lo sguardo verso altre possibilità e altri ruoli adulti. Non a caso oggi l'attenzione è centrata sui temi più generali del diritto ad una vita autodeterminata e, per quanto possibile, autonoma. Dal mio punto di vista uno degli elementi critici che abbiamo di fronte non riguarda tanto e solo il tema dell'adultità ma, piuttosto, della transizione all'età adulta. Cioè di come riempire di senso e di progetti quello spazio/tempo che va dal termine della scuola superiore alle prime esperienze di vita autonoma e lavorativa. Si tratta di una "terra di mezzo" che andrebbe attraversata con una serie di esperienza che definirei di "socializzazione anticipatoria".  Cioè delle normali esperienze che gli adolescenti sperimentano attraverso la partecipazione al "gruppo dei pari età". Per le persone con disabilità intellettiva quando termina la scuola, il rapporto con il gruppo dei pari si allenta e spesso scompare ponendo queste persone in una condizione che definirei di "adolescenti senza adolescenza". Penso che a questo periodo di transizione sarebbe necessario porre molta più attenzione di quanto si faccia oggi. In ogni caso, le biografie di un numero crescente di persone con disabilità intellettiva ci stanno indicando che siamo all'interno di un percorso ormai tracciato verso il riconoscimento del loro diritto ad essere considerate e riconosciute come degli adulti. Ma come possiamo definire l'adultità di queste persone? Emerge uno stile particolare di "essere adulti" che accomuna le persone con disabilità intellettiva? Il loro essere adulti quanto coincide con l'immagine, peraltro sempre più sfuocata, dell'adulto normotopico?  Credo che nel prossimo futuro queste domande ci accompagneranno sempre più spesso. Per ora possiamo cominciare a dire che la loro presenza arricchisce la rappresentazione che tradizionalmente la nostra società ha costruito dell'adulto. In un'altra occasione ho provato a definire la condizione di queste persone come di "adulti semplici". Dove l'aggettivo "semplice" non va inteso in senso svalorizzante ma nella sua accezione etimologica di simplex, cioè "piegato una sola volta". Nel medioevo "i semplici" erano le erbe medicinali fondamentali per produrre i vari medicamenti. Prodotti essenziali, preziosi.  In questo senso si può pensare ad un adulto semplice come ad una presenza originale, a una persona diretta, senza infingimenti. Una persona che con la sua semplicità, che a volte diventa poetica, ci aiuta a comprendere meglio processi e dinamiche che riguardano tutti gli esseri umani ma che nelle persone cosiddette "normotipiche" restano spesso indecifrabili perché nascoste dalla complessità e dall'ambiguità. 

Questa è una domanda un po' provocatoria: perché parlare di percorsi lavorativi anche per persone con disabilità intellettive? Te la pongo perché credo che in fondo sia una domanda che in molti si fanno ancora; non basta che le persone abbiano un “tempo occupato”? Cioè, quando si parla di disabilità intellettive la questione lavorativa rimane in secondo piano, non la prendiamo sul serio. Quasi tutte le persone intervistate in questo progetto hanno esperienza di tirocini di inclusione sociale, percorsi che si rinnovano periodicamente, cambiando anche di contesto in contesto, anche per 20 anni. Verrebbe da dire che le persone con disabilità intellettiva non possono fare che percorsi di questo tipo, non possono aspirare ad ottenere un’occupazione lavorativa?

È molto difficile rispondere a questa domanda. Provo a farlo ma anche in questo caso è necessaria una premessa. Il mondo del lavoro non presenta quasi mai contesti naturalmente accoglienti. A ciò occorre aggiungere che gli spazi di cambiamento organizzativo che le aziende riescono a mettere in atto per essere più accoglienti verso le esigenze soggettive dei loro dipendenti sono, per una varietà di motivi che qui non possiamo analizzare, abbastanza ridotti. Tutte le persone (soprattutto nel caso del lavoro dipendente) quando lavorano sono chiamate a continui compromessi tra le loro esigenze personali e le richieste di adattamento che vengono dall'organizzazione.  Occorre adattarsi ad un orario di lavoro, ad una gerarchia organizzativa, a delle aspettative di ruolo, a delle richieste di performance produttiva e via dicendo. In particolare, quando queste richieste di adattamento interessano le persone con disabilità intellettiva esse rischiano di trasformarsi in vere e proprie barriere all'inclusione. Per questo, ben prima che si parlasse di accomodamento ragionevole, si sono individuati una serie di facilitatori che potremmo genericamente individuare, in primis, nei servizi e negli operatori che curano l'accompagnamento al lavoro di queste persone. Sul piano metodologico, ciò che di solito viene messo in campo per favorire un adattamento reciproco tra persona con una disabilità complessa e azienda sono dei dispositivi di mediazione che in una prima fase riguardano la dimensione dell'"imparare a lavorare" più che quella dell'"imparare un lavoro".  Normalmente queste attività rivolte all'imparare a lavorare vengono avviate per persone giovani all'interno di aziende che si rendono disponibili per periodi di "formazione in situazione". Questa parte del processo di accompagnamento ha come obiettivo primario quello di permettere alla persona con disabilità intellettiva di realizzare quei processi di socializzazione al lavoro, alla sua cultura e alle sue regole che sono propedeutici alla assunzione di un ruolo lavorativo. Naturalmente questo processo di adattamento non è unidirezionale, anche le aziende debbono e possono fare la loro parte in queste dinamiche di assimilazione e accomodamento. Tuttavia è importante ricordare, al fine di disporre di una visione realistica, che le aziende spendono, per ragioni di sopravvivenza, molte delle loro energie per mantenere uno stato di omeostasi organizzativa. Ed è anche per questo che fanno fatica ad avviare processi di apertura e di cambiamento. Le esperienze di "formazione in situazione" possono avere diversi esiti ma due sono quelli più frequenti. Il primo, quello più auspicabile, è che il percorso di inclusione lavorativa continui, anche se non necessariamente nella stessa azienda, e si concluda con l'assunzione a tutti gli effetti del lavoratore disabile. Il secondo esito è riferibile a tutte quelle situazioni nelle quali ci si trova di fronte, magari dopo avere avviato diverse esperienze di tirocinio formativo, ad una complessità relativa alla tenuta dei ritmi di lavoro, alla qualità di esecuzione del compito, alla affaticabilità, alla necessità di supervisione. Si tratta, di solito, di situazioni lavorative dalle quali le persone con disabilità ricavano un notevole benessere personale anche se, oggettivamente, il loro apporto sul piano produttivo non è tale da rendere possibile lo stabilirsi di un contratto di lavoro. Che cosa fare in questi casi? Personalmente sono convinto che di fronte a queste situazioni non si debba ragionare in termini ideologici ma piuttosto facendo riferimento al buon senso chiedendosi "cosa lascio e cosa trovo". In altri termini, qual è l'alternativa per queste persone?  La risposta mi sembra evidente: uscire da un percorso lavorativo comunque finalizzato alla crescita seppure senza l'assunzione significa, con molte probabilità, finire per entrare o rientrare nel mondo fatato di Peter Pan. Ecco allora che uno strumento come quello del "tirocinio sociale” può risultare utile per garantire comunque a queste persone una permanenza significativa nel mondo del lavoro. Occorre però che esistano alcune garanzie per un uso corretto di questo strumento al fine di evitare quello che si paventa nella domanda e cioè che questo dispositivo venga usato indiscriminatamente per tutte le persone che presentano una disabilità intellettiva. Prima di tutto è necessario che una persona alla quale viene proposto questo strumento sia stata conosciuta e osservata in un contesto lavorativo o in un ambiente formativo per un tempo congruo. In modo da essere certi che stiamo proponendo lo strumento giusto alla persona giusta. Secondariamente occorre una forte presenza del servizio pubblico (peraltro obbligatoriamente prevista dal progetto) che deve farsi garante che le caratteristiche della persona giustificano l'uso di uno strumento di permanenza nel mondo del lavoro senza il corrispettivo economico contrattualmente previsto per gli altri lavoratori. Terza condizione: serve un continuo monitoraggio da parte dei servizi responsabili del progetto di inclusione sociale in modo da poter prevedere e prevenire possibili situazioni problematiche ma, soprattutto, per poter cogliere evoluzioni positive del percorso intrapreso. La quarta garanzia riguarda la dimensione economica. Occorre individuare attraverso lo strumento del "budget di progetto" una serie di risorse economiche che seppure in modo parziale possano compensare la mancata assunzione da parte dell'azienda ospitante. Ne nomino tre: una diversa finalizzazione delle pensioni di invalidità (visto che molti dei soggetti titolari di questo dispositivo sono al di sopra del 75% di IC), un contributo da parte dell'azienda ospitante come riconoscimento dell'impegno lavorativo, un premio di incentivazione da parte dell'ente titolare del progetto. Dotato di queste garanzie il progetto di Inclusione Sociale smette di essere un progetto di serie B e può acquisire una sua dignità come dispositivo per garantire una vita lavorativa significativa anche a persone con una disabilità complessa.

Il lavoro è davvero strumento di emancipazione e cittadinanza? In un’ottica globale della persona, mi sembra interessante vedere il lavoro dentro ad un’esperienza più ampia: in quale relazione sta il lavoro con il resto della vita? E quando il percorso lavorativo non coincide con il desiderio? Con il che “cosa vorrei fare da grande”? Quanto nelle progettazioni si lavora a partire da cosa la persona desidera per sé? Come devono essere strutturati i percorsi di inclusione lavorativa perché siano efficaci?

Penso che il lavoro sia uno strumento di emancipazione quando aumenta il benessere delle persone, le aiuta a vivere meglio contribuendo a dare un senso alla loro esistenza e a favorire i legami sociali all'interno della comunità. Non tutti i lavori presentano queste caratteristiche. Per questo credo occorra guardare al lavoro per le persone disabili in modo non ideologico. Valutando bene quando il lavoro può essere davvero uno strumento emancipativo nei confronti della persona, delle sue caratteristiche, dei suoi bisogni, delle sue capacità.  Anche i tempi con i quali si propone il lavoro alle persone dovrebbero essere attentamente considerati. A volte per una persona fragile doversi confrontare con l'impegno lavorativo nel momento sbagliato può essere troppo faticoso e, in qualche caso, addirittura pericoloso. Ma quali caratteristiche dovrebbe avere un lavoro per essere uno strumento emancipativo? Provo a fare un breve elenco al condizionale e, naturalmente, incompleto. Dovrebbe essere un’attività che presenta dei compiti non troppo difficili ma stimolanti e che consenta alla persona di sentirsi efficace e considerata dagli altri. Dovrebbe rappresentare una occasione per dare un senso al tempo di vita della persona. Dovrebbe essere l'occasione per aumentare gli interessi della persona anche in altri campi. Dovrebbe essere uno strumento per partecipare alla costruzione del bene comune. Dovrebbe essere una opportunità per arricchire il mondo relazionale della persona favorendo i processi di socializzazione. Dovrebbe rappresentare uno dei pilastri sui quali costruire la propria identità, cioè trovare una risposta alla domanda "chi sono io"? E, infine, per cogliere un aspetto importante della domanda iniziale, dovrebbe rispondere (per quanto possibile) ai desideri della persona. Quest'ultimo aspetto è molto importante perché per lavorare occorre che ci sia un desiderio a farlo. Il problema, in particolare con le persone con disabilità intellettiva, è quello dell'educazione del desiderio. Cioè di aiutare la persona ad indirizzare realisticamente il desiderio non solo verso ciò che è desiderabile ma anche verso ciò che è possibile. In questo senso è chiaro che occorre partire dai desideri della persona, valorizzando i suoi talenti, aiutandola però a fare i conti con i suoi limiti e con i limiti della realtà del mondo del lavoro. Per l'ultima parte della domanda circa come devono essere strutturati i percorsi di inclusione lavorativa direi, riprendendo in parte quanto già sottolineato precedentemente, che le esperienze più efficaci sono quelle che si sono dotate di una "metodologia della mediazione al lavoro". In sintesi: occorrono prima di tutto professionisti dedicati a questo compito che io definirei come "operatori esperti nei processi di inclusione socio lavorativa". Questi operatori dovrebbero avere a disposizione almeno tre strumenti di mediazione che siano in grado di coprire la distanza che esiste tra scuola e lavoro. Uno strumento iniziale dovrebbe essere già attivo negli ultimi due anni della scuola superiore e dovrebbe consentire un processo di osservazione e orientamento. Un altro dispositivo è quello che ho definito di "formazione in situazione" cioè di tirocini in azienda finalizzati ad "imparare a lavorare" Al termine della formazione in situazione si dovrebbe disporre di due ultimi dispositivi. Uno finalizzato alla assunzione anche attraverso la legge 68/99 e l'altro di cui abbiamo discusso precedentemente e che abbiamo definito di "inclusione sociale", rivolto alle persone con una maggiore complessità. Nel fare percorsi di inclusione lavorativa, pensando a persone con disabilità intellettive e relazioni, quanto è importante lavorare sul contesto di riferimento (azienda)? Chi ci lavora? Quali sostegni pianificare? Se la disabilità, come afferma la Convenzione Onu, nasce dall'incontro tra le caratteristiche di una persona e le barriere che questa persona incontra nel suo ambiente di vita, allora è evidente che lavorare sul contesto è essenziale. Naturalmente, nel caso di un contesto aziendale dobbiamo porre attenzione sia alle sue componenti psico sociali e relazionali sia alle componenti operative, legate al processo produttivo.

Il sociologo Leonardo Callegari ha studiato molto il tema dei contesti aziendali individuando alcune peculiarità che caratterizzano i contesti più inclini, più aperti rispetto all'inclusione di persone con disabilità. Nel suo lavoro di ricerca Callegari indica sei tratti connotativi che possono qualificare un'azienda prossimale. Questi tratti sono:

- La capacità di accoglienza. Cioè la propensione non solo ad accettare la persona con disabilità ma ad integrarla attivamente nella compagine lavorativa.

 - La reciprocità adattiva. Intesa come la capacità di assorbire, fare proprie le differenze e le soggettività dei lavoratori apportando anche cambiamenti organizzativi.

- La supportività nei rapporti professionali e sociali. Cioè la propensione del contesto a non lasciare sole le persone, soprattutto nelle fasi iniziali di socializzazione al lavoro oppure di fronte a nuovi compiti o a nuove condizioni di tipo socio-relazionale

- L’attivazione motivazionale a sostegno dei processi di apprendimento della persona disabile.

- L’attitudine del contesto ad auto apprendere esso stesso dalle esperienze e dalle difficoltà.

- La capacità di generare identificazione e senso di appartenenza. Di essere cioè un contesto amico, esigente magari, ma solidale e comprensivo.

Come ho affermato precedentemente ogni contesto aziendale presenta le sue peculiarità, a volte molte vicine ai tratti connotativi un'azienda prossimale altre volte indicativi di un sistema più distante, meno disponibile. Tuttavia, sia in un caso che nell'altro, occorre che la persona disabile e l'azienda non vengano lasciati soli in questo processo di avvicinamento reciproco. Per questo rimane fondamentale, a mio vedere, la presenza di servizi di mediazione al lavoro all'interno dei quali possano operare degli operatori esperti nei processi di inclusione socio lavorativa, dotati di specifici dispositivi di mediazione. L'esperienza ci insegna che questo è il primo e più importante sostegno che la comunità deve mettere a disposizione per garantire che il lavoro possa entrare a far parte del progetto di vita del maggior numero di persone. 

 

Il testo compare nel libro del Gruppo Solidarietà,  STORIE DI VITA. Genitori e giovani con disabilità si raccontano (2024).

Vedi anche, Raccontiamo noi l’inclusione. Le interviste integrali e il precedente libro del Gruppo Solidarietà, Raccontiamo noi l’inclusione. Storie di disabilità (2014).

Nello stesso volume anche:  Gloria Gagliardini, Disabilità. Le storie di vita e lo sguardo dal basso e Carlo Francescutti,  Persone con disabilità. La transizione dall'adolescenza all’età adulta. Come accompagnare alla vita.

Tutti i numeri della rivista, fino al 2022, sono disponibili con accesso gratuito.

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